Sentenza N. 392 del 1994
Corte Costituzionale
Data generale
17/11/1994
Data deposito/pubblicazione
17/11/1994
Data dell'udienza in cui è stato assunto
10/11/1994
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, avv. Mauro
FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, prof. Giuliano
VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO;
previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni
fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre
1992, n. 438 e dell’art. 6, primo comma, del decreto-legge 29 marzo
1991, n. 103 (Disposizioni urgenti in materia previdenziale),
convertito, con modificazioni, nella legge 1 giugno 1991, n. 166,
promosso con ordinanza emessa il 13 maggio 1993 dal Pretore di
Brescia nel procedimento civile vertente tra Zeni Angela e l’Inps,
iscritta al n. 788 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale,
dell’anno 1994;
Visti gli atti di costituzione di Zeni Angela e dell’Inps, nonché
l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 25 ottobre 1994 il Giudice
relatore Gabriele Pescatore;
Udito l’avv. Carlo De Angelis per l’Inps.
promosso da Zeni Angela nei confronti dell’Inps per il riconoscimento
dell’integrazione al trattamento minimo della pensione indiretta sino
al 30 settembre 1983 e conseguente “cristallizzazione” dello stesso
per il periodo successivo, con ordinanza del 13 maggio 1993 (R.O. n.
788 del 1993), ha sollevato, in riferimento all’art. 38 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4
della legge 14 novembre 1992, n. 432 – rectius, dell’art. 4 del d.-l.
19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, nella legge
14 novembre 1992, n. 438 – nella parte in cui prevede un termine
decadenziale che inciderebbe sul diritto alle prestazioni
pensionistiche.
Osserva il giudice remittente che la disposizione de qua,
travolgendo la norma di interpretazione autentica dell’art. 47 del
d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639 di cui all’art. 6 del d.-l. n. 103 del
1991, che ha limitato la sanzione decadenziale ai soli ratei
pregressi delle prestazioni previdenziali, violerebbe il principio
costituzionale di imprescrittibilità del diritto alla pensione in
sé considerato. Di qui il contrasto con l’art. 38 della
Costituzione.
Il giudice a quo rileva che, in caso di accoglimento della
questione sollevata, troverebbe nuovamente applicazione il citato
art. 6, primo comma, del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con
modificazioni, nella legge 1 giugno 1991, n. 166. Ma anche tale norma
sarebbe illegittima per contrasto con gli artt. 38 e 3 della
Costituzione.
Il remittente si fa carico della sentenza della Corte n. 246 del
1992, che ha respinto le analoghe censure sollevate nei confronti
della norma, sul rilievo della sola estinzione, a seguito di
decorrenza del termine decennale di decadenza, dei singoli ratei, e
non del diritto alla pensione.
Ma proprio tale conclusione della Corte non sarebbe condivisibile,
in quanto fondata sulla negazione della estinzione del diritto alla
pensione, mentre nella fattispecie oggetto del giudizio a quo la
norma in questione avrebbe determinato proprio tale effetto.
L’ordinanza muove dalla considerazione che la norma dispone la
estinzione per decadenza del diritto ai ratei “pregressi” e non ai
“singoli” ratei delle prestazioni previdenziali, cui, invece, nella
stessa disposizione si fa riferimento per indicare che
dall’insorgenza del relativo diritto decorrono i termini decadenziali
in caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo. Pertanto,
nella fattispecie, venendo meno la possibilità di attribuzione, per
effetto del decorso del termine di decadenza decennale,
dell’integrazione al trattamento minimo per il rateo di pensione
afferente alla data del 30 settembre 1983, verrebbe ad estinguersi
concretamente e totalmente ogni possibilità di integrazione, nonché
di cristallizzazione di detto trattamento per il periodo successivo
al 30 settembre 1983. In proposito, nell’ordinanza si richiama l’art.
6, settimo comma, del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito,
con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638, che prevede
testualmente che l’importo erogato alla data di cessazione del
diritto alla integrazione viene conservato sino al suo superamento,
ciò che comporterebbe, stante l’utilizzazione del termine “erogato”,
la possibilità di conservazione dell’integrazione al trattamento
minimo solo nel caso in cui sussista concreto pagamento della
prestazione relativa al rateo precedente la data di cessazione del
diritto.
In definitiva, la norma censurata, nella parte in cui afferma che
la decadenza determina l’estinzione del diritto ai “ratei pregressi”
(cioè precedenti la data di presentazione della domanda giudiziale),
e non ai “singoli” ratei delle prestazioni previdenziali, negando
sostanzialmente, per le ragioni anzidette, il diritto alla pensione a
chi si trovi nella situazione descritta, violerebbe l’art. 38 della
Costituzione; diversificando irrazionalmente nel trattamento
giuridico le identiche situazioni di diritto sostanziale dei titolari
di trattamenti pensionistici dell’Inps, recherebbe vulnus all’art. 3
della Costituzione.
2. – Nel giudizio davanti alla Corte si è costituita la
ricorrente Zeni Angela concludendo per la inammissibilità per
irrilevanza delle questioni sollevate, e, in subordine, per
l’accoglimento delle stesse.
Quanto all’art. 4 del d.-l. n. 384 del 1992, la irrilevanza nel
giudizio a quo deriverebbe dalla circostanza che, trattandosi di
procedimento già instaurato prima della emanazione della norma, si
sarebbe dovuta applicare la norma transitoria di cui al terzo comma
dello stesso articolo 4, che espressamente esclude tali ipotesi dalla
nuova disciplina decadenziale.
Inammissibile sarebbe, sempre per irrilevanza, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 6 del d.-l. n. 103 del 1991.
Nella fattispecie sottoposta all’esame del giudice a quo non si
verificherebbe quel travolgimento del diritto alla pensione,
censurato dal remittente. Infatti, la decadenza, proprio per la
interpretazione della norma fornita dalla Corte con la sentenza n.
246 del 1992, avrebbe un effetto limitato ai ratei pregressi, mentre
sarebbero salvi i ratei precedenti nell’ambito del decennio anteriore
all’azione, adeguati al minimo, e quindi la cristallizzazione di
quanto percepito anche per i periodi successivi.
Solo per l’ipotesi in cui non si acceda a tale tesi, la difesa
riserva la richiesta di illegittimità costituzionale.
3. – Si è costituito, altresì, l’Istituto nazionale della
previdenza sociale, che ha richiesto una pronuncia di manifesta
infondatezza ritenendo che la tesi del Pretore sarebbe del tutto
dissimile da quella sostenuta dalla Corte e dal diritto vivente.
4. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, che
ha concluso per la inammissibilità o la infondatezza della
questione.
5. – Nell’imminenza dell’udienza, le parti costituite hanno
depositato memorie.
La ricorrente ha, in particolare, osservato che la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.-l. n. 384 del 1992 è
già stata affrontata dalla Corte con la sentenza n. 20 del 1994.
Quanto alla denuncia dell’art. 6 del d.-l. n. 103 del 1991, viene
ribadita nella memoria la inesattezza della interpretazione del
giudice a quo, secondo cui la decadenza determinerebbe l’abbattimento
di tutti i ratei precedenti, con la conseguente perdita della
cristallizzazione, non spettante a chi non fosse in godimento del
minimo all’entrata in vigore del d.-l. n. 463 del 1983.
Al riguardo, si rileva che il sistema di computo dei termini di
decadenza indicato nell’ultima parte del primo comma dell’art. 6 in
caso di mancato ricorso, fornisce anche il canone di individuazione
dei ratei stessi che vengono fatti salvi dalla decadenza. Se,
infatti, il termine decorre per singoli ratei, l’esperimento
dell’azione in una data determinata andrà a coprire il decennio
precedente facendo salvo il diritto ai ratei in esso ricompresi ed
estinguendo quello relativo ai ratei ancora precedenti. Solo in via
subordinata, qualora non sia accolta, con tale linea interpretativa,
la tesi della infondatezza della questione, la Zeni richiede la
pronuncia d’illegittimità costituzionale.
6. – Nella memoria dell’Inps si osserva che i ratei pregressi, sui
quali opera la decadenza secondo la norma di cui all’art. 6 del d.-l.
n. 103 del 1991, sono quelli maturati anteriormente alla domanda
giudiziale, e che la decadenza determina, oltre alla estinzione del
diritto a percepire quei ratei, anche l’inammissibilità della
relativa domanda giudiziale. Questo, si osserva, non incide sul
diritto alla pensione, in quanto non esclude il diritto ai ratei
successivi alla proposizione della domanda giudiziale.
D’altra parte, l’espressione usata dal legislatore per indicare la
decorrenza del termine decadenziale nel caso di mancata proposizione
del ricorso amministrativo, cioè la “insorgenza del diritto ai
singoli ratei”, non potrebbe che essere intesa nel senso del fatto
generatore della prestazione previdenziale, e cioè del provvedimento
di liquidazione, ponendosi il pagamento dei singoli ratei di pensione
come esecuzione di una prestazione periodica, oggetto di una
obbligazione di durata.
Se la norma fosse interpretata nel senso che in caso di mancata
proposizione del ricorso amministrativo, il termine decorre dal
pagamento del singolo rateo, sì da prevedere per ogni rateo di
pensione un termine di dieci anni per adire l’autorità giudiziaria,
si creerebbe una manifesta disparità di trattamento tra coloro che
hanno proposto ricorso amministrativo, per i quali il termine di
decadenza decorre dalla data di comunicazione dell’esito del ricorso,
e coloro che, non avendo proposto ricorso, godrebbero del termine su
ogni singolo rateo, potendo così procrastinare indefinitamente
l’eventuale ricorso all’autorità giudiziaria.
7. – Anche l’Avvocatura dello Stato ha depositato una memoria con
la quale insiste per la inammissibilità o la infondatezza delle
questioni.
Rileva al riguardo che, quanto all’art. 4 del d.-l. n. 384 del
1992, il Pretore non ne ha valutato l’applicabilità nel caso di specie, non tenendo conto del terzo comma dello stesso articolo, che
dispone l’esclusione della nuova disciplina per i procedimenti
instaurati anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto,
ancora in corso alla medesima data. Nel merito, l’Avvocatura richiama
la sentenza della Corte costituzionale n. 20 del 1994.
Anche con riferimento alla denuncia dell’art. 6 del d.-l. n. 103
del 1991, si osserva che nella ordinanza di rimessione non è
valutata la rilevanza della questione nel giudizio a quo. Nel merito,
una interpretazione della norma conforme ai principi costituzionali
conduce, secondo l’Avvocatura, ad escludere, dovendosi comunque far
salva la imprescrittibilità del diritto alla pensione, che nel caso
in cui si sia interrotta la continuità della erogazione di essa, non
si conserverebbe neppure il diritto ai ratei successivi.
costituzionale dell’art. 4 del d.-l. 19 settembre 1992, n. 384,
convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438,
nella parte in cui, sostituendo il secondo e il terzo comma dell’art.
47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, riduce da decennale a triennale
il termine di decadenza dall’azione giudiziaria per le controversie
in materia di trattamenti pensionistici. Esso avrebbe “travolto” la
norma di interpretazione autentica di detto art. 47, di cui all’art.
6 del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con modificazioni,
nella legge 1 giugno 1991, n. 166, che aveva limitato la sanzione
decadenziale ai soli ratei pregressi delle prestazioni previdenziali
salvaguardando il principio costituzionale di imprescrittibilità del
diritto alla pensione per sé considerato.
L’attuale dizione della norma impugnata non consentirebbe la
limitazione della operatività della decadenza ai soli ratei
pregressi e comporterebbe, pertanto, l’estinzione del diritto alla
prestazione. Di qui il lamentato contrasto con l’art. 38 della
Costituzione.
2. – In conformità alle eccezioni formulate dalla parte privata e
dall’Avvocatura dello Stato, la questione deve essere dichiarata
inammissibile. Il remittente ha, infatti, pretermesso ogni
valutazione sull’applicabilità alla fattispecie sottoposta al suo
esame dell’impugnato art. 4 in relazione al terzo comma dello stesso
articolo, che esclude l’estensione della nuova disciplina ai
procedimenti instaurati anteriormente alla data di entrata in vigore
del d.-l. n. 384 del 1992 (19 settembre 1992) ancora in corso alla
medesima data.
Al riguardo, questa Corte, con la sentenza n. 20 del 1994 –
emessa, peraltro, in epoca successiva alla ordinanza di remissione di
cui è causa – ha chiarito che va esclusa l’applicabilità del nuovo
regime decadenziale quando, in relazione al ricorso amministrativo
proposto anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, si
siano già verificati i presupposti di decorrenza del termine
previsto dalla legge precedente per la proposizione della domanda
giudiziale e questo sia ancora pendente a quella data.
3. – Il Pretore di Brescia ha impugnato anche l’art. 6, primo
comma, del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con
modificazioni, nella legge 1 giugno 1991, n. 166, in riferimento agli
artt. 38 e 3 della Costituzione.
La norma censurata fornisce un’interpretazione autentica dell’art.
47, commi secondo e terzo, del d.P.R. n. 639 del 1970, stabilendo che
i termini previsti da detto articolo sono posti a pena di decadenza
per l’esercizio del diritto alla prestazione previdenziale ed
aggiungendo che “la decadenza determina l’estinzione del diritto ai
ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l’inammissibilità
della relativa domanda giudiziale. In caso di mancata proposizione
del ricorso amministrativo, i termini decorrono dall’insorgenza del
diritto”.
Secondo il remittente, detta norma garantirebbe un ossequio solo
formale al principio costituzionale della imprescrittibilità del
diritto alla pensione, determinando, in concreto, l’estinzione dello
stesso diritto nei casi, come quello oggetto del giudizio a quo, di
integrazione al trattamento minimo relativamente al cumulo di
pensioni, in cui, non essendo stato erogato, per effetto del decorso
del termine decadenziale, il rateo di pensione afferente al 30
settembre 1983 (data di cessazione del diritto per disposizione
legislativa: art. 6, comma terzo, del d.-l. 12 settembre 1983, n.
463, convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n.
638), ed essendo, per la stessa ragione, travolti anche tutti i ratei
pregressi, verrebbe meno ogni possibilità di integrazione nonché di
“cristallizzazione” del detto trattamento per il periodo successivo.
Da ciò il remittente è indotto a sospettare il contrasto della
norma in questione, oltre che con l’art. 38, anche con l’art. 3 della
Costituzione per disparità di trattamento di identiche situazioni di
diritto sostanziale di titolari di pensioni Inps.
Il quesito è stato posto in via subordinata all’accoglimento
della prima questione, ritenendo il Pretore che una eventuale
declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.-l.
19 settembre 1992, n. 384 determinerebbe una reviviscenza dell’art. 6
del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103. Ma la rilevata inammissibilità della
questione sollevata in via principale rende inammissibile, in tale
prospettazione, anche la seconda (sentt. n. 208 del 1992, 408 del
1988).
Va, tuttavia, qui ribadito quanto già affermato da questa Corte
nella citata sentenza n. 20 del 1994, secondo cui l’art. 6 del d.-l.
n. 103 del 1991 si è integrato in una fattispecie normativa
complessa, formata dalla legge interpretata e da quella
interpretativa, mentre l’art. 4 del d.-l. n. 384 del 1992 ha
modificato solo la prima di tali componenti, senza abrogare l’altra.
Una volta ammessa la perdurante vigenza della norma di cui
all’art. 6 indipendentemente dalla caducazione di quella di cui
all’art. 4, ben può essere esaminata in via autonoma la censura
riferita alla prima.
3.2. – Anche relativamente ad essa è stata mossa dall’Avvocatura
dello Stato eccezione di inammissibilità per carenza di
individuazione degli elementi di rilevanza della questione.
L’eccezione merita accoglimento.
L’ordinanza si limita ad una generica indicazione del petitum e
della data del ricorso, mentre non contiene la menzione della
decorrenza del diritto vantato dalla ricorrente, né dell’eventuale
previo esperimento di ricorso amministrativo.
In tale situazione, mancano elementi idonei ad una ricostruzione
della fattispecie che consenta una valutazione completa
dell’applicabilità ad essa della normativa censurata.
Resta, in tal modo, assorbita la ulteriore eccezione di
inammissibilità per irrilevanza sollevata dalla parte privata
nell’atto di costituzione, sul presupposto della inidoneità della
norma impugnata a produrre, nella fattispecie oggetto del giudizio
principale, l’effetto, censurato dal giudice a quo, della estinzione
del diritto alla prestazione previdenziale.
Non può, tuttavia, sottacersi, al riguardo, che, anche a voler
ammettere, alla stregua dell’interpretazione del remittente, un
effetto estintivo del diritto (nella specie, del diritto alla
pensione), esso non sarebbe in alcun modo collegabile alla disciplina
della decadenza, derivando direttamente dalla norma sostanziale che
esclude dal 1 ottobre 1983, in caso di concorso di due pensioni, la
conservazione della integrazione al trattamento minimo per entrambe,
riservandola solo ad una di esse.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure
urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego,
nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella
legge 14 novembre 1992, n. 438, sollevata, in riferimento all’art. 38
della Costituzione, dal Pretore di Brescia con l’ordinanza in
epigrafe;
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 6, primo comma, del decreto-legge 29 marzo 1991, n. 103
(Disposizioni urgenti in materia previdenziale), convertito, con
modificazioni, nella legge 1 giugno 1991, n. 166, sollevata, in
riferimento agli artt. 38 e 3 della Costituzione, dal Pretore di
Brescia con la medesima ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 novembre 1994.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: PESCATORE
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 17 novembre 1994.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA