Sentenza N. 399 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
20/12/1996
Data deposito/pubblicazione
20/12/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
11/12/1996
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSK Y, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI;
a), della legge 11 novembre 1975, n. 584 (Divieto di fumare in
determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico), 9 e 14 del
d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali per l’igiene del
lavoro), così come modificati dall’art. 33 del d.lgs. 19 settembre
1994, n. 626 (Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE,
89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE e
90/679/CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della
salute dei lavoratori sul luogo di lavoro), nonché 64, lettera b) e
65, secondo comma, del citato decreto n. 626 del 1994, promosso con
ordinanza emessa il 7 febbraio 1996 dal tribunale di Torino, nel
procedimento civile vertente tra Istituto bancario San Paolo di
Torino s.p.a. e Abronio Susanna ed altri, iscritta al n. 440 del
registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell’anno 1996;
Visti gli atti di costituzione dell’Istituto bancario San Paolo di
Torino s.p.a. e di Vergnano Claudio;
Udito nell’udienza pubblica del 12 novembre 1996 il giudice
relatore Fernando Santosuosso;
Udito l’avv.to Paolo Tosi per Istituto bancario San Paolo di Torino
s.p.a.
dipendenti nei confronti dell’Istituto bancario San Paolo di Torino
s.p.a., finalizzato ad ottenere provvedimenti idonei a tutelare la
salute dei non fumatori contro i danni del c.d. fumo “passivo”, il
tribunale di Torino ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione,
degli artt. 1, lettera a), della legge 11 novembre 1975, n. 584
(Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto
pubblico), 9 e 14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali
per l’igiene del lavoro), così come modificati dall’art. 33 del
d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione delle direttive
89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE,
90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE riguardanti il miglioramento
della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro),
nonché 64, lettera b) e 65, comma 2, del citato decreto n. 626 del
1994.
Nell’ampia ordinanza di rimessione il giudice a quo, dopo aver
premesso una serie di osservazioni in merito all’accertata nocività
del fumo passivo – da ritenersi ormai pacificamente dimostrata sulla
base dei numerosi studi scientifici sull’argomento – rileva che la
normativa vigente, nell’indicare i luoghi nei quali il fumo è
vietato, irragionevolmente non ha incluso nell’elenco i luoghi di
lavoro in quanto tali, bensì soltanto in relazione a talune
situazioni marginali; e i numerosi progetti e disegni di legge
presentati in Parlamento, finalizzati all’estensione del divieto di
fumare in altri luoghi e specialmente a quelli di lavoro, non hanno
avuto alcun seguito.
Tanto premesso, il Tribunale rileva che, pur potendo l’art. 2087
del codice civile considerarsi una norma “aperta”, sulla quale
fondare il dovere del datore di lavoro di adottare ogni misura idonea
a tutelare la salute del lavoratore, non è consentito, sulla base di
tale norma, un legittimo divieto di fumare disposto dal datore di
lavoro di fronte a locali dell’azienda inquinati dal fumo passivo; e
ciò perché il d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, nel dettare regole
per la tutela dei lavoratori, ha previsto che l’obbligo di adottare
misure specifiche per la protezione dei non fumatori contro gli
inconvenienti del fumo valga soltanto per i locali di riposo e con
riguardo ad alcune lavorazioni particolarmente esposte a rischio
cancerogeno.
Ne consegue che, non essendo più possibile una lettura estensiva
delle norme vigenti, la tutela apprestata dal legislatore a
protezione della salute dei lavoratori non fumatori deve ritenersi,
allo stato, del tutto insufficiente, e perciò in contrasto con
l’art. 32 della Costituzione.
Il giudice a quo mostra piena consapevolezza del fatto che questa
Corte, con la sentenza n. 202 del 1991, dichiarando inammissibile una
questione non molto diversa da quella attuale, ebbe a rivolgere al
legislatore un monito, rimasto inascoltato, affinché apprestasse una
più incisiva e completa tutela della salute dei cittadini dai danni
del fumo passivo. Questa situazione, unita all’impossibilità di
un’interpretazione estensiva delle norme vigenti – accolta invece dal
giudice di primo grado – ed alla diversità della domanda giudiziale
– in questo caso non risarcitoria, ma di prevenzione dei danni -,
induce il tribunale di Torino a sottoporre nuovamente la questione
all’esame della Corte, chiedendo che la normativa sopra richiamata
venga dichiarata incostituzionale nella parte in cui non prevede il
divieto di fumare nei luoghi di lavoro chiusi.
2. – Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale si è
costituito l’Istituto bancario San Paolo di Torino s.p.a., chiedendo
che la questione venga dichiarata infondata. In prossimità
dell’udienza, la difesa dell’Istituto ha presentato una memoria,
insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già formulate.
Preliminarmente, la difesa della banca ha osservato che le norme
della legge n. 584 del 1975 che regolano il divieto di fumo non sono
poste a tutela dei singoli in quanto lavoratori, bensì in quanto
soggetti che, per le più svariate motivazioni (studio, salute,
divertimento etc.), si trovano a soggiornare per un certo periodo in
luoghi chiusi; ne conseguirebbe che, mancando ogni collegamento tra
le ipotesi previste dal legislatore e quella di cui si lamenta
l’omissione (luoghi di lavoro chiusi), la pretesa violazione del
principio di ragionevolezza sarebbe comunque insussistente.
L’Istituto osserva poi che, come già rilevato dalla Corte nella
sentenza n. 202 del 1991, la pronuncia richiesta dal Tribunale
rimettente è inammissibile sia perché non sussiste una soluzione
costituzionalmente necessitata, sia perché una pronuncia estensiva
del divieto di fumare finirebbe col creare una nuova ipotesi di
reato.
3. – Nel giudizio davanti a questa Corte si è costituito anche
Vergnano Claudio, con atto depositato fuori termine.
costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione,
degli artt. 1, lettera a), della legge 11 novembre 1975, n. 584
(Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto
pubblico), 9 e 14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali
per l’igiene del lavoro), così come modificati dall’art. 33 del
d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione delle direttive
89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE,
90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE riguardanti il miglioramento
della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro),
nonché 64, lettera b) e 65, comma 2, del citato decreto n. 626 del
1994, nella parte in cui non prevedono il divieto di fumare nei
luoghi di lavoro chiusi.
2. – Occorre premettere il richiamo alla costante giurisprudenza di
questa Corte (sentenze n. 218 del 1994, n. 202 del 1991, nn. 307 e
455 del 1990, n. 559 del 1987 e n. 184 del 1986) secondo cui la
salute è un bene primario che assurge a diritto fondamentale della
persona ed impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia in
ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato.
È stato pure ripetutamente affermato che la tutela della salute
riguarda la generale e comune pretesa dell’individuo a condizioni di
vita, di ambiente e di lavoro che non pongano a rischio questo suo
bene essenziale. E tale tutela implica non solo situazioni attive di
pretesa, ma comprende – oltre che misure di prevenzione – anche il
dovere di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento
la salute altrui. Pertanto, ove si profili una incompatibilità tra
il diritto alla tutela della salute, costituzionalmente protetto, ed
i liberi comportamenti che non hanno una diretta copertura
costituzionale, deve ovviamente darsi prevalenza al primo.
Una questione analoga a quella presente è stata già sottoposta a
scrutinio di costituzionalità; in quella occasione la Corte – pur
dando per pacifica la nocività del c.d. fumo passivo – è pervenuta
ad una pronuncia di inammissibilità (sentenza n. 202 del 1991),
soprattutto per motivi di non rilevanza nel giudizio a quo. Non ha
mancato, tuttavia, di affermare la legittimità (ex art. 32 della
Costituzione e art. 2043 del codice civile) di una richiesta diretta
al risarcimento dei danni per detta causa; e, nel contempo, ha
rivolto al legislatore l’invito ad intervenire per la “necessità di
apprestare una più incisiva e completa tutela della salute dei
cittadini dai danni cagionati dal fumo anche c.d. passivo,
trattandosi di un bene fondamentale e primario costituzionalmente
garantito”.
3. – Il tribunale propone ora la questione di legittimità non ai
fini del divieto di fumo nei locali considerati nella sentenza n. 202
del 1991, ma con riguardo ai pregiudizi derivanti dal fumo passivo
nei locali di lavoro chiusi, per considerazioni specificamente
relative a questi luoghi. Avverte il rimettente che “non viene qui
svolta domanda di risarcimento, bensì un’azione in via preventiva
per l’adozione di misure atte ad evitare la verificazione di un
danno”. Rileva inoltre che, successivamente alla sentenza n. 202 del
1991, il legislatore, in attuazione delle direttive comunitarie, ha
disciplinato (nel decreto legislativo n. 626 del 1994) la materia
concernente la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori,
senza peraltro introdurre il divieto assoluto e generalizzato di
fumare in tutti i luoghi di lavoro; divieto che dovrebbe invece
discendere necessariamente dall’esigenza, prevista dalla
Costituzione, della efficace protezione della salute, sul presupposto
che la vigente normativa non contiene altri strumenti idonei ad
evitare il pregiudizio derivante ai lavoratori dal fumo passivo nei
locali chiusi.
La legge – lamenta in proposito – mentre esige espressamente la
“protezione dei non fumatori contro gli inconvenienti del fumo” in
relazione ad alcuni locali (corsie di ospedali, aule scolastiche,
mezzi di trasporto pubblico), per quelli “adibiti a pubblica
riunione”, nonché in una serie di “locali di divertimento” (e la
direttiva 14 dicembre 1995 della Presidenza del Consiglio estende
questi divieti a tutti i locali aperti al pubblico appartenenti alla
pubblica amministrazione, alle aziende pubbliche ed ai privati
esercenti pubblici servizi), non prevede analoghi divieti per i
luoghi di lavoro, dove una molteplicità di dipendenti sono tenuti a
permanere per lungo tempo.
Parimenti irragionevole dovrebbe ritenersi che tali divieti siano
previsti nell’ambito delle aziende solo per i locali di riposo o –
come accettato anche dall’Istituto bancario – per quelli di comune
frequentazione (bar, mense etc.) da parte di lavoratori e non invece
per quelli dove le stesse persone devono trattenersi
obbligatoriamente per prestare in piena efficienza le loro energie
lavorative.
4. – L’ordinanza di rimessione, come si è detto, muove da due
presupposti: che, avendo la legge direttamente previsto il divieto di
fumare in determinati luoghi, tale divieto non possa essere disposto
dal datore di lavoro in altri luoghi o circostanze; e che il vigente
sistema normativo non offre comunque altri strumenti idonei a
tutelare la salute dei lavoratori così come voluto dalla
Costituzione.
Senonché, tali presupposti sono erronei, dal momento che, pur non
essendo ravvisabile nel diritto positivo un divieto assoluto e
generalizzato di fumare in ogni luogo di lavoro chiuso, è anche vero
che nell’ordinamento già esistono disposizioni intese a proteggere
la salute dei lavoratori da tutto ciò che è atto a danneggiarla,
ivi compreso il fumo passivo.
Se alcune norme prescrivono legislativamente il divieto assoluto di
fumare in speciali ipotesi, ciò non esclude che da altre
disposizioni discenda la legittimità di analogo divieto con riguardo
a diversi luoghi e secondo particolari circostanze concrete; è
inesatto ritenere, comunque, che altri rimedi voluti dal vigente
sistema normativo siano inidonei alla tutela della salute dei
lavoratori anche rispetto ai rischi del fumo passivo.
Ed invero, non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e
41) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la
protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori;
numerose altre disposizioni, tra cui la disciplina contenuta nel
decreto legislativo n. 626 del 1994, assumono in proposito una
valenza decisiva.
L’art. 2087 del codice civile stabilisce che l’imprenditore è
tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che,
secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale
dei prestatori di lavoro. La Cassazione (sentenza n. 5048 del 1988)
ha ritenuto che tale disposizione “come tutte le clausole generali,
ha una funzione di adeguamento permanente dell’ordinamento alla
sottostante realtà socio-economica” e pertanto “vale a supplire alle
lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di
rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest’ultima di
adeguamento di essa al caso concreto”.
Analogamente gli artt. 1, 4 e 31 del decreto legislativo del 19
settembre 1994, n. 626, dispongono che il datore di lavoro, “in
relazione alla natura dell’attività dell’azienda ovvero dell’unità
produttiva”, debba valutare, anche “nella sistemazione dei luoghi di
lavoro”, i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori,
“adottare le misure necessarie”, e “aggiornare le misure di
prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che
hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza”, riaffermando
l’obbligo di “adeguare i luoghi di lavoro alle prescrizioni di
sicurezza e di salute”.
Con più specifico riferimento alla “salubrità dell’aria” nei
locali di lavoro chiusi, l’art. 9 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303,
modificato dall’art. 16 del d.lgs. 19 marzo 1996, n. 242, stabilisce
la necessità che i lavoratori “dispongano di aria salubre in
quantità sufficiente, anche ottenuta con impianti di aerazione”;
impianti che peraltro devono essere sempre mantenuti in efficienza e
“devono funzionare in modo che i lavoratori non siano esposti a
correnti d’aria fastidiose”. E all’ultimo comma di detto art. 9 si
soggiunge “che qualsiasi sedimento che potrebbe comportare un
pericolo per la salute dei lavoratori dovuto all’inquinamento
dell’aria respirata deve essere eliminato rapidamente”.
A questi precisi e dettagliati doveri del datore di lavoro fa
riscontro il diritto dei lavoratori (art. 9 della legge 20 maggio
1970, n. 300) di controllare l’applicazione delle norme per la
prevenzione e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione
di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro
integrità fisica. Coerentemente il d.lgs. n. 626 del 1994 prevede
(art. 18) anche la figura del rappresentante dei lavoratori che ha
tra l’altro il compito (art. 19, lett. h) di promuovere
l’elaborazione e l’attuazione delle misure di prevenzione idonee a
tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori. Costoro
hanno, inoltre, la possibilità di chiamare il datore di lavoro
dinanzi al giudice per l’accertamento di eventuali responsabilità
nel predisporre gli adeguati strumenti di tutela.
5. – Nel sottolineare l’ampiezza dei doveri e delle responsabilità
(cui corrispondono i relativi poteri organizzativi) che le norme
richiamate attribuiscono ai datori di lavoro, la Corte osserva che,
in adempimento di queste disposizioni, di natura non solo
programmatica ma precettiva, costoro devono attivarsi per verificare
che in concreto la salute dei lavoratori sia adeguatamente tutelata.
Non è dato ovviamente precisare in questa sede le varie misure
possibili e le modalità di detti interventi (dislocazioni, orari,
impianti, fino ad eventuali divieti), dal momento che ciò discende,
oltre che dal rispetto delle prescrizioni legislative, dalle
diligenti valutazioni del datore di lavoro in corrispondenza alle
diverse circostanze in cui viene prestata l’attività lavorativa,
nonché dal controllo dei lavoratori, degli ispettori e del giudice
del lavoro.
Alla Corte compete rilevare, invece, che il dovere di vigilare e di
provvedere adeguatamente, cui fa riscontro il diritto dei lavoratori
(art. 9 dello Statuto, e art. 19 del d.lgs. n. 626 del 1994), è già
desumibile dalle norme positive, lette come attuazione dei principi
costituzionali di tutela della salute. Ed in tale quadro il datore di
lavoro troverà le misure organizzative sufficienti a conseguire il
fine della protezione dal fumo passivo in modo conforme al principio
costituzionale dell’art. 32. Il rispetto di questo principio nella
presente questione va inteso nel senso che la tutela preventiva dei
non fumatori nei luoghi di lavoro può ritenersi soddisfatta quando,
mediante una serie di misure adottate secondo le diverse circostanze,
il rischio derivante dal fumo passivo, se non eliminato, sia ridotto
ad una soglia talmente bassa da far ragionevolmente escludere che la
loro salute sia messa a repentaglio.
6. – Una volta accertato che la normativa in vigore prevede
strumenti idonei ad una adeguata protezione della salute dei
lavoratori anche dal pericolo del fumo passivo, resta assorbito
l’esame della richiesta di un intervento finalizzato all’estensione
del divieto assoluto e generalizzato di fumare in tutti i luoghi di
lavoro chiusi; intervento che il giudice rimettente aveva ritenuto
come l’unico mezzo efficace per la protezione della salute secondo
l’art. 32 della Costituzione.
Se al legislatore – per l’invito già a lui rivolto – resta il
compito di riconsiderare l’intera materia per migliorare la
disciplina in tema di tutela della salute dei cittadini, ed in
particolare la prevenzione dai danni cagionati dal fumo passivo, deve
tuttavia concludersi che, riguardo ai luoghi di lavoro, la corretta
interpretazione del sistema vigente non consente di ritenere
sussistente la violazione delle norme costituzionali invocate dal
giudice a quo.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 1, lettera a), della legge 11 novembre 1975, n. 584
(Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto
pubblico), 9 e 14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali
per l’igiene del lavoro), così come modificati dall’art. 33 del
d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione delle direttive
89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE,
90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE riguardanti il miglioramento
della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro),
nonché 64, lettera b) e 65, secondo comma, del citato decreto n. 626
del 1994, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 32 della
Costituzione, dal tribunale di Torino con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’11 dicembre 1996
Il Presidente: Granata
Il redattore: Santosuosso
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 20 dicembre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola