Sentenza N. 406 del 1998
Corte Costituzionale
Data generale
12/12/1998
Data deposito/pubblicazione
12/12/1998
Data dell'udienza in cui è stato assunto
10/12/1998
Presidente: prof. Giuliano VASSALLI;
Giudici: prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI
MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi
regionali), dell’art. 27, primo comma, numero 4 del regio decreto 26
giugno 1924, n. 1054 (Approvazione del testo unico delle leggi sul
Consiglio di Stato), e degli artt. 90 e 91 del regio decreto 17
agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle
sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), promosso con
ordinanza emessa il 22 gennaio 1997 dal Tribunale amministrativo
regionale del Piemonte sul ricorso proposto dalla Società italiana
per il gas p.a. contro il Comune di Vigliano Biellese ed altra,
iscritta al n. 480 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 30, prima serie speciale,
dell’anno 1997.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 3 giugno 1998 il giudice
relatore Riccardo Chieppa.
Vigliano Biellese, ai sensi dell’art. 33 della legge 6 dicembre 1971,
n. 1034, dalla Società italiana per il gas p.a. per l’esecuzione
della sentenza n. 293 del 1996 con la quale erano stati annullati gli
atti di aggiudicazione della gara per l’affidamento in concessione
del servizio di distribuzione dell’acqua potabile alla Sigesa s.p.a.,
il tribunale amministrativo regionale del Piemonte, ha sollevato
questione di legittimità degli artt. 37 della legge 6 dicembre 1971,
n. 1034, 27, primo comma, numero 4, del regio decreto 26 giugno 1924,
n. 1054, 90 e 91 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642.
Il giudice rimettente, dopo aver ricostruito in fatto l’iter
processuale della vicenda avente ad oggetto l’impugnazione degli atti
del Comune di Vigliano Biellese relativi alla procedura di
aggiudicazione, a trattativa privata, della concessione del servizio
di distribuzione dell’acqua potabile in favore della Sigesa s.p.a.,
decisa con sentenza d’annullamento n. 293 del 1996 e nei cui
confronti l’amministrazione comunale aveva interposto appello al
Consiglio di Stato, ha sottolineato che quest’ultima amministrazione,
senza richiedere la sospensione dell’esecutività della sentenza
innanzi al giudice di secondo grado investito dell’esame
dell’appello, si era rifiutata espressamente di assumere i
provvedimenti necessari per conformarsi alla statuizione del
Tribunale amministrativo regionale; tanto è che l’originaria
affidataria del servizio, controinteressata nel giudizio
amministrativo, continuava a svolgere il servizio.
In diritto, il giudice a quo richiama nelle premesse che il ricorso
era basato sull’art. 33 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034
contenente la previsione che le sentenze del giudice amministrativo
sono immediatamente esecutive, mentre un consolidato orientamento
giurisprudenziale è contrario all’esperibilità immediata del
giudizio di “esecuzione” coattiva, essendo questo il tipico rimedio
del giudizio d’ottemperanza, fondato sul presupposto che la sentenza
da eseguire sia passata in cosa giudicata ai sensi dell’art. 324 del
codice di procedura civile (tra le tante, v. Consiglio di Stato, ad
plen., 23 marzo 1979, n. 12; 1 aprile 1980, n. 10).
Poiché il riscontro del dato normativo, come conformato
dall’indirizzo ermeneutico giurisprudenziale, depone in senso
contrario alla pretesa fatta valere nel giudizio di merito, ad avviso
del collegio rimettente, si imporrebbe l’indagine sulla legittimità
costituzionale delle disposizioni che disciplinano il giudizio di
ottemperanza, preclusive all’ottenimento del bene della vita cui
sarebbe preordinata la tutela giurisdizionale, in contrasto altresì
con il precetto scaturente dalla proclamata esecutività della
sentenza del giudice amministrativo.
Sul piano dell’effettività della tutela giurisdizionale che trova
presidio costituzionale negli artt. 24 e 113 della Costituzione, atti
a garantire il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli
interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto,
dovrebbe essere affermata, secondo la prospettazione del giudice a
quo, l’incostituzionalità delle disposizioni che regolano il
giudizio di ottemperanza nella parte in cui precludono che siano
portate ad esecuzione coattiva le decisioni giustiziali di per sé
esecutive, prima di aver acquisito autorità di cosa giudicata.
Il dubbio di legittimità costituzionale troverebbe ulteriore
fondamento alla stregua della sentenza n. 419 del 1995 della Corte,
che ha riconosciuto il potere del giudice amministrativo di assumere
tutti i provvedimenti necessari all’esecuzione delle proprie
ordinanze cautelari; il che oltretutto, quale portato
logico-giuridico, sottintenderebbe che a maggior ragione tale potere
venisse attribuito alla sentenza che, a differenza della misura
cautelare, abbia definito un grado di giudizio.
Sul piano dell’intrinseca ragionevolezza delle disposizioni
censurate, che si tradurrebbe altresì in ingiustificata disparità
di trattamento, rileverebbe, sempre secondo il giudice a quo, la
distinzione fra effetti demolitori, ripristinatori e conformativi,
conseguenti alle sentenze del giudice amministrativo, in diretta
corrispondenza alla natura dell’interesse fatto valere in giudizio:
solo i c.d. interessi oppositivi, che non necessitano di misure
attuative concrete, sarebbero immediatamente garantiti
dall’annullamento degli atti impugnati; non quelli pretensivi, pur
sempre omogenei quanto a tutela giurisdizionale.
Sotto altro profilo, la violazione dell’art. 3 in relazione agli
artt. 24, 103 e 113 della Costituzione si evincerebbe dalla
comparazione con l’esecutività ex lege delle sentenze emesse dal
giudice ordinario, suscettibili di essere portate ad esecuzione
coattiva, a prescindere dalla natura della sentenza e dal contenuto
della statuizione, nei confronti della pubblica amministrazione senza
che possano invocarsi ostacoli all’esecuzione forzata che la prassi
giudiziale ha progressivamente ridotto; irrazionalità vieppiù
palese se considerata con riguardo alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo avente ad oggetto i rapporti paritetici, le
cui decisioni sono di contenuto omologo a quelle rese dal giudice
ordinario.
D’altra parte il presunto grado di certezza, sguarnito di tutela
costituzionale, insito nell’autorità di cosa giudicata delle
sentenze emesse dal giudice amministrativo, si rivelerebbe, secondo
la prospettazione delle censure, meramente ipotetico se verificato,
con riguardo alle sentenze del Consiglio di Stato, alla luce
dell’esclusività del difetto di giurisdizione quale unico motivo di
ricorso in Cassazione; mentre il ricorso straordinario per
revocazione e l’opposizione di terzo pongono in discussione la stessa
nozione teorica di definitiva certezza della situazione giuridica
definita con sentenza passata in giudicato.
Inoltre l’eventuale pregiudizio scaturente dal mutamento
dell’assetto di interessi in forza dell’esecuzione della pronuncia
non definitiva sarebbe scongiurato dall’attribuzione del potere di
sospensione della sentenza al giudice investito della cognizione
dell’appello.
Infine, sempre secondo il collegio rimettente, sul piano
sistematico, l’irragionevolezza delle disposizioni censurate si
evidenzierebbe dal più frequente intervento del legislatore volto ad
introdurre disposizioni acceleratorie del corso del giudizio
amministrativo (cfr., da ultimo, art. 31-bis della legge 11 febbraio
1994, n. 109), tale da porsi in insanabile contrasto con disposizioni
che, viceversa, subordinano il soddisfacimento della pretesa fatta
valere in giudizio ad eventi temporali remoti, quali il passaggio in
giudicato della sentenza.
2. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o,
comunque, infondata.
La questione, come proposta dal giudice a quo, difetterebbe della
rilevanza avendo questi autonomamente modificato il titolo della
domanda del ricorso, avanzato ai sensi dell’art. 33 della legge n.
1034 del 1971, e non come giudizio di ottemperanza verso le cui
disposizioni si appuntano le censure di legittimità costituzionale.
Nel merito, secondo la difesa erariale, la questione sarebbe
infondata poiché il giudice a quo, pur muovendo dall’esatto
presupposto dell’imprescindibilità della tutela esecutiva, non
considera la specificità del processo amministrativo ed, altresì, i
limiti che circoscrivono l’esecuzione coattiva delle sentenze nei
confronti dell’attività provvedimentale dell’amministrazione.
D’altra parte la censura che investe la postulata incoerenza
dell’esecutività delle sentenze di primo grado e l’ammissibilità
del ricorso per ottemperanza delle sole sentenze passate in
giudicato, si rivelerebbe ad una indagine approfondita insostenibile.
L’esecutività, infatti, rileva l’Avvocatura, sarebbe propria delle
sentenze autoesecutive, quali sono le sentenze di annullamento emesse
dal giudice amministrativo all’esito di un giudizio impugnatorio;
mentre l’azione di ottemperanza è diretta a conseguire effetti
ulteriori, mediati, tali da presupporre l’adozione di provvedimenti,
diversi da quelli oggetto di impugnazione.
Del resto la natura stessa del giudizio di ottemperanza,
riconducibile per espressa previsione normativa alla giurisdizione
estesa al merito riservata alla cognizione esclusiva del giudice
amministrativo, renderebbe intuitiva ragione del carattere
sostitutivo di tale giudizio rispetto a provvedimenti discrezionali,
altrimenti rimessi alle attribuzioni dell’amministrazione.
Né si rivelerebbe fondata l’argomentazione incentrata sulla
comparazione delle misure esecutive proprie della fase cautelare, che
per sua natura è meramente interinale ed inidonea ad incidere in via
definitiva sull’assetto di interessi dedotto in giudizio, con il
giudizio di ottemperanza, diretto ad adeguare stabilmente la
situazione anteriore alla statuizione, imponendo misure attuative e
provvedimenti all’amministrazione, al fine di ricercare un momento di
equilibrio fra la necessità di garantire la effettività della
decisione giurisdizionale e quella, in ossequio al principio di
divisione dei poteri, di non invadere la sfera destinata alla
amministrazione da parte del potere giudiziario.
ordinanza 22 gennaio 1997, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale degli artt. 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034
(Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), 27, primo
comma, numero 4, del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 (Approvazione del
testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato), 90 e 91 del r.d. 17
agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle
sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), nella parte in cui
stabiliscono che i ricorsi diretti ad ottenere l’adempimento
dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi alle
decisioni pronunciate dagli organi di giustizia amministrativa
possano essere proposti esclusivamente avverso le sentenze passate in
giudicato e non anche con riferimento a sentenze di primo grado,
esecutive e non sospese dal giudice di appello, ma non passate in
giudicato.
A parere del tribunale rimettente, le norme anzidette violerebbero
gli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, in quanto
l’effettività della tutela giudiziaria esecutiva sarebbe
procrastinata in modo irragionevole tanto più se comparata con le
misure esecutive proprie della tutela cautelare; traducendosi,
inoltre, nella violazione del principio di uguaglianza stante
l’ingiusta discriminazione fra chi abbia ottenuto una sentenza civile
immediatamente esecutiva anche in mancanza di giudicato, e chi, pur
avendo ottenuto una sentenza esecutiva amministrativa, non può
esperire il ricorso per ottemperanza.
2. – Va preliminarmente rilevato che il richiesto scrutinio di
costituzionalità deve incentrarsi sugli artt. 37 della legge n.
1034 del 1971, e 27, primo comma, numero 4, del regio decreto n.
1054 del 1924, che sono le norme dalle quali può dedursi il
presupposto contestato, mentre gli artt. 90 e 91 del r.d. n. 642 del
1907 hanno la sola funzione di regolamentazione della procedura per i
ricorsi cui le prime si riferiscono.
3. – La questione non è fondata.
Giova premettere che lo speciale (per l’oggetto e la procedura)
giudizio ex art. 27, numero 4, del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054
(Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato) era concepito con
specifico riguardo alle sentenze dei tribunali ordinari ed è stato
esteso a tutte le decisioni di organi giurisdizionali, compresi
quelli della giustizia amministrativa, prima dalla giurisprudenza e
poi espressamente, per quanto riguarda il giudicato degli organi di
giustizia amministrativa, dall’art. 37 della legge 6 dicembre 1971,
n. 1034 nel regolare la distribuzione della competenza tra tribunale
amministrativo regionale e Consiglio di Stato. Mentre solo con il
d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 70, è stata enucleata – salvo
quanto previsto per la esecuzione forzata dal cod. proc. civ. – una
particolare procedura di “ottemperanza agli obblighi derivanti dalla
sentenza delle commissioni tributarie” purché “passata in
giudicato”, attribuita alla competenza delle commissioni tributarie,
laddove in precedenza la giurisprudenza, sia pure in modo non
uniforme, aveva ammesso l’azionabilità del giudizio avanti al
giudice amministrativo.
Di conseguenza, stante l’unicità dei presupposti del ricorso per
ottemperanza di sentenze dei giudici ordinari e di quelle dei giudici
amministrativi, deve escludersi in radice qualsiasi disparità
nell’ambito dei ricorsi per l’esecuzione del giudicato.
Invece differenti, rispetto all’azione in base a ricorso per
ottemperanza, e quindi non comparabili, sono le azioni esecutive
davanti al giudice ordinario secondo le norme del codice di procedura
civile, sia nella forma dell’espropriazione forzata mobiliare ed
immobiliare sia nelle forme per consegna o rilascio ovvero per
violazione di un obbligo di fare o di non fare. Rispetto a dette
azioni esecutive è ininfluente il mancato passaggio in giudicato
della sentenza o provvedimento giudiziale purché esecutivo,
trattandosi di circostanza necessaria solo per il concorrente
strumento di tutela costituito dal giudizio di ottemperanza davanti
al giudice amministrativo.
D’altro canto il giudizio di ottemperanza, secondo l’attuale
elaborazione giurisprudenziale, ricomprende una pluralità di
configurazioni (in relazione alla situazione concreta, alla
statuizione del giudice e alla natura dell’atto impugnato), assumendo
talora (quando si tratta di sentenza di condanna al pagamento di
somma di denaro esattamente quantificata e determinata nell’importo,
senza che vi sia esigenza ulteriore di sostanziale contenuto
cognitorio) natura di semplice giudizio esecutivo – come tale
assoggettabile alle limitazioni proprie delle “azioni esecutive” nei
confronti degli enti locali dissestati – e quindi qualificabile come
rimedio complementare che si aggiunge al procedimento espropriativo
del codice di procedura civile, rimesso alla scelta del creditore. In
altri casi il giudizio di ottemperanza può essere diretto a porre in
essere operazioni materiali o atti giuridici di più stretta
esecuzione della sentenza; in altri ancora ha l’obiettivo di
conseguire una attività provvedimentale dell’amministrazione ed
anche effetti ulteriori e diversi rispetto al provvedimento
originario oggetto della impugnazione; inoltre può essere
utilizzato, in caso di materia attribuita alla giurisdizione
amministrativa, anche in mancanza di completa individuazione del
contenuto della prestazione o attività cui è tenuta
l’amministrazione, laddove invece l’esecuzione forzata attribuita al
giudice ordinario presuppone un titolo esecutivo per un diritto
certo, liquido ed esigibile.
Del resto il giudizio di ottemperanza non deve necessariamente
(sotto il profilo costituzionale) modellarsi, anche nei presupposti,
al processo esecutivo ordinario, attese le peculiarità funzionali
del giudizio amministrativo (esteso al merito) con potenzialità
sostitutive e intromissive nell’azione amministrativa, non
comparabili con i poteri del giudice dell’esecuzione nel processo
civile.
Infatti, non esiste un principio (costituzionalmente rilevante) di
necessaria uniformità di regole processuali tra i diversi tipi di
processo (civile e amministrativo), potendo i rispettivi ordinamenti
processuali differenziarsi sulla base di una scelta razionale del
legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e
dalle situazioni sostanziali dedotte in giudizio, naturalmente a
condizione che non siano vulnerati i principi fondamentali di
garanzia ed effettività della tutela (sentenza n. 82 del 1996).
4. – Il limitare l’ambito dello speciale giudizio di ottemperanza –
diretto ad ottenere l’adempimento coattivo dell’obbligo
dell’autorità amministrativa di conformarsi, in quanto riguarda il
caso deciso – al giudicato, inteso come cosa giudicata, è una
interpretazione plausibile che il giudice a quo ritiene di seguire.
Tale limitazione costituisce una scelta che rientra nella
discrezionalità legislativa, in quanto non obbligata sul piano
costituzionale, essendo libero il legislatore di adottare particolari
sistemi di esecuzione in via amministrativa delle sentenze dei
giudici nei confronti delle pubbliche amministrazioni, quando queste
non si conformino spontaneamente (scelta di recente ripetuta nel
processo tributario), fermo il principio (v. sentenza n. 435 del
1995) che in caso di “pronuncia giurisdizionale la quale riconosca
come ingiustamente lesivo dell’interesse del cittadino un determinato
comportamento dell’amministrazione, incombe su quest’ultima l’obbligo
di conformarsi ad essa, ed il contenuto di tale obbligo consiste
appunto nell’attuazione di quel risultato pratico, tangibile,
riconosciuto come giusto e necessario dal giudice”. La fase di
esecuzione coattiva di questo obbligo, che pur nasce con la pronuncia
del giudice con il carattere della esecutività, è
costituzionalmente necessaria senza alcuna possibilità di
distinzioni tra funzioni giurisdizionali di natura diversa o tra
pubbliche autorità anche di rilevanza costituzionale (sentenza n.
435 del 1995), mentre non necessariamente sul piano costituzionale la
proponibilità della speciale azione deve coincidere con la pronuncia
di primo grado non passata in giudicato.
La procedura di ottemperanza – con la possibilità di esercizio di
poteri sostitutivi rispetto all’amministrazione inadempiente e di
inserimento nello svolgimento concreto dell’azione amministrativa
mediante un commissario ad acta o, a seconda della fattispecie,
direttamente da parte del giudice – nei confronti della pubblica
amministrazione comporta l’esercizio di una giurisdizione estesa
anche al merito, di modo che non è irragionevole, nell’attuale
contesto del sistema processuale, la scelta di porre, come
presupposto della speciale azione, l’esistenza di una cosa giudicata,
anche se è stata auspicata una diversa soluzione legislativa
accompagnata da modifiche al processo amministrativo.
5. – L’azione di ottemperanza al giudicato, così come configurata,
non esclude né limita la ulteriore tutela giurisdizionale, potendo
il soggetto interessato, da un canto, avvalersi dell’azione esecutiva
ordinaria per espropriazione forzata in base a sentenza esecutiva
contenente condanna al pagamento di somma di denaro; dall’altro
canto, proporre le normali azioni di fronte all’inerzia
dell’amministrazione, nonché le impugnazioni contro gli atti della
amministrazione che siano in contrasto con le statuizioni contenute
in una sentenza provvista di esecutività, ancorché non definitiva.
Del resto, la spontanea esecuzione (pur sempre atto dovuto) da parte
della Amministrazione di una sentenza del giudice amministrativo di
primo grado, in quanto immediatamente esecutiva, non può configurare
di per sé acquiescenza alla sentenza stessa, anche se intervenga
successivamente all’appello e senza riserva alcuna circa
l’obbligatorietà del comportamento sulla base della sentenza,
proprio perché l’Amministrazione “è tenuta a darvi esecuzione”,
secondo un indirizzo giurisprudenziale tutt’altro che isolato.
Sullo stesso piano qualsiasi nuovo atto dell’Amministrazione, che
sia in contrasto con la statuizione contenuta nella sentenza
esecutiva o che trovi fondamento o giustificazione o che si basi sul
presupposto dell’esistenza di un atto annullato con la medesima
sentenza ovvero dia ulteriore seguito ai provvedimenti eliminati dal
mondo giuridico con l’annullamento disposto da sentenza esecutiva, è
affetto da antigiuridicità derivata (per violazione dell’obbligo, in
precedenza sottolineato, a carico della Amministrazione di
conformarsi alla pronuncia giurisdizionale), suscettibile di essere
censurato in sede giurisdizionale con gli ordinari rimedi previsti
per la tutela delle posizioni di diritto soggettivo o di interesse
legittimo, restando affidato ai giudici l’esercizio dei poteri
cautelari conferiti dagli ordinamenti processuali, con le conseguenze
attuative (v., sulle possibilità di esecuzione delle ordinanze di
sospensiva del giudice amministrativo, sentenza n. 419 del 1995).
D’altro canto, secondo un indirizzo della giurisprudenza
amministrativa, perfino il giudice che ha provveduto sulla
sospensione di una sentenza impugnata in appello conserva il potere
di emanare provvedimenti cautelari che impongano alla Amministrazione
la assunzione di atti ritenuti necessari per l’effettiva tutela
interinale dell’interesse perseguito. Infatti, su un piano più
generale è stato affermato il principio che qualora il diritto
assistito da fumus boni iuris sia minacciato da pregiudizio imminente
ed irreparabile provocato dalla cadenza dei tempi necessari per farlo
valere in via ordinaria, spetta al giudice il potere di emanare i
provvedimenti di urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più
idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul
merito (sentenza n. 190 del 1985 a proposito di controversie
patrimoniali attribuite alla giurisdizione esclusiva).
In ogni caso, la mancata adozione da parte dell’Amministrazione di
provvedimenti che rimuovano o interrompano gli effetti persistenti e
produttivi di ulteriori conseguenze giuridiche a seguito di atti
annullati o comportamenti dichiarati illegittimi da sentenza
esecutiva o il mancato conformarsi alle statuizioni della medesima
sentenza esecutiva – ancorché non ancora suscettibile di coazione in
forma specifica attraverso il giudizio di ottemperanza – è un
comportamento a rischio dell’Amministrazione inadempiente (e del
funzionario responsabile), potendo ravvisarsi responsabilità nelle
diverse forme – a seconda della sussistenza dei relativi presupposti
– e nelle sedi competenti.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei
tribunali amministrativi regionali), 27, primo comma, numero 4, del
regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (Approvazione del testo unico
delle leggi sul Consiglio di Stato), 90 e 91 del regio decreto 17
agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle
sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), sollevata, in
riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, dal
tribunale amministrativo regionale del Piemonte con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 1998.
Il Presidente: Vassalli
Il redattore: Chieppa
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 12 dicembre 1998.
Il direttore della cancelleria: Di Paola