Sentenza N. 399 del 1998
Corte Costituzionale
Data generale
12/12/1998
Data deposito/pubblicazione
12/12/1998
Data dell'udienza in cui è stato assunto
10/12/1998
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, prof. Guido
NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 2 giugno
1997 dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di
Reggio Calabria, iscritta al n. 526 del registro ordinanze 1997 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima
serie speciale, dell’anno 1997.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio dell’11 marzo 1998 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
indagini preliminari presso il tribunale di Reggio Calabria, con
ordinanza del 2 giugno 1997, ha sollevato, in riferimento agli artt.
3, 11 e 24 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale degli artt. 159 e 160 del codice di procedura penale.
Il giudice a quo premette: che il pubblico ministero aveva
richiesto il rinvio a giudizio dell’imputato, risultato irreperibile
ancor prima che fosse possibile, ai sensi dell’art. 161 cod. proc.
pen., invitarlo a dichiarare o eleggere domicilio; che neppure le
nuove ricerche disposte ai sensi dell’art. 159 cod. proc. pen.
avevano dato esito positivo; che era stato quindi emesso decreto di
irreperibilità e la notificazione per l’udienza preliminare era
stata eseguita mediante consegna di copia al difensore.
Sussistendo le condizioni per il rinvio a giudizio dell’imputato,
il remittente ritiene “oggettivamente rilevante la questione di
costituzionalità del complesso normativo (artt. 159 e 160 cod. proc.
pen.) che nella fattispecie consentirebbe l’emissione del decreto che
dispone il giudizio”. A suo avviso, la vigente disciplina
processualpenalistica dell’irreperibilità dell’imputato merita di
essere sottoposta “nella sua interezza” alla valutazione del giudice
delle leggi, poiché consente l’instaurazione e la definizione di un
processo penale all’insaputa dell’interessato con evidenti disparità
di trattamento tra imputato e imputato e notevole pregiudizio del
diritto di difesa nel suo significato più essenziale di possibilità
dell’imputato di essere presente al processo.
I rimedi dell’incidente di esecuzione (art. 670) e della
restituzione nel termine (art. 175), previsti dal nuovo codice di
procedura penale per l’imputato che non abbia avuto conoscenza del
processo per fatto a lui non imputabile, sarebbero, ad avviso del
giudice a quo, parziali ed inadeguati, poiché, da un lato, farebbero
“ricadere sul condannato, che ha visto negato il suo diritto a
partecipare al processo, l’onere di provare in vinculis il caso
fortuito, la forza maggiore o la mancanza dei presupposti per una
valida dichiarazione di irreperibilità”, e, dall’altro, lo
porrebbero in ogni caso “in grado di aspirare solo a un giudizio di
impugnazione, con limitazioni evidenti del suo diritto alla prova
(art. 176 cod. proc. pen.) e preclusione di accesso, ad esempio, ai
riti alternativi”.
Appare quindi al remittente tuttora privo di efficaci garanzie il
principio stabilito dall’art. 6, comma 2 (recte: comma 3), della
convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, che prevede il diritto dell’imputato di essere
informato dell’esistenza di un processo a suo carico e di disporre
del tempo e della possibilità di approntare una adeguata difesa. In
proposito, nell’ordinanza di rimessione si afferma che già nel 1985
la Corte europea dei diritti dell’uomo “ebbe modo di censurare”
(sentenza 12 febbraio 1985, Colozza) la disciplina allora vigente in
Italia, su presupposti che il nuovo codice non sembra avere superato.
In definitiva, secondo il giudice a quo, il procedimento instaurato
attraverso la notifica all’imputato irreperibile costituirebbe una
fictio e comporterebbe “uno strappo” non accettabile al diritto di
difesa; darebbe inoltre luogo a procedimenti penali inutili a carico
di stranieri casualmente presenti sul territorio, secondo una visione
del processo penale come “macchina ineluttabile”, che finirebbe con
l'”assumere caratteri esclusivamente burocratici ed autoritari
infrangendo i diritti fondamentali della persona”.
Il remittente rileva ancora che in quelli che egli definisce gli
“ordinamenti penali dei Paesi più avanzati” sarebbe in vigore
l’opposto principio del raggiungimento della conoscenza effettiva da
parte dell’imputato del processo a suo carico e, negli ordinamenti di
common law, della presenza necessaria dell’imputato dinanzi al
giudice; afferma che la lettura dell’art. 24 della Costituzione non
potrebbe più prescindere da una “meditata valutazione
comparatistica”, come dimostrerebbero le difficoltà nei rapporti tra
l’Italia e gli altri Stati, in materia di assistenza giudiziaria e di
estradizione, che si sarebbero manifestate a causa della riconosciuta
legittimità nel nostro ordinamento delle sentenze contumaciali.
Infine, nell’ordinanza di rimessione si rileva che “la caducazione
del rito” previsto dagli artt. 159 e 160 cod. proc. pen. non
produrrebbe “un vuoto di disciplina”, imponendosi soltanto, in attesa
di un intervento riformatore del legislatore, la sospensione de facto
di tutti quei processi in cui non si sia potuto eseguire una regolare
notifica ai sensi degli artt. 157 e 158 cod. proc. pen., o, comunque,
interpellare l’indagato ai fini della dichiarazione o elezione di
domicilio prevista dall’art. 161 cod. proc. pen.
2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
Ad avviso dell’Avvocatura, l’istituto dell’irreperibilità sarebbe
pienamente coerente tanto con il principio di ragionevolezza quanto
con quello di inviolabilità del diritto di difesa, in quanto
quest’ultimo, come chiarito da questa Corte con la sentenza n. 54 del
1971, non rappresenterebbe, nel nostro ordinamento, un valore
assoluto da tutelare in ogni sua possibile articolazione, ma
costituirebbe un istituto complesso, regolato ed armonizzato nel
quadro di un sistema ispirato al contemperamento di più valori ed
interessi, tra cui quello della restaurazione dell’ordine giuridico.
L’Avvocatura richiama la sentenza n. 117 del 1970 in base alla
quale le notificazioni eseguite con il rito degli irreperibili devono
ritenersi prescritte dal legislatore come ultimo e necessario
strumento processuale, onde rendere comunque possibile l’ulteriore
svolgersi del giudizio, a salvaguardia dell’interesse, di preminente
valore pubblico, connesso con l’esercizio della giurisdizione penale.
D’altra parte – rileva ancora l’Avvocatura – la Corte non ha
mancato di osservare nella sentenza n. 215 del 1974 che “non può
essere addossato allo Stato un ulteriore onere nei confronti di chi,
col suo comportamento volontario, ha posto in essere una situazione
da cui possono derivare quelle conseguenze che lamenta il giudice a
quo”, poiché “l’imputato diventa irreperibile per effetto della sua
negligenza, evitando di curare quegli adempimenti formali prescritti
dalle norme sull’ordinamento delle anagrafi della popolazione
residente di cui all’art. 2 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, e
all’art. 11 del relativo regolamento approvato con d.P.R. 31 gennaio
1958, n. 136”.
costituzionale degli artt. 159 e 160 del codice di procedura penale,
che disciplinano le notificazioni all’imputato in caso di
irreperibilità e l’efficacia del decreto di irreperibilità.
A suo avviso, le disposizioni censurate, prevedendo che in caso di
irreperibilità dell’imputato le notificazioni siano eseguite
mediante consegna di copia al difensore, consentirebbero
l’instaurazione e la definizione di un processo penale nei confronti
di un soggetto che non avrebbe avuto notizia del giudizio a suo
carico.
Ciò contrasterebbe con gli artt. 3, 11 (recte: 10) e 24 della
Costituzione per le possibili ed ingiustificate sperequazioni di
trattamento tra imputati e l’inaccettabile “strappo” al diritto di
difesa, inteso nel suo più essenziale significato di diritto
dell’imputato di essere informato dell’esistenza di un processo a suo
carico e di disporre del tempo e della possibilità di approntare una
adeguata difesa (art. 6, comma 3, della convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848), anche alla luce
della sentenza del 12 febbraio 1985 della Corte europea dei diritti
dell’uomo e di una meditata valutazione comparatistica con gli
ordinamenti penali dei Paesi più avanzati.
2. – La questione, nei termini in cui è prospettata, non è
fondata.
Il legislatore italiano non è rimasto insensibile ai richiami
provenienti da diverse sedi europee (prima della citata sentenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo del 1985, vi era stata la
risoluzione n. 11 adottata il 21 maggio 1975 dal Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa, che conteneva sollecitazioni di
analogo tenore). La legge 23 gennaio 1989, n. 22 (Nuova disciplina
della contumacia) ebbe, sia pure parzialmente, ad anticipare, proprio
avendo presente l’insieme dei doveri ai quali lo Stato italiano era
vincolato in forza della convenzione europea e l’urgenza di
adempiervi (cfr. la relazione al disegno di legge n. 1706 presentato
alla Camera dei deputati il 19 ottobre 1987), le soluzioni date dal
nuovo codice di procedura penale ai problemi suscitati dal processo
contumaciale in generale, e dal rito degli irreperibili in
particolare.
Di fronte al tema della conoscenza del processo da parte
dell’imputato, la scelta del legislatore è stata di muoversi lungo
due direttrici convergenti: da un lato l’introduzione di molteplici
previsioni volte a far sì che la conoscenza del processo sia sicura
ed incontrovertibile; dall’altro, per le ipotesi estreme in cui,
nonostante l’impiego dei mezzi apprestati, tale conoscenza non sia
stato possibile assicurare preventivamente, l’allestimento di rimedi
successivi intesi comunque alla salvaguardia della posizione
dell’imputato e del suo diritto di difendersi. A questa logica, che
combina insieme informazione preventiva e reintegrazione successiva,
obbediscono tanto le disposizioni che regolano la notificazione
all’imputato quanto quelle che danno rilievo alla mancata conoscenza
della citazione ed introducono strumenti riparatori quando ne sia
derivata l’instaurazione del processo in assenza dell’accusato.
Quanto all’informazione preventiva, posta la regola base della
notifica con consegna a mani proprie del destinatario, il problema di
come eseguire la notifica quando non sia possibile la consegna
personale è stato risolto dall’art. 157 che individua i luoghi dove
può ragionevolmente presumersi che si rinvenga un convivente
dell’imputato. A questa previsione si affianca, con l’intento di
ulteriormente circoscrivere le ipotesi in cui all’imputato rimanga di
fatto ignoto il procedimento, l’art. 161, il quale, nel regolare la
dichiarazione e l’elezione di domicilio, da compiersi non appena
l’interessato venga a trovarsi in presenza dell’autorità giudiziaria
o abbia a ricevere un atto da questa nella qualità di imputato o di
persona sottoposta alle indagini, dispone che egli viene avvertito
dell’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o
eletto e del fatto che, in mancanza, le notifiche successive saranno
eseguite mediante consegna al difensore o nel luogo in cui l’atto è
stato notificato.
Solo nelle ipotesi in cui gli accorgimenti predisposti non
producano la conoscenza del processo alla quale tendono, la notifica
deve avvenire secondo il rito della irreperibilità. Ma anche con
riferimento ad esso la disciplina vigente è assai più rigorosa che
in passato proprio in tema di ricerche prodromiche all’instaurazione
del rito, in relazione alle quali si fa, se possibile, ancor più
evidente il fatto che la scelta è stata quella di evitare con ogni
mezzo che il procedimento penale abbia corso all’insaputa
dell’interessato. L’imputato deve, infatti, essere ricercato,
cumulativamente e non alternativamente, in una serie di luoghi nei
quali è più verosimile che possano essere acquisite notizie circa
la sua attuale dimora. Diversamente da quanto previsto dal vecchio
codice, l’art. 159, comma 1, configura ora in termini di
obbligatorietà le ricerche dell’imputato “particolarmente nel luogo
di nascita, dell’ultima residenza anagrafica, dell’ultima dimora e in
quello dove egli abitualmente esercita la sua attività lavorativa,
nonché presso l’amministrazione carceraria centrale”. E non è un
mero accidente che, nella citata disposizione, compaia l’avverbio
“particolarmente”, poiché è proprio questo elemento lessicale a
rendere chiaro che l’indicazione dei luoghi nei quali devono essere
eseguite le ricerche non è esaustiva, e che pertanto l’eventuale
decreto di irreperibilità non può essere adottato nei casi in cui
emergano elementi che impongano di estendere le ricerche in luoghi
diversi da quelli menzionati. Né è privo di rilievo, ai fini della
identificazione del carattere della scelta legislativa e del suo
essere protesa a realizzare una situazione di conoscenza del
procedimento, il fatto che l’art. 160 introduca limiti temporali alla
efficacia del decreto di irreperibilità, stabilendo che ad ogni
mutamento di fase le ricerche devono essere rinnovate e che solo nel
caso di esito ancora negativo deve essere emesso un nuovo decreto.
3. – L’altro versante sul quale si è mosso il legislatore nel suo
proposito di realizzare i valori espressi dall’art. 24 della
Costituzione e dall’art. 6 della convenzione è quello dei mezzi
riparatori da attivarsi nelle ipotesi in cui, nonostante gli
accorgimenti di cui si è detto, l’imputato non abbia avuto
conoscenza del procedimento.
Alcuni rimedi riguardano in genere il processo contumaciale, ma
sono esperibili, sotto determinate condizioni, anche dall’imputato
dichiarato irreperibile: la restituzione nel termine per impugnare a
condizione che egli non si sia sottratto volontariamente alla
conoscenza degli atti del procedimento (art. 175, comma 2); la
nullità dell’ordinanza dichiarativa della contumacia se al momento
in cui è emessa vi è la prova che l’assenza dell’imputato è dovuta
ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza
maggiore o altro legittimo impedimento (art. 487, comma 4); la
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello quando
l’imputato, contumace in primo grado, ne fa richiesta e prova di non
essere potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore o per non
avere avuto conoscenza del decreto di citazione, sempre che egli non
si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del
procedimento (art. 603, comma 4); la possibilità di rendere
dichiarazioni spontanee anche nel giudizio di Cassazione per
l’imputato, già contumace, che provi di non avere avuto conoscenza
del procedimento a suo carico (art. 489, comma 1).
Infine, con previsione specificamente riferita al condannato
contumace irreperibile, l’art. 670 attribuisce al giudice
dell’esecuzione non soltanto il potere di accertare l’esistenza del
titolo e il suo carattere di esecutività, ma anche quello di
controllare che tale titolo si sia formato nel rispetto delle
garanzie previste per l’imputato irreperibile. E la valutazione
demandata al giudice per l’esecuzione non è limitata agli aspetti
puramente formali, ma è estesa al merito: egli può, infatti,
ritenere che in relazione alle emergenze del caso concreto le
ricerche di cui all’art. 159 avrebbero dovuto essere effettuate anche
altrove e può, conseguentemente, rimettere in termini l’imputato per
l’impugnazione.
4. – Gli strumenti riparatori che il nuovo codice predispone a
favore dell’imputato che, dichiarato irreperibile, non abbia avuto
conoscenza del processo a suo carico appaiono al remittente
inadeguati. Tali strumenti si ridurrebbero, a suo avviso,
all’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 e alla restituzione
nel termine per impugnare ai sensi dell’art. 175; con il primo,
l’imputato verrebbe gravato dell’onere di provare in vinculis il caso
fortuito o la forza maggiore o la mancanza di una valida
dichiarazione di irreperibilità; con la seconda, gli sarebbe
concesso solamente il giudizio di impugnazione, che è in generale
caratterizzato da consistenti limitazioni al diritto alla prova, e
gli rimarrebbe comunque precluso l’accesso ai riti alternativi. Di
qui la denunciata illegittimità costituzionale degli artt. 159 e 160
del codice di procedura penale, concernenti le notificazioni
all’imputato in caso di irreperibilità e, rispettivamente,
l’efficacia del decreto di irreperibilità.
Il nucleo essenziale dell’argomentare dell’ordinanza di remissione
è in definitiva che l’inadeguatezza dei predetti rimedi
determinerebbe l’illegittimità della disciplina del rito degli
irreperibili in quanto tale. E per corroborare questa drastica
soluzione il remittente richiama, oltre all’art. 24 della
Costituzione, l’art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, concernente il
diritto dell’imputato di essere informato nel più breve tempo
possibile del processo a suo carico, e ricorda che già nel 1985 la
Corte europea dei diritti dell’uomo “ebbe modo di censurare” la
disciplina allora vigente in Italia sotto profili che il nuovo codice
non avrebbe superato.
Ma la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza citata
dal remittente, ritenne leso il diritto ad un giusto processo in un
caso in cui a un imputato, ritenuto irreperibile e condannato con
sentenza passata in giudicato, non era stata offerta la possibilità
di ottenere un nuovo procedimento nel quale far valere, una volta
acquisita notizia certa dell’accusa mossa contro di lui, gli elementi
a suo favore.
Non era in discussione in quella sentenza la legittimità del rito
degli irreperibili in quanto tale. Gli aspetti sui quali il giudice
europeo si concentrò riguardavano i rimedi da ritenere doverosi, in
base alla convenzione, quando un legislatore nazionale autorizzi lo
svolgimento del processo nonostante l’assenza dell’accusato.
L’interessato – fu questa la sostanza dell’enunciato dei giudici di
Strasburgo – una volta venuto a conoscenza del procedimento, ha il
diritto di “ottenere che un organo giurisdizionale si pronunci di
nuovo, dopo averlo ascoltato, sulla fondatezza dell’accusa”.
5. – L’art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali non impone l’adozione di un
modello processuale unico e infungibile: per far sì che il loro
sistema giudiziario sia in armonia con il principio del giusto
processo, gli Stati contraenti, come la Corte europea non negò,
godono della più ampia libertà nella scelta dei mezzi idonei. Se
ciò è vero, l’argomento su cui il giudice remittente si appoggia
per sostenere che il rito degli irreperibili deve essere eliminato
con sentenza di questa Corte non può essere condiviso. La previsione
di un simile rito è, come si è detto, parte integrante di una
complessa scelta di sistema compiuta dal legislatore, incentrata sul
duplice criterio del massimo di impegno preventivo per assicurare la
conoscenza del processo e dell’adozione di strumenti riparatori e
reintegrativi nei casi estremi in cui l’obiettivo non si sia potuto
raggiungere preventivamente.
A tale scelta non possono essere contrapposte, in sede di sindacato
di legittimità costituzionale, valutazioni che assumerebbero il
carattere di un giudizio di opportunità. Appare infatti evidente
come la soluzione radicale prospettata dal remittente sia tesa a
sostituire al sistema prescelto dal legislatore un sistema diverso
nel quale il principio della conoscenza del processo si realizzasse,
per intero e senza alcuna eccezione, preventivamente in modo che non
vi fosse necessità di introdurre strumenti riparatori. Con ciò si
oltrepasserebbero i confini di una accezione, anche la più
espansiva, del ruolo della giustizia costituzionale, alla quale
compete bensì imporre l’osservanza dei principi costituzionali, ma
rispettando, ove possibile, le scelte di sistema del legislatore
anche quando il merito legislativo del quale tali scelte sono
intessute possa apparire opinabile. Nel caso in esame ne verrebbero
oltretutto direttamente o indirettamente coinvolti, come lo stesso
remittente dimostra di non ignorare, istituti del diritto penale
sostanziale e del processo penale, quali la prescrizione dei reati e
l’interruzione e la sospensione del processo, che andrebbero
ripensati in un nuovo quadro sistematico nel quale la mancanza di un
rito per gli irreperibili fosse divenuta elemento caratterizzante.
6. – Le innovazioni introdotte dal nuovo codice denotano che il
legislatore si è adoperato per adeguare la disciplina del rito degli
imputati irreperibili sia alle convenzioni internazionali sia
all’art. 24 della Costituzione, che, nel proclamare inviolabile la
difesa in ogni stato e grado del procedimento, appresta a favore
dell’imputato garanzie non meno pregnanti, che certamente comprendono
il diritto, che la convenzione europea enuncia in maniera esplicita,
di avere notizia del procedimento che lo riguarda e di avere
l’opportunità e il tempo di allestire le proprie difese.
Il fatto che la nuova disciplina non giunga a prevedere la
reintegrazione completa dell’imputato in tutti i suoi diritti
processuali nell’ipotesi in cui non abbia avuto conoscenza del
processo può far sorgere questioni di legittimità costituzionale il
cui esito, se riferite alle disposizioni che non consentono
all’imputato l’esercizio di un diritto o di una facoltà di cui
avrebbe dovuto fruire, resta impregiudicato. È comunque da escludere
che la denunciata insufficienza dei rimedi previsti ridondi in vizio
di legittimità costituzionale del rito penale per gli irreperibili
in quanto tale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 159 e 160 del codice di procedura penale, sollevata, in
riferimento agli artt. 3, 10 e 24 della Costituzione, dal giudice per
le indagini preliminari presso il tribunale di Reggio Calabria con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 1998.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 12 dicembre 1998.
Il direttore della cancelleria: Di Paola