Sentenza N. 402 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
18/11/1993
Data deposito/pubblicazione
18/11/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
05/11/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,
avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.
Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI,
prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo
VARI;
d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n.
359 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica),
promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 23 novembre 1992 dal Pretore di Torino
nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Vittorioso Maria ed
altri e la S.p.a. Fiat Auto, iscritta al n. 15 del registro ordinanze
1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5,
prima serie speciale, dell’anno 1993;
2) ordinanza emessa il 24 dicembre 1992 dal Pretore di Torino
nel procedimento civile vertente tra Acutis Luigi e la S.p.a.
Microtecnica, iscritta al n. 84 del registro ordinanze 1993 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima
serie speciale, dell’anno 1993;
Visti gli atti di costituzione di Pisicoli Vincenza, della S.p.a.
Fiat Auto e della S.p.a. Microtecnica nonché gli atti di intervento
del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 5 ottobre 1993 il Giudice relatore
Luigi Mengoni;
Uditi gli avvocati Massimo D’Antona e Luciano Ventura per Pisicoli
Vincenza, Paolo Tosi e Rosario Flammia per la S.p.a. Fiat Auto, Paolo
Tosi per la S.p.a. Microtecnica e l’Avvocato dello Stato Antonio
Bruno per il Presidente del Consiglio dei Ministri;
contro la S.p.a. Fiat auto per ottenere la condanna al maggior
accantonamento ai fini del trattamento di fine rapporto e al
pagamento di differenze retributive a vario titolo dovute (per
festività, ferie, gratifica natalizia ecc.), computando l’indennità
sostitutiva della mensa per il valore reale del pasto e non soltanto
per quello convenzionale (fissato da un accordo aziendale
nell’importo di lire 172 giornaliere), il Pretore di Torino, con
ordinanza del 23 novembre 1992, ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3, 24, 101, 102 e 104 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 4, del d.-l. 11 luglio
1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359.
La norma impugnata fa “salve, a far data dalla loro decorrenza, le
disposizioni degli accordi e dei contratti collettivi, anche
aziendali, pur se stipulati anteriormente alla data di entrata in
vigore del presente decreto, che prevedono limiti e valori
convenzionali del servizio di mensa e dell’importo della prestazione
sostitutiva di esso, percepita da chi non usufruisce del servizio
istituito, a qualsiasi effetto attinente ad istituti legali e
contrattuali del rapporto di lavoro subordinato”.
Premesso: a) che a partire dal 1989 la giurisprudenza prevalente,
sul presupposto che il servizio di mensa assume natura retributiva
quando sia prevista una indennità sostitutiva per coloro che non ne
usufruiscono, ha affermato l’incidenza del suo valore reale (e non
solo di quello convenzionale) sugli elementi retributivi indiretti o
differiti; b) che, in contrasto con questa giurisprudenza, l’art. 6,
comma 3, del d.l. n. 333 del 1992 ha introdotto una nuova disciplina
della materia per il futuro, la quale esclude, salvo pattuizioni
collettive in deroga, la computabilità nella retribuzione, ad ogni
effetto, del valore del servizio di mensa e dell’importo della
prestazione pecuniaria sostitutiva di esso; il giudice remittente
ritiene che il successivo comma 4 ha “una portata indubbiamente
retroattiva nella parte in cui sancisce la salvezza delle dette
pattuizioni collettive a far data dalla loro decorrenza”. Sarebbe
stata così disposta la sanatoria di clausole collettive colpite,
secondo la giurisprudenza sopra richiamata, da nullità per
contrarietà alle norme imperative di legge che impongono il calcolo
delle voci retributive indirette o differite su tutti gli elementi
della retribuzione.
La deroga al principio di cui all’art. 11 delle disposizioni
preliminari al codice civile sarebbe: a) irrazionale, perché viola
la certezza del diritto sanando una situazione di nullità negoziale
risalente per un periodo di oltre quarant’anni;
b) invasiva delle attribuzioni dell’autorità giudiziaria, perché
modifica d’imperio la giurisprudenza prevalente condizionando in
senso opposto la decisione dei giudizi in corso; c) lesiva,
conseguentemente, anche del diritto di difesa dei cittadini.
2. – Nel giudizio davanti alla Corte si è costituito uno dei
lavoratori in causa. Premesso che è dubbia la rilevanza della
questione, dovendosi escludere l’intenzione della norma impugnata di
convalidare clausole collettive attributive al servizio di mensa di
valori monetari puramente simbolici, essa conclude in subordine per
una dichiarazione di illegittimità costituzionale.
3. – Si è pure costituita la società convenuta chiedendo che la
questione sia dichiarata infondata e formulando riserva di deduzioni,
alle quali ha provveduto con un’ampia memoria depositata in
prossimità dell’udienza di discussione.
Si osserva anzitutto che i dubbi di costituzionalità prospettati
dall’ordinanza di rimessione sono eliminati in radice dalla sentenza
n. 3888 del 1993 pronunciata dalla Corte di cassazione, a sezioni
unite, nell’esercizio della funzione nomofilattica prevista dall’art.
374, secondo comma, cod. proc. civ. La sentenza nega che il servizio
di mensa, la cui fruizione dipende da una scelta del lavoratore,
abbia per se stesso natura retributiva, mancando il nesso di
corrispettività con la prestazione di lavoro: la qualificazione di
retribuzione può ad esso accedere solo in virtù di un precetto
dell’autonomia collettiva e nei limiti del valore monetario
convenzionalmente fissato dalle clausole che prevedono un’indennità
sostitutiva per i lavoratori che non profittano del servizio.
Pertanto, l’art. 6, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992 non è norma di
interpretazione autentica, né retroattivamente innovativa, ma si
limita a confermare, convertendolo in una disposizione esplicita,
quello che fino al 1989 era il diritto pacificamente applicato nella
materia de qua e del quale le Sezioni unite riconoscono ora la
conformità ai principi.
Comunque, soggiunge la società convenuta, anche ammesso – giusta
l’interpretazione seguita dal giudice remittente e respinta dalle
Sezioni unite – che si tratti di norma innovativa munita di efficacia
retroattiva, essa non viola nessuno dei parametri costituzionali
invocati. Non offende il principio di razionalità, perché non
retroagisce “per quasi quarant’anni”, come asserisce il giudice a
quo, sanando clausole collettive nulle per contrarietà a norme imperative di legge, bensì impone retroattivamente una disciplina
legale corrispondente alla contrattazione collettiva e
all’interpretazione dell’accordo interconfederale 20 aprile 1956,
recepito nel d.P.R. 14 luglio 1960, n. 1026, ripetutamente confermata
da accordi aziendali e per quasi quarant’anni applicata senza
contrasti dalla giurisprudenza. Non invade la sfera delle
attribuzioni del potere giudiziario perché non mira a definire
specifici giudizi in corso, ma regola in generale la materia
muovendosi su un piano diverso da quello del giudice. Non contrasta,
infine, col diritto di difesa, perché non preclude al giudice la
decisione di merito imponendogli di dichiarare d’ufficio l’estinzione
dei giudizi pendenti, ma semplicemente detta una regola per la
decisione del merito.
4. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione
sia dichiarata non fondata con argomenti analoghi a quelli testé
riferiti, senza escludere peraltro una valutazione di irrilevanza sul
riflesso che le disposizioni del citato accordo interconfederale non
contrastano con norme imperative di legge: non con l’art. 2121, testo
del 1942, in tema di indennità di anzianità, perché il servizio di
mensa non è equiparabile alla retribuzione in natura, né con l’art.
5 della legge 27 maggio 1949, n. 260, modificato dalla legge n. 90
del 1954, in tema di compenso per festività, perché la “normale
retribuzione globale di fatto”, ivi prevista come base del computo,
concerne le sole componenti monetarie del salario.
5. – Nel corso di un giudizio promosso da Luigi Acutis contro la
S.p.a. Microtecnica la questione è stata nuovamente sollevata dallo
stesso Pretore di Torino con ordinanza di identico tenore in data 24
dicembre 1992.
6. – Nel giudizio davanti alla Corte si è costituita la Società
Microtecnica chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. In
una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza di discussione la
Società richiama la più volte citata sentenza n. 3888 del 1993
della Corte di cassazione, la quale, anche a suo avviso, dissolve
ogni questione di costituzionalità e in particolare quella sollevata
dall’ordinanza del Pretore di Torino. Aggiunge una serie di
argomentazioni analoghe a quelle sviluppate dalla difesa della Fiat
nell’altro giudizio, sottolineando che le ragioni con cui le Sezioni
unite hanno escluso ogni profilo di incostituzionalità della norma
impugnata, qualificandola come legge confermativa del diritto
vivente, conducono alla medesima conclusione anche se la si considera
come legge introduttiva di una nuova disciplina con efficacia
retroattiva.
7. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri
chiedendo che la questione sia dichiarata infondata per gli stessi
motivi indicati nell’intervento spiegato nell’altro giudizio.
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 102 e 104 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6,
comma 4, del d.-l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge 8
agosto 1992, n. 359, nella parte in cui attribuisce efficacia
retroattiva alla norma del comma precedente, facendo “salve, a far
data dalla loro decorrenza, le disposizioni degli accordi e dei
contratti collettivi, anche aziendali, pur se stipulati anteriormente
alla data di entrata in vigore del presente decreto, che prevedono
limiti e valori convenzionali del servizio di mensa di cui al comma 3
e dell’importo della prestazione sostitutiva di esso, percepita da
chi non usufruisce del servizio istituito, a qualsiasi effetto
attinente a istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro
subordinato”.
2. – I giudizi di legittimità costituzionale introdotti dalle due
ordinanze hanno il medesimo oggetto; pertanto è opportuno disporne
la riunione affinché siano definiti con unica sentenza.
3. – La questione non è fondata.
L’art. 6, comma 3, del d.-l. n. 333 del 1992 esclude il valore del
servizio di mensa e l’importo dell’indennità sostitutiva dalla base
di computo agli effetti degli istituti retributivi legali e
contrattuali del rapporto di lavoro subordinato, salva diversa
disposizione dell’autonomia collettiva, alla quale è rimesso il
potere di decidere se e in quale misura il servizio debba
considerarsi retribuzione ai detti effetti. A questa norma il
successivo comma 4, cui è limitato l’incidente di costituzionalità,
conferisce efficacia retroattiva.
Riconosciuta tale efficacia, ha scarsa importanza stabilire se i
commi 3 e 4 costituiscano una norma innovativa con clausola di
retroattività oppure una norma interpretativa, per sua natura
retroattiva. Nell’uno e nell’altro caso la legge è soggetta al
controllo di conformità al principio di ragionevolezza secondo
criteri analoghi. La stessa ordinanza di rimessione, che cataloga la
norma come innovativa, richiama poi, ai fini della valutazione alla
stregua dell’art. 3 della Costituzione, la giurisprudenza di questa
Corte in tema di interpretazione autentica.
Non si può invece seguire l’ordinanza là dove ravvisa nella
norma impugnata una “disposizione a sanatoria” di pattuizioni
collettive ritenute nulle dalla giurisprudenza per contrarietà alle
norme imperative di legge che vincolano il parametro di computo delle
voci retributive di cui è causa a una nozione onnicomprensiva di
retribuzione. Sulla base di una falsa analogia con la questione
decisa dalla sentenza di questa Corte n. 155 del 1990, apparentemente
suggerita dalla lettera della legge, che fa “salvi” i disposti della
contrattazione collettiva in ipotesi colpiti da nullità, la
valutazione del giudice a quo ascrive alla norma censurata un
significato autonomo, mentre essa fa corpo col comma precedente e
solo da questa connessione sistematica riceve senso. Il comma 4 non
opera direttamente, sanandone la (pretesa) nullità, sulle clausole
collettive che commisurano la computabilità del servizio di mensa
all’importo convenzionale dell’indennità sostitutiva, bensì
sostituisce (retroattivamente) alla precedente regola di giudizio,
formulata in via interpretativa dalla giurisprudenza, una specifica
regola legale alla stregua della quale le dette clausole devono
considerarsi ab origine validamente stipulate. La retroattività non
determina la reviviscenza di clausole nulle, bensì elimina in radice
la precedente valutazione di nullità.
Così precisata nei suoi contenuti, la volontà del legislatore è
sovrana, sia o meno in contrasto con la giurisprudenza concorde o
quasi concorde, e incontra soltanto il limite dei principi
costituzionali. Ma per dire violato il principio di ragionevolezza
non è sufficiente il rilievo che “la finalità avuta di mira dal
legislatore è stata quella di intervenire per modificare d’imperio
un’interpretazione giurisprudenziale sgradita”. La legittimità di un
intervento legislativo con forza retroattiva non è contestabile
nemmeno quando esso sia determinato dall’intento di “rimediare a
un’opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza in senso
divergente dalla linea di politica del diritto giudicata (dal
legislatore) più opportuna” (ord. n. 480 del 1992). In tal caso
requisito di giustificazione della retroattività è che il diverso
modello di decisione imposto dalla legge sopravvenuta fosse
ragionevolmente prospettabile, in relazione ai rapporti anteriormente
costituiti, in alternativa a quello applicato dalla giurisprudenza.
4.1. – Nell’indirizzo giurisprudenziale contrastato dalla norma
impugnata non sono riscontrabili i caratteri di una situazione di
diritto consolidata al punto da far ritenere improbabile l’ipotesi di
soluzione alternativa, e quindi tale che la retroattività
dell’intervento legislativo possa reputarsi lesiva della certezza dei
rapporti giuridici. L’indirizzo in parola è rappresentato da un
gruppo di sentenze della Sezione lavoro della Corte di cassazione
racchiuso nel periodo 1989-1992 e contrapposto a una precedente
giurisprudenza ultratrentennale che riconosceva pacificamente piena
validità all’accordo interconfederale 20 aprile 1956, recepito nel
d.P.R. 14 luglio 1960, n. 1026, e ai successivi accordi aziendali in
materia.
Nonostante il mutato orientamento giurisprudenziale, la disciplina
dell’accordo citato è stata confermata dall’art. 11- bis del
contratto collettivo 14 dicembre 1990 per il settore metalmeccanico
privato e successivamente ribadita in una dichiarazione congiunta
delle Segreterie nazionali della FIOM-CGIL, della FIM-CISL, della
UILM-UIL e della FISMIC contestualmente alla firma dell’accordo
aziendale 7 febbraio 1991 sulle mense per gli stabilimenti Fiat. La
reazione unanime delle organizzazioni sindacali – in relazione alle
quali la norma denunciata si pone come legge di sostegno e di
salvaguardia dell’autonomia collettiva – si spiega sul riflesso che
il nuovo corso inaugurato dalla sentenza della Corte di cassazione n.
3483 del 1989, ove si fosse consolidato, avrebbe determinato una
distribuzione di incrementi di reddito, complessivamente di ingente
ammontare, escludendone totalmente i dipendenti delle imprese medio-piccole, che non erogano né servizio di mensa, né indennità
sostitutiva, e con forti sperequazioni anche tra i lavoratori che
usufruiscono del servizio, a cagione delle modalità assai varie di
erogazione e delle differenze di costo da azienda ad azienda e da
luogo a luogo.
4.2. – Il mutato orientamento della giurisprudenza di legittimità
non solo non ha guadagnato il consenso delle organizzazioni sindacali
dei lavoratori, ma ha trovato opposizione, motivata con sentenze
ampiamente argomentate, anche in una parte dei giudici di merito, e
nemmeno è rimasto immune da divergenze in seno alla stessa Corte di
cassazione. Con una decisione chiaramente in controtendenza la
sentenza n. 7179 del 1991 ha statuito che “l’erogazione dei pasti da
parte del datore di lavoro non costituisce una componente in natura
della retribuzione”, né vale a imprimerle tale carattere la semplice
previsione di un’indennità sostitutiva, da considerarsi, in mancanza
di una diversa espressa volontà contrattuale, “mero rimborso spese”.
L’art. 6, commi 3 e 4, del d.-l. n. 333 del 1992 altro non è se
non la traduzione in termini normativi di questa massima e del
corollario che ne discende in ordine alla natura dispositiva della
norma: esso comporta l’attribuzione all’autonomia collettiva del
potere di fissare discrezionalmente, senza vincolo di alcun
parametro, la misura dell’incidenza del servizio di mensa sugli
istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro. Tale
corollario esclude che si possa trarre argomento di irrazionalità
della legge dall’esiguità (determinata dai processi inflattivi della
moneta) della somma prevista dai contratti collettivi a titolo di
indennità sostitutiva. Di ciò sembra consapevole lo stesso giudice
remittente, visto che nel dispositivo dell’ordinanza non si fa
questione di rivalutazione della somma.
Giova pure osservare, sempre ai fini del giudizio di
ragionevolezza, che la legge sotto esame ha eliminato l’incongruenza
dell’ultima giurisprudenza col trattamento fiscale del servizio di
mensa. L’art. 48, comma 2, lett. d) del d.lgs. 22 dicembre 1986, n.
917, esclude in ogni caso le somministrazioni in mense aziendali
dagli elementi concorrenti alla formazione del reddito imponibile,
differenziandole quindi, pur quando sia prevista un’indennità
sostitutiva, dai “compensi in natura” previsti nei commi 1 e 3.
4.3. – Per decidere il presente incidente di costituzionalità non
occorre entrare nel merito delle opposte interpretazioni espresse in
progressione di tempo dalla Corte di cassazione, il cui contrasto è
stato composto dalle Sezioni unite con la sentenza n. 3888 del 1993.
Entro il limite della ragionevolezza, e sempre che siano rispettati
gli altri precetti costituzionali, la scelta del legislatore è
insindacabile, indipendentemente dall’esattezza dell’interpretazione
sulla quale è caduta.
Perciò la pronuncia dell’organo investito della funzione
nomofilattica, che ha confermato la “tesi interpretativa” dominante
fino al 1989, constatando la “sostanziale convergenza” con essa del
ius superveniens, viene qui in considerazione come indice
rafforzativo del convincimento, già raggiunto aliunde, della non
arbitrarietà dell’efficacia retroattiva attribuita alla legge
sopravvenuta.
5. – Infondata è pure la censura riferita agli artt. 101, 102 e
104 della Costituzione. La legge impugnata non appare mossa
dall’intento di influire su concrete fattispecie sub iudice; essa
stabilisce, in via generale, e retroattivamente, una regola di
giudizio che i giudici, nell’adempimento della loro funzione, hanno
l’obbligo di applicare anche ai rapporti sorti nel passato, ferma
l’intangibilità delle situazioni già definite con sentenza passata
in giudicato o in via transattiva. Tale obbligo non è per se stesso
lesivo della sfera del potere giudiziario (cfr. sentenza n. 118 del
1957): la retroattività non tocca la potestas iudicandi, bensì il
modello di decisione cui l’esercizio della potestà deve attenersi
(sentenze nn. 6 del 1988 e 39 del 1993).
Per la medesima ragione non sussiste l’asserita violazione del
diritto di difesa (art. 24 della Costituzione).
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 4, del d.-l. 11 luglio
1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza
pubblica), convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, sollevata,
in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 102 e 104 della Costituzione,
dal Pretore di Torino con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, 5 novembre 1993.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: MENGONI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 18 novembre 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA