Sentenza N. 400 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
20/12/1996
Data deposito/pubblicazione
20/12/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
11/12/1996
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv.
Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof.
Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE,
avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI;
d.-l. 18 ottobre 1995, n. 432 (Interventi urgenti sul processo civile
e sulla disciplina transitoria della legge 26 novembre 1990, n. 353,
relativa al medesimo processo), convertito in legge 20 dicembre 1995,
n. 534, promosso con ordinanze emesse:
1) il 25 novembre 1995 dal giudice istruttore del tribunale di
Brescia nel procedimento civile vertente tra Saleri Giuseppe e
Martinangeli Paola ed altri, iscritta al n. 18 del registro ordinanze
1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5,
prima serie speciale, dell’anno 1996;
2) l’11 aprile 1996 dal tribunale di Milano nel procedimento civile
vertente tra Nodari Margherita e Orlando Franco Andrea ed altre,
iscritta al n. 748 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale,
dell’anno 1996;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 13 novembre 1996 il giudice
relatore Cesare Ruperto.
conclusioni di un giudizio per risarcimento danni, introdotto nel
1992, il giudice istruttore presso il tribunale di Brescia, innanzi
al quale la causa era stata rinviata (in quanto giudice designato
alla trattazione delle cause pendenti al 30 aprile 1995), con
ordinanza emessa il 25 novembre 1995, ha sollevato, in riferimento
agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 10 del d.-l. 18 ottobre 1995,
n. 432, nella parte in cui, modificando il comma 1 dell’art. 91 della
legge 26 novembre 1990, n. 353, prevede che alla trattazione dei
giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995 sono destinati, fino al
31 dicembre 1996, non più della metà di tutti i magistrati
incaricati della trattazione dei giudizi e degli affari civili.
Il rimettente sottolinea come il comma 2 della norma consenta al
dirigente dell’ufficio di assegnare le cause iniziate successivamente
al 30 aprile 1995 anche ai magistrati addetti alla trattazione dei
giudizi pendenti e come tale possibilità sia stata ammessa dal
C.S.M., con propria circolare, solo per gli uffici con organico
complessivo inferiore ai sei magistrati incaricati degli affari
civili.
Appunto in forza di tale normativa il giudizio a quo è stato
assegnato al rimettente, il quale ne sospetta l’illegittimità in
riferimento ai citati parametri. Sussisterebbe in primo luogo
violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, poiché tutte le
cause pendenti al 30 aprile 1995 vengono “concentrate” soltanto sulla
metà dei giudici addetti al settore civile, mentre l’altra metà è
addetta esclusivamente ai giudizi iniziati successivamente a tale
data, con conseguente differenza nei tempi di decisione, assai più
lunghi per le prime, mentre le seconde vengono trattate da
“magistrati sgravati dal ruolo delle cause pendenti”. La presenza di
ruoli di diversa consistenza comporterebbe un trattamento
differenziato tra cittadini (in ragione del mero dato temporale
dell’introduzione del giudizio) lesivo anche dell’art. 24 della
Costituzione, in quanto le cause di più lunga definizione sarebbero
proprio quelle avviate in epoca più remota.
La norma impugnata risulterebbe altresì lesiva dell’art. 25 della
Costituzione, poiché, in contrasto con l’art. 174 del codice di
procedura civile, si verrebbe a mutare il giudice istruttore senza
l’indicazione di criteri precostituiti per la scelta dei magistrati
destinati a trattare le cause pendenti e quelli preposti ai giudizi
sopravvenuti. Tale mancanza di regole finirebbe per incidere
“sull’immagine” del giudice istruttore, mentre la pratica
impossibilità di controllare l’iter logico che ha condotto alla
assegnazione dei processi lascerebbe “adito alle più svariate
interpretazioni, anche malevole”. Osserva in proposito il rimettente
che per le “vecchie” cause il tribunale decide in composizione
collegiale e che con un ruolo di diverse migliaia di cause
risulterebbero impossibili per l’istruttore l’effettiva conoscenza
delle stesse e l’esercizio dei poteri di direzione di cui all’art.
127 cod. proc. civ. La scelta dei giudici dovrebbe quindi avvenire
nella massima trasparenza per evitare discriminazioni tra giudici
dello stesso ufficio.
La norma impugnata sarebbe infine lesiva dell’art. 97 della
Costituzione, poiché, per garantire il successo della riforma, se ne
sarebbero poste le conseguenze negative a carico dei cittadini; in
proposito si fa rilevare come l’originario art. 91 della legge n. 353
del 1990 prevedeva che alla trattazione delle cause pendenti fosse
destinato un numero di magistrati non inferiore alla metà né
superiore ai due terzi, e come, con l’aumento della competenza per
valore del pretore, la sopravvenienza di cause nuove presso il
tribunale si è drasticamente ridotta. La violazione del principio
del buon andamento risiederebbe anche nella diversa ripartizione
quantitativa del carico di lavoro sulle cancellerie dei magistrati.
1.2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso
per l’inammissibilità, ovvero per l’infondatezza della questione.
Sotto il primo profilo si osserva che le doglianze avrebbero
legittimato un ricorso del giudice in altre sedi più che una
questione di costituzionalità (che si tradurrebbe nel lamentare
discriminazioni all’interno dell’ufficio).
Nel merito l’Autorità intervenuta sottolinea anzitutto la natura
transitoria della norma, del tutto giustificabile nella fase di prima
attuazione di una riforma ed esclude la violazione dell’art. 24 della
Costituzione, in quanto il precetto costituzionale non impone che la
tutela giurisdizionale venga conseguita sempre nello stesso modo e
con i medesimi effetti, mentre nel caso in esame nessun onere sarebbe
imposto all’esercizio del diritto di difesa. Pretendere poi di
sindacare l’iter logico che sottende l’assegnazione, significherebbe
paralizzare quel potere del presidente del tribunale sancito
dall’art. 168-bis cod. proc. civ., che nella specie ammette anche
l’adozione di un criterio diverso rispetto a quello censurato, quando
il numero di magistrati disponibili non consenta di adottare il
descritto meccanismo proporzionale.
Non sarebbero infine ravvisabili quell’arbitrarietà ed
irragionevolezza, nelle quali si concreta la violazione dell’art. 97
della Costituzione, in quanto la scelta del dato temporale per
individuare il diverso regime cui assoggettare i giudizi
rappresenterebbe il criterio più obiettivo e rigoroso per garantire
l’efficacia della riforma.
2. – Il tribunale di Milano, in sede di reclamo di ordinanza
istruttoria ammissiva della prova, ha sollevato, con ordinanza emessa
l’11 aprile 1996, questioni di legittimità costituzionale: a)
dell’art. 9 del d.-l. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito in legge 20
dicembre 1995, n. 534, in riferimento agli artt. 3, 24 e 101, secondo
comma, della Costituzione, nella parte in cui ha eliminato
l’applicabilità ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore
della riforma, dell’intera novella sul processo civile (in precedenza
sancita dall’art. 90, comma 8, della legge n. 353 del 1990) e
comunque in quanto esclude l’applicabilità dell’art. 178 novellato
del codice di procedura civile (che abolisce il controllo istruttorio
del collegio) e degli artt. 180, 183 e 190-bis cod. proc. civ.
concernenti la monocraticità del giudice; b) dell’art. 10 del citato
decreto-legge, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della
Costituzione, nella parte in cui fissa un rapporto tra magistrati
addetti alla trattazione dei giudizi pendenti e magistrati assegnati
alle cause nuove ancor meno favorevole di quello indicato in
precedenza dall’art. 91, comma 4, della legge n. 353 del 1990
(anziché adottare un criterio che avvantaggi la trattazione delle
cause in corso).
Il rimettente collegio prende le mosse proprio dalle norme che –
per i giudizi pendenti – lasciano sussistere il – reclamo istruttorio
(del quale appunto egli è investito), così cancellando l’originario
disegno della disciplina transitoria che voleva esteso il nuovo rito
anche alle cause in corso (ex art. 90, comma 8, cit.) . Si sarebbe in
tal modo creato un “doppio binario” per i giudizi – rispettivamente
pendenti e sopravvenuti al 30 aprile 1995 – creativo di una
disparità di trattamento tra le parti, non giustificata da esigenze
di gradualità. Secondo il tribunale, il perpetuarsi del vecchio
rito renderebbe eccessivamente difficoltoso il raggiungimento della
tutela dei diritti e sarebbe in contrasto con altre scelte
legislative, come quella adottata allorché fu introdotto il rito del
lavoro, in cui la disciplina transitoria prevedeva l’estensione del
nuovo rito ai giudizi pendenti, sì che i princi’pi contenuti nelle
disposizioni abrogate dovrebbero essere reintrodotti.
Secondo il giudice a quo, l’istituto del reclamo al collegio
rappresenterebbe un rimedio superfluo (essendovi già la facoltà di
chiedere la modifica o la revoca del provvedimento ammissivo delle
prove al giudice che lo ha emesso), non di rado usato a scopi
meramente dilatori e che perpetua una sovrapposizione ed un continuo
passaggio tra i due organi investiti dell’istruzione e della
decisione, anche perché l’istruttore, per non scontentare le parti,
potrebbe essere indotto a rimettere al collegio l’intera causa. La
soppressione del reclamo ben potrebbe essere affermata – osserva il
giudice a quo – anche nel vigente sistema di collegialità,
trattandosi di un rimedio anacronistico, il cui perpetuarsi non giova
allo smaltimento dell’arretrato.
Parimenti rilevante, anzi assorbente rispetto alla precedente
questione, risulterebbe – secondo il tribunale di Milano – il profilo
d’illegittimità costituzionale concernente la mancata applicazione
ai giudizi in corso dell’art. 190-bis con la conseguente vigenza
della regola che vuole la collegialità per decidere le controversie
(mentre pure qui era stata prevista la figura del giudice unico). Da
ciò deriverebbero tempi lunghissimi per definire le controversie in
corso, con inutile aggravio di costi. Anche l’art. 190-bis potrebbe
essere esteso ai giudizi pendenti indipendentemente
dall’applicabilità dell’intera riforma, in quanto compatibile, da un
lato, con il mantenimento della precedente composizione del Tribunale
per le cause già rimesse al collegio, e dall’altro lato, con la
riserva di collegialità mantenuta dal nuovo rito.
Il rimettente si diffonde quindi sulle origini storiche e sugli
aspetti di diritto comparato relativi all’udienza preliminare ex art.
180 (novellato) cod. proc. civ., allo scopo di evidenziare l’utilità
dell’istituto ed i benefici che conseguirebbero dalla sua estensione
anche ai giudizi in corso. Per quello a quo, già pervenuto in
istruttoria, il tribunale non esclude tuttavia la rilevanza del tema,
sostenendo che l’applicabilità della nuova disciplina comporterebbe
una sorta di “reimpostazione” dell’intera controversia.
In ordine alla denuncia dell’art. 10, il rimettente, che richiama
esplicitamente l’ordinanza del tribunale di Brescia, svolge argomenti
analoghi a sostegno dell’illegittimità costituzionale del criterio
dal legislatore prescelto per la distribuzione dei processi vecchi e
nuovi, ulteriormente sottolineando l’irrazionalità della proporzione
di metà dei magistrati, anche alla luce dell’aumento della
competenza pretorile per valore; in proposito egli suggerisce
l’estensione immediata del sistema che la norma stessa indica per gli
anni successivi al primo biennio, ovvero un criterio che avvantaggi
con un “congruo numero di magistrati” la trattazione delle cause in
corso.
costituzionale dell’art. 9 del d.-l. 18 ottobre 1995, n. 432,
convertito in legge 20 dicembre 1995, n. 534, nella parte in cui –
sostituendo l’art. 90 della legge 26 novembre 1990, n. 353, già
più volte modificato da altre norme – ha escluso l’applicabilità ai
giudizi in corso della nuova disciplina del processo civile ed in
particolare degli artt. 178, 180, 183 e 190-bis del codice di
procedura civile.
L’impossibilità di trattare la causa attraverso il meccanismo
dell’udienza di prima comparizione cui fa seguito l’udienza ex art.
183 cit., nonché il permanere dell’istituto del reclamo istruttorio
e della struttura collegiale dell’organo decidente concreterebbero, a
parere del rimettente, altrettante violazioni del principio della
parità di trattamento tra le parti, restando queste assoggettate ad
un rito diverso a seconda della data in cui è stata introdotta la
lite, con conseguente compressione del diritto di difesa e lesione
anche dell’art. 101 Cost.
Secondo il medesimo tribunale, gli artt. 3 e 24 della Costituzione
nonché il principio di buon andamento della pubblica amministrazione
sarebbero poi vulnerati dall’art. 10 del citato decreto-legge, che ha
sostituito l’art. 91 della legge n. 353 del 1990, nella parte in cui
esso stabilisce che, fino al 31 dicembre 1996, alla trattazione dei
giudizi pendenti in data 30 aprile 1995, sono destinati non più
della metà dei magistrati incaricati della trattazione dei giudizi e
degli affari civili. Anche in tale ipotesi alle cause pendenti
sarebbe riservato un trattamento deteriore, tale da ostacolarne lo
smaltimento.
Analoga censura, con riferimento agli stessi parametri,
relativamente all’art. 10 del solo decreto-legge, è infine sollevata
dal Tribunale di Brescia, che evoca altresì l’art. 25 della
Costituzione per lesione del principio del giudice naturale, dal
rimettente ritenuta insita nel provvedimento con cui un processo
civile viene sottratto ad un giudice istruttore ed assegnato ad un
altro in esecuzione della denunciata norma.
2. – I giudizi, attesa la parziale identità del tema, devono
essere riuniti e trattati insieme.
3. – Le questioni non sono fondate.
3.1.1. – L’originario testo dell’art. 90, comma 8, della legge 26
novembre 1990, n. 353, disponeva l’applicabilità ai giudizi pendenti
delle disposizioni dettate dalla legge medesima. Tale opzione aveva
comportato una serie di conseguenziali scelte, in particolare con
riguardo alla prosecuzione dei giudizi stessi ed al loro adeguamento
al sistema delle decadenze.
Con ulteriori interventi modificativi venivano eliminati l’onere di
comparizione delle parti per evitare la cancellazione della causa dal
ruolo (onere sostituito dalla semplice istanza) ed il termine
perentorio originariamente previsto per gli adempimenti necessari
alla conversione del rito. Ma neppure tali innovazioni valevano a
sottrarre i profili di diritto transitorio alle travagliate vicende
legislative che hanno caratterizzato la lunga gestazione della
riforma del processo civile. Con l’art. 1 del d.-l. 21 aprile 1995,
n. 121 (poi decaduto per mancata conversione nei termini), è stato
infatti adottato l’opposto criterio, che vuole pressoché
integralmente soggetti al previgente regime i giudizi pendenti alla
data del 30 aprile 1995.
3.1.2. – Il netto mutamento di indirizzo – nuovamente disposto con
la norma ora denunciata – si inserisce appunto nel contesto delle
molteplici modifiche subite dall’originario impianto della riforma,
pressata via via da sempre nuove esigenze di adattamento alla realtà
strutturale degli uffici, anche in ragione del necessario
coordinamento con la sopravvenuta istituzione del giudice di pace.
Come reso esplicito dai lavori preparatori della legge di conversione
n. 534 del 1995, esso appare ispirato – nello sforzo altresì di
venire incontro alle istanze provenienti soprattutto dal Foro –
dall’intento di agevolare il più possibile la fase di avvio del
nuovo processo. L’applicabilità di quest’ultimo ai soli giudizi
introdotti dopo il 30 aprile 1995 si pone dunque in coerenza con tale
scelta di fondo, e oltretutto comporta soluzioni processuali assai
più lineari di quelle individuate in precedenza.
Si deve pertanto ritenere non travalicato il limite della
ragionevolezza, che il legislatore incontra nel regolare la
successione delle leggi processuali nel tempo. In proposito è da
ribadire che il regime transitorio è volto ad assicurare il
passaggio da una disciplina ad un’altra secondo tempi e scale di
priorità che rientrano nel senso politico della discrezionalità
legislativa, sì che ben può essere mantenuta in vita solo una parte
ovvero la totalità delle norme abrogate in riferimento a situazioni
pendenti, e variamente stabilita la sorte dei processi in corso (cfr.
sentenze n. 101 del 1993, n. 136 del 1991 e ordinanza n. 419 del
1990).
3.1.3. – D’altronde, la struttura collegiale dell’organo decidente
e il reclamo delle ordinanze istruttorie che ad esso si correla,
appartengono ontologicamente alla disciplina previgente. Per cui la
manipolazione che il giudice a quo richiede a questa Corte, nel senso
della soppressione del citato mezzo di impugnazione come conseguenza
della monocraticità del giudice (della quale pure si richiede la
estensione ai processi in corso) verrebbe ad operare altrettanti
“innesti” della nuova disciplina sul vecchio sistema, che si è
invece voluto mantenere pressoché unitario, nel non irrazionale
esercizio della detta discrezionalità.
A maggior ragione ciò può ripetersi in ordine alla mancata
previsione, per i giudizi pendenti, delle due nuove udienze ex artt.
180 e 183 cod. proc. civ., la cui distinzione è infatti da
considerarsi funzionale alla nuova disciplina delle eccezioni
processuali e di merito proponibili dal convenuto (cfr. sentenza n.
84 del 1996), in armonia con il modello procedurale adottato dal
legislatore nel disegnare la riforma; modello che appare del tutto
estraneo, anzi in gran parte antitetico, al rito precedente.
3.2. – Anche la seconda censura, proposta dal tribunale di Brescia
soltanto con riguardo all’art. 10 del decreto-legge n. 432 del 1995,
ma ovviamente estensibile alla legge di conversione (che peraltro è
stata direttamente impugnata in parte qua dalla ordinanza del
tribunale di Milano), è priva di consistenza. La decisione di
destinare alla trattazione dei giudizi pendenti non più della metà
dei magistrati addetti agli affari civili rappresenta, infatti,
nient’altro che il corollario, in termini organizzativi,
dell’anzidetta opzione vo’lta a favorire nella fase iniziale il nuovo
processo.
Il previsto criterio di riparto delle controversie, in presenza di
strutture giudiziarie notoriamente inadeguate sia al vecchio che al
nuovo sistema, costituisce l’esito d’un evidente bilanciamento tra
detta esigenza e quella, posta sullo stesso piano, di smaltire in
tempi ragionevoli l’enorme carico di processi arretrati; così da
impedire che questi ultimi venissero a condizionare la riforma del
rito civile al punto da sacrificarne sin dall’inizio il fondamentale
principio di immediatezza. E non è da trascurare che nella
ponderazione del legislatore è stato tenuto presente anche il potere
di nominare e utilizzare più vicepretori onorari, che, proprio “per
sopperire alle finalità dell’esaurimento delle controversie civili
pendenti”, lo stesso novellato art. 90, nel quinto comma, attribuisce
al presidente del tribunale pur in assenza delle condizioni previste
dal r.d. 30 gennaio 1941, n. 12.
Da sottolineare è inoltre che il vincolo in esame – peraltro
concernente solo gli uffici giudiziari la cui consistenza organica
permetta la prevista divisione proporzionale delle assegnazioni – è
limitato nel tempo, venendo a cessare il 31 dicembre 1996 per essere
sostituito dal più elastico criterio di cui alla seconda parte
dell’art. 91, comma 1. Sicché si è di fronte a un a’mbito temporale
di vigenza assai modesto, chiaramente indispensabile per raccogliere
i dati necessari ai Consigli giudiziari onde poter rendere il
previsto parere al Consiglio superiore della magistratura, cui
spetterà nel futuro di stabilire la nuova proporzione per ciascun
distretto di Corte d’appello. E codesto carattere provvisorio non
può non concorrere con le ragioni sopra esposte, a far escludere che
la denunciata disciplina transitoria per i giudizi in corso concreti
violazione degli evocati parametri.
Per quanto poi riguarda in particolare l’art. 25 della
Costituzione, è appena il caso di rilevare come il criterio di
ripartizione dei processi viene dall’impugnata norma enunciato in via
generale e predeterminata, non già in vista di singole controversie;
sicché non configurabile si palesa la prospettata violazione del
principio del giudice naturale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 9 e 10 del d.-l. 18 ottobre
1995, n. 432 (Interventi urgenti sul processo civile e sulla
disciplina transitoria della legge 26 novembre 1990, n. 353, relativa
al medesimo processo), convertito in legge 20 dicembre 1995, n. 534,
sollevate in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 97 e 101, secondo
comma, della Costituzione, dai tribunali di Milano e Brescia con le
ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’11 dicembre 1996..
Il Presidente: Granata
Il redattore: Ruperto
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 20 dicembre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola