Sentenza N. 395 del 2000
Corte Costituzionale
Data generale
28/07/2000
Data deposito/pubblicazione
28/07/2000
Data dell'udienza in cui è stato assunto
13/07/2000
Presidente: Cesare MIRABELLI;
Giudici: Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI, Riccardo CHIEPPA,
Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Guido NEPPI
MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE,
Giovanni Maria FLICK;
seguenti del codice di procedura penale, promosso con ordinanza
emessa il 5 maggio 1999 dalla Corte di cassazione sul ricorso
proposto da Cervati Umberto, iscritta al n. 485 del registro
ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 39, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 21 giugno 2000 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
sollevato “questione di legittimità costituzionale degli
artt. 629/630 e ss. c.p.p., per contrasto con gli artt. 3 e 24 della
Costituzione, nella parte in cui non prevedono e non disciplinano la
revisione delle decisioni della Corte di cassazione per errore di
fatto (materiale e meramente percettivo) nella lettura di atti
interni al giudizio”. Ha premesso, in fatto, la Corte rimettente che,
con ordinanza del 21 dicembre 1998, la stessa Corte aveva dichiarato
l’inammissibilità, per mancanza di specifico mandato, del ricorso
proposto dal difensore dell’imputato contumace avverso la sentenza di
appello; che con ricorso depositato il 12 febbraio 1999, il
condannato contumace aveva chiesto alla medesima Corte “la revoca
della detta ordinanza, segnalando l’erroneità dell’assunto relativo
alla mancanza, in capo al suo difensore, del mandato specifico, al
contrario esistente e risultante agli atti del procedimento”; che il
Procuratore generale presso la Corte di cassazione chiedeva, con
requisitoria del 24 febbraio 1999, procedersi alla correzione
dell’errore materiale a norma dell’art. 130 cod. proc. pen. e che “in
questi termini qualificato ed impostato”, il procedimento perveniva
all’esame della Corte in udienza camerale, all’esito della quale
veniva di ufficio promosso l’incidente di costituzionalità con
l’ordinanza indicata in premessa.
Ha subito prospettato il giudice a quo l’impossibilità di
procedere alla correzione dell’errore materiale, giacché oggetto del
procedimento di cui all’art. 130 del codice di rito – come affermato
anche dalle Sezioni Unite della stessa Corte – possono essere
soltanto gli errori che, lasciando immutato il contenuto decisorio
della pronuncia, possono essere emendati all’esclusivo fine di
armonizzare l’estrinsecazione formale della decisione al suo reale
contenuto.
Dopo aver richiamato la sentenza di questa Corte n. 294 “dell’11
luglio 1991” (recte: del 1995), il giudice rimettente ha osservato
come i rilievi posti a base della ritenuta inammissibilità del
quesito allora formulato, potrebbero risultare superati “ove la
carenza di disciplina venisse ipotizzata e denunciata con specifico
riferimento ad una concreta ed individuata soluzione normativa”: una
soluzione che – osserva la Corte rimettente – potrebbe appunto
“essere quella dell’ampliamento dell’ambito di previsione
dell’istituto della revisione ipotizzando, dunque, come
costituzionalmente illegittimi gli artt. 629/630 e ss. c.p.p. nella
parte in cui non prevedono e non disciplinano la possibilità della
revisione delle decisioni (sentenze o ordinanze) della Corte di
cassazione nel caso di errore di fatto – meramente materiale e
percettivo (e cioè estraneo ad ogni profilo valutativo) – nel
controllo degli atti”. In tale prospettiva – soggiunge la Corte
rimettente – lo scrutinio di costituzionalità andrebbe condotto alla
stregua degli artt. 24 e 3 della Carta fondamentale: quanto al primo
degli indicati parametri – puntualizza infatti il giudice a quo –
sarebbe evidente la lesione del diritto alla tutela giurisdizionale
“inteso come diritto alla decisione, in termini di corrispondenza fra
chiesto e pronunciato”; così come risulterebbe evidente il contrasto
con l’art. 3 Cost., attesa l’irragionevolezza della disparità di
disciplina rispetto all’analoga ipotesi dell’errore commesso dal
giudice di merito, giacché avverso l’ordinanza di inammissibilità
dell’impugnazione, erroneamente emessa da tale giudice, è consentito
il ricorso per cassazione.
Dopo aver rammentato le pronunce di questa Corte in merito
all’art. 395 cod. proc. civ., il giudice a quo conclusivamente
osserva che “l’ipotizzato intervento additivo del giudice delle leggi
coinvolgerebbe anche, e necessariamente, da una parte, la disciplina
dei limiti di proponibilità dell’istanza (art. 631) e dall’altra,
quella relativa ai contenuti decisori della pronuncia della Corte di
cassazione (art. 637), discipline entrambe abbisognevoli del
conseguente adeguamento”.
Nessun dubbio – sottolinea infine il rimettente – sussisterebbe
in ordine alla rilevanza della questione, “attesa la possibilità –
che dalla revoca della erronea declaratoria di inammissibilità
deriverebbe – dell’esame del merito del ricorso a suo tempo proposto”
dal difensore del condannato, “peraltro con possibile pronuncia ai
sensi dell’art. 129 c.p.p. (prescrizione del reato)”.
2. – Nel giudizio ha spiegato atto di intervento il Presidente
del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile e comunque infondata, con riserva di dedurre. Con
successiva memoria la difesa erariale ha dedotto la inammissibilità
della questione, in quanto nel caso di specie – vertendosi in tema di
procedimento di correzione di errore materiale ex art. 130 cod. proc.
pen. – non possono trovare applicazione le norme della cui
costituzionalità si dubita. Non è stata infatti formulata richiesta
di revisione da nessuno dei soggetti legittimati a proporla a norma
dell’art. 632 cod. proc. pen., né può essere come tale interpretata
la richiesta di “revoca” che l’interessato ha rivolto alla stessa
Corte di cassazione e non con le forme ed alla autorità giudiziaria
di cui all’art. 633 del codice di rito.
Avvocatura generale dello Stato è fondata. Dalla stessa ordinanza di
rimessione emerge, infatti, che la richiesta di revoca formulata dal
ricorrente è stata qualificata e trattata alla stregua di domanda di
correzione di errore materiale a norma dell’art. 130 cod. proc.
pen. Ne consegue, dunque, che le norme formalmente sottoposte a
scrutinio di costituzionalità, cumulativamente additate negli artt.
“629/630 e ss.” del codice di procedura penale, non assumono
rilevanza alcuna agli effetti della decisione che la Corte di
cassazione – odierna rimettente – è chiamata ad adottare nel
procedimento a quo.
Va d’altra parte sottolineato come l’istituto della revisione –
per come è positivamente strutturato – si configuri come modello del
tutto eccentrico rispetto alle esigenze da preservare nel caso di
specie, avuto riguardo: sia alla diversità dell’organo chiamato a
celebrare tale giudizio (la corte di appello); sia alla duplicità di
fase (rescindente e rescissoria) che ne contraddistingue le cadenze;
sia alle stesse funzioni che tale istituto è chiamato a soddisfare
nel sistema. Nella ipotesi dedotta, infatti, non si tratta di
rimuovere gli effetti di una pronuncia di condanna “errata” per
alcune cause tipizzate dall’ordinamento e sostituire ad essa un nuovo
giudizio di cognizione, ma unicamente di caducare una pronuncia del
giudice di legittimità – fondata su di un “errore di fatto
(materiale e meramente percettivo) nella lettura di atti interni al
giudizio” – la quale ha indebitamente pretermesso di esaminare il
merito del ricorso. In sostanza, ciò che il quesito mira a
sollecitare è, a ben guardare, l’introduzione per via additiva di un
meccanismo di “autopurgazione” della erronea declaratoria di
inammissibilità del ricorso, analogo alle previsioni dettate dal
codice di procedura civile (artt. 391-bis e 395), come modellate a
seguito delle relative declaratorie di illegittimità costituzionale,
non a caso richiamate dal giudice rimettente. Una prospettazione,
dunque, rispetto alla quale l’istituto della revisione presenta
connotati di evidente estraneità, al punto che lo stesso giudice a
quo è costretto a riconoscere che “l’ipotizzato intervento additivo
del giudice delle leggi” renderebbe la disciplina coinvolta
“abbisognevole del conseguente adeguamento”.
2. – La più generale tematica degli “errori” e dei vizi che
abbiano potuto riguardare il giudizio di cassazione è, peraltro,
aspetto di notevole delicatezza, al punto da aver formato oggetto di
più interventi da parte di questa Corte.
A proposito del processo civile, infatti, si osservò che il
diritto di difesa, garantito in ogni stato e grado del procedimento
dall’art. 24, secondo comma, della Costituzione, sarebbe gravemente
offeso se l’errore di fatto, così come descritto nell’art. 395,
numero 4, cod. proc. civ., “non fosse suscettibile di emenda solo
perché perpetrato dal giudice cui spetta il potere-dovere di
nomofilachia. Né le peculiarità del magistero della Cassazione
svuotano di rilevanza il comandamento di giustizia che di per sé
permea la ripetuta disposizione del codice di rito civile, perché
l’indagine cognitoria cui dà luogo il numero 4 dell’art. 360 non è
diversa da quella condotta da ogni e qualsiasi giudice di merito
allorquando scrutina la ritualità degli atti del processo sottoposto
al suo esame” (sentenza n. 17 del 1986).
Da ciò l’ulteriore assunto secondo il quale i rilievi svolti
“per l’errore di fatto – per l’errore, cioè, meramente percettivo
(svista, puro equivoco) – in cui la Corte di cassazione incorra nel
controllo degli atti del processo a quo, ai fini della decisione
sulla sussistenza di eventuali nullità dello stesso procedimento o
della correlativa sentenza denunciate ai sensi dell’art. 395 c.p.c.”,
non potessero “non valere anche (anzi, a fortiori) per l’analogo
errore in cui quella Corte incorra nella lettura degli atti interni
al suo stesso giudizio” (sentenza n. 36 del 1991).
Nel medesimo alveo, e con specifico riferimento all’art. 391-bis
cod. proc. civ. – censurato nella parte in cui prevedeva un termine
per la proposizione dell’istanza di correzione degli errori materiali
delle sentenze della Corte di cassazione – si osservò come una
siffatta disposizione vulnerasse gli artt. 3 e 24 della Carta
fondamentale, dal momento che, impedendo dopo un certo tempo la
correzione di errori materiali, veniva “a cristallizzare, senza un
ragionevole motivo, un provvedimento giudiziario contenente un
accertabile errore materiale, ovviamente non voluto dal giudice, ma
che potrebbe essere pregiudizievole per i diritti soggettivi delle
parti” (sentenza n. 129 del 1995).
Al di là, dunque, della più volte affermata inammissibilità di
richieste che mirino alla “introduzione nel sistema processuale di un
mezzo straordinario di impugnazione che, in presenza di determinate
condizioni, consenta di ovviare alle conseguenze, ritenute lesive di
diritti dell’imputato, di (presunti) errori contenuti nelle pronunce
della Corte di cassazione” in relazione al quale diverse potrebbero
essere le soluzioni adottabili (v. sentenze nn. 294 del 1995, 21 del
1982 e 136 del 1972) – resta il fatto che l’errore di tipo
“percettivo” in cui sia incorso il giudice di legittimità, e dal
quale sia derivata l’indebita declaratoria di inammissibilità del
ricorso (con l’ovvia conseguenza di determinare l’irrevocabilità
della pronuncia oggetto di impugnativa) rappresenta eventualità
tutt’altro che priva di conseguenze per il rispetto dei principi
costituzionali coinvolti.
È evidente, infatti, che una simile evenienza – e non importa
certo se statisticamente rara – si porrebbe in automatico e palese
contrasto non soltanto con l’art. 3, ma anche con l’art. 24 della
Costituzione, per di più sotto uno specifico e significativo
aspetto, quale è quello di assicurare la effettività del giudizio
di cassazione. Questa garanzia, infatti, si qualifica ulteriormente
in funzione dell’art. 111 della Costituzione, il quale non a caso
prevede che contro tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla
libertà personale “è sempre ammesso il ricorso in cassazione per
violazione di legge”. Ciò sta dunque a significare non soltanto che
il giudizio di cassazione è previsto come rimedio costituzionalmente
imposto avverso tale tipo di pronunzie; ma, soprattutto, che il
presidio costituzionale – il quale è testualmente rivolto ad
assicurare il controllo sulla legalità del giudizio (a ciò
riferendosi, infatti, l’espresso richiamo al paradigmatico vizio di
violazione di legge) – contrassegna il diritto a fruire del controllo
di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al
processo in cassazione.
Da ciò, dunque, un evidente corollario. L’errore di tipo
“percettivo” in cui sia incorso il giudice di legittimità e dal
quale sia derivata l’indebita compromissione di quel diritto, deve
avere un necessario rimedio. Ne consegue, di riflesso, che spetta
alla stessa Corte di cassazione – odierna rimettente – svolgere
appieno la propria funzione di interpretazione adeguatrice del
sistema, individuando, all’interno di esso, lo strumento riparatorio
più idoneo. Che tale strumento possa essere poi rinvenuto proprio
all’interno dello speciale istituto previsto dall’art. 130 cod. proc.
pen., non a caso oggetto del procedimento a quo, è aspetto che –
tenuto conto delle ineludibili esigenze di adeguamento secundum
constitutionem che la peculiare e delicata tematica, come si è
detto, impone – dovrà essere scandagliato dalla stessa Corte
rimettente, in linea, d’altra parte, con la funzione nomofilattica ad
essa istituzionalmente riservata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di
procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta il 13 luglio 2000.
Il Presidente: Mirabelli
Il redattore: Flick
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 28 luglio 2000.
Il direttore della cancelleria: Di Paola