Sentenza N. 39 del 1965
Corte Costituzionale
Data generale
31/05/1965
Data deposito/pubblicazione
31/05/1965
Data dell'udienza in cui è stato assunto
13/05/1965
GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO – Prof. ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER
– Prof. GIOVANNI CASSANDRO – Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO
MANCA – Prof. ALDO SANDULLI – Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE
FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott.
GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO
PAOLO BONIFACIO, Giudici,
Codice penale, promosso con ordinanza emessa il 21 febbraio 1964 dal
Tribunale di Cuneo nel procedimento penale a carico di Invernizzi Maria
Francesca, iscritta al n. 44 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 91 dell’11 aprile 1964.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 20 gennaio 1965 la relazione del
Giudice Giuseppe Chiarelli;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Raffaele Bronzini,
per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel procedimento penale pendente davanti al Tribunale di Cuneo, a
carico di Maria Francesca Invernizzi, imputata del reato di vilipendio
della religione dello Stato, è stata sollevata questione di
legittimità costituzionale dell’art. 402 del Codice penale, in
relazione agli artt. 3, 8, 19 e 20 della Costituzione.
Il Tribunale, considerando che tale articolo, raffrontato con
l’art. 406 dello stesso Codice, riserva un trattamento di particolare
privilegio alla religione cattolica, che sarebbe in contrasto col
principio dell’eguaglianza delle religioni quale si desume dai
menzionati articoli della Costituzione, ha ritenuto la questione non
manifestamente infondata, disponendo, con ordinanza 21 febbraio 1964,
la trasmissione degli atti a questa Corte. L’ordinanza è stata
regolarmente notificata, comunicata e pubblicata.
Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato dall’Avvocato generale dello Stato, con atto di
intervento 28 aprile 1964, depositato il 30 successivo.
In tale atto si rileva che la questione della tutela penale
accordata dal legislatore alla religione cattolica è stata già
esaminata in precedenti decisioni di questa Corte, al cui contenuto si
fa ampiamente richiamo, per dedurne che la norma dell’art. 402 del
Codice penale, mentre non contrasta col principio di libertà delle
varie confessioni religiose, sancito negli artt. 8, 19 e 20 della
Costituzione, trova il suo fondamento sia nella posizione giuridica
differenziata della religione cattolica rispetto a quella delle altre
confessioni religiose quale risulta dal nostro ordinamento, sia nella
valutazione discrezionale riservata al legislatore ordinario di tener
conto della maggior diffusione del culto cattolico in Italia e del
profondo e più vasto turbamento sociale prodotto dalle offese rivolte
alla detta religione.
Per quanto riguarda il riferimento all’art. 3 della Costituzione,
si osserva che la diversità di posizione della Chiesa cattolica e
delle altre confessioni non tocca l’eguaglianza giuridica dei
cittadini, i quali non hanno maggiori o minori doveri verso lo Stato o
gli enti pubblici per il fatto di appartenere all’una o all’altra
confessione. D’altra parte, poiché gli artt. 7 e 8 della Costituzione
riservano alla Chiesa cattolica il trattamento fissato dai Patti
lateranensi, e alle altre confessioni quello che risulterà da leggi da
emanarsi sulla base di intese con le rispettive rappresentanze, è
giustificato che la religione cattolica sia penalmente protetta dal
vilipendio.
L’atto di intervento del Presidente del Consiglio conclude con la
richiesta che la sollevata questione sia dichiarata manifestamente
infondata.
I predetti argomenti sono stati ulteriormente sviluppati in una
successiva memoria e nella discussione orale.
La Invernizzi non si è costituita.
1. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 402 del
Codice penale, in riferimento agli artt. 3, 8, 19 e 20 della
Costituzione, non è fondata.
L’art. 3 della Costituzione, nello stabilire l’eguaglianza di tutti
i cittadini davanti alla legge, esplicitamente esclude che la
differenza di religione possa dar luogo a differenza di trattamento dei
cittadini stessi.
Con questa fondamentale norma costituzionale non contrasta l’art.
402 del Codice penale, il cui precetto indistintamente si riferisce a
tutti i destinatari della norma penale, qualunque sia la loro
religione. È ovvia considerazione che il reato di vilipendio previsto
da quell’articolo può essere compiuto da chi appartiene a religione
diversa dalla cattolica come da chi appartiene a quest’ultima, o a
nessuna religione, non avendo alcuna rilevanza, nella identificazione
del soggetto attivo del reato, la fede religiosa dell’agente.
Né può dirsi che l’art. 402 violi l’eguaglianza giuridica dei
cittadini in relazione al soggetto passivo del reato, in quanto crei
una condizione di favore per coloro che professano la religione
cattolica.
La norma dell’art. 402 non protegge la religione cattolica come
bene individuale di coloro che vi appartengono, né attribuisce ad essi
alcun personale vantaggio, giuridicamente tutelabile; il titolare
dell’interesse protetto non è, pertanto, il singolo appartenente alla
religione cattolica.
Deve quindi riconoscersi che la norma impugnata non incide sul
principio dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giacché
non dà luogo a una distinzione nella loro posizione giuridica, basata
sulla religione da ciascuno professata.
2. – L’art. 402 del Codice penale non viola neanche il principio
dell’uguale libertà delle confessioni religiose, affermato nell’art.
8, primo comma, della Costituzione.
L’uguale protezione della libertà delle religioni, come tutela
delle manifestazioni individuali o associate di fede religiosa, non
esclude che l’ordinamento giuridico possa considerare differentemente
le varie confessioni, in relazione alla loro diversa rilevanza nella
comunità statale, sempre che la distinzione così posta non importi
limitazione della libertà di ciascuna confessione o di alcune di esse.
Ciò trova conferma nella stessa Costituzione, la quale, com’è ben
noto, attribuisce una particolare posizione alla religione cattolica
nel secondo e terzo comma dello stesso art. 8, oltre che nell’art. 7.
In particolare, l’uguale diritto alla libertà, riconosciuto a
tutte le confessioni religiose, non significa diritto a una uguale
tutela penale, giacché quest’ultima può essere disposta non solo a
protezione della libertà di ciascuna confessione, ma anche a
protezione del sentimento religioso della maggioranza dei cittadini,
purché da ciò non derivi limitazione di quella libertà.
La maggiore ampiezza e intensità della tutela penale che
l’ordinamento italiano assicura alla religione cattolica corrisponde,
come questa Corte ha già rilevato (sentenza n. 125 del 1957 e n. 79
del 1958), alla maggiore ampiezza e intensità delle reazioni sociali
che suscitano le offese ad essa, in quanto religione professata dalla
maggior parte degli italiani. La rilevanza attribuita a questa
circostanza, sia col considerare come reato il cosiddetto vilipendio
non qualificato solo in relazione alla religione cattolica (art. 402),
sia col disporre una diversa misura di pena per i reati di vilipendio
contro persone o cose, secondo la loro appartenenza alla religione
cattolica o ad altri culti (art. 406), non contrasta con l’art. 8.
primo comma, della Costituzione. Essa infatti, mentre trova riscontro
nella già ricordata posizione che la Costituzione riconosce alla
Chiesa cattolica, non influisce sul libero svolgimento delle attività
delle altre confessioni, né limita le manifestazioni di fede religiosa
di coloro che non appartengono alla religione cattolica.
3. – L’incriminazione del vilipendio della religione cattolica non
limita, infatti, il diritto, a tutti riconosciuto dall’art. 19 della
Costituzione, di professare la propria fede religiosa in qualsiasi
forma, di farne propaganda e di esercitarne il culto con riti non
contrari al buon costume.
E fuori dubbio che il vilipendio della religione altrui non rientra
in queste manifestazioni di fede religiosa, garantite dalla
Costituzione; esso non è un modo di professare la propria fede, di
farne propaganda, e meno che mai di esercitarne il culto. E vero che il
diritto di professare una religione e farne propaganda implica il
diritto, ugualmente garantito dalla Costituzione, di manifestare il
proprio pensiero su religioni diverse dalla propria e di farne oggetto
di discussione, ma questo diritto non comprende il poter vilipendere la
religione altrui, recando ad essa grave offesa e facendola oggetto di
pubblico dileggio.
L’illiceità penale del vilipendio, anche se stabilita soltanto in
riferimento alla religione professata dalla maggioranza dei cittadini,
non limita, perciò, diritti riconosciuti dall’art. 19 della
Costituzione.
D’altra parte, questi diritti trovano tutela negli artt. 403-406
del Codice penale, i quali proteggono dal vilipendio le persone che
professano una religione, le cose destinate all’esercizio del culto e
gli atti in cui questo si manifesta.
4. – Le ragioni innanzi esposte valgono anche a escludere la
violazione dell’art. 20 della Costituzione.
Quest’articolo vieta che possano essere stabilite speciali
limitazioni legislative o imposti speciali gravami fiscali a carico di
una associazione o di una istituzione, a causa del suo carattere
ecclesiastico o del suo fine religioso.
Ma dall’art. 402 del Codice penale non deriva, nemmeno
indirettamente, alcuna limitazione della sfera di capacità e di
attività delle confessioni diverse dalla cattolica.
Né in esso, in quanto contiene una norma speciale di favore per la
religione cattolica, può ravvisarsi un contrasto con l’art. 20 della
Costituzione.
A parte che, così impostata, la questione di costituzionalità non
troverebbe riscontro nell’art. 20, che esclude i trattamenti speciali
restrittivi, ma rientrerebbe nella questione già esaminata a proposito
dell’art. 8 della Costituzione, va considerato che l’art. 402 del
Codice penale non tutela una sfera di capacità e di attività della
Chiesa cattolica più vasta di quella tutelata per le altre confessioni
religiose, giacché il bene da esso penalmente protetto non è la
capacità giuridica e di agire della Chiesa cattolica, ma è, come si
è innanzi rilevato, il sentimento religioso della maggioranza degli
italiani.
Anche sotto questo rimesso, quindi, la proposta questione di
legittimità costituzionale non ha fondamento.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 402 del Codice penale, in riferimento agli artt. 3, 8, 19 e
20 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 13 maggio 1965.
GASPARE AMBROSINI – GIUSEPPE CASTELLI
AVOLIO – ANTONINO PAPALDO – NICOLA
JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO – BIAGIO
PETROCELLI – ANTONIO MANCA – ALDO
SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA – MICHELE
FRAGALI – COSTANTINO MORTATI –
GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO.