Sentenza N. 414 del 1994
Corte Costituzionale
Data generale
07/12/1994
Data deposito/pubblicazione
07/12/1994
Data dell'udienza in cui è stato assunto
24/11/1994
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Vincenzo
CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo
CHELI, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO;
decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del
concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della
liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il
3 marzo 1994 dal Tribunale di Casale Monferrato nel procedimento
penale a carico di Gatti Antonio, iscritta al n. 284 del registro
ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 22, prima serie speciale, dell’anno 1994;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 26 ottobre 1994 il Giudice
relatore Vincenzo Caianiello;
Monferrato ha sollevato, nel corso di un giudizio penale avente ad
oggetto una imputazione di bancarotta fraudolenta ex art. 216, comma
secondo, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare),
questione di legittimità costituzionale dell’art. 228 del citato
regio decreto, che prevede il reato di interesse privato del curatore
negli atti del fallimento, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione.
2. – Il rimettente rileva preliminarmente che, in base all’esame
degli atti del giudizio (che si svolge con il rito abbreviato), la
condotta penalmente rilevante ascritta al curatore di un fallimento
di impresa individuale dovrebbe essere qualificata non già secondo
il titolo dell’imputazione originaria di bancarotta bensì, più
esattamente, come reato di interesse privato del curatore, ex art.
228 impugnato. Questa diversa qualificazione, aggiunge, è consentita
nell’ambito del giudizio abbreviato, nel rispetto dell’art. 521,
comma 1, del codice di procedura penale.
3. – Il Tribunale osserva poi che con la legge 26 aprile 1990, n.
86, è stata abrogata la fattispecie incriminatrice comune
dell’interesse privato in atti di ufficio di cui all’art. 324 del
codice penale, strutturata in termini identici a quelli descritti
nella norma impugnata; si verifica quindi, ad avviso del giudice a
quo, la persistente punibilità del curatore fallimentare per una
fattispecie di reato cui non sono più soggetti gli altri pubblici
ufficiali. Questa situazione, prosegue il rimettente, determina una
disparità di trattamento non giustificata, e perciò lesiva
dell’art. 3 della Costituzione, che non può neppure ritenersi ” ..
colmata dal rinvio contenuto nella norma (impugnata) .. all’art. 323
del codice penale, ove venga letto nella nuova formulazione”
conseguente alla riforma apportata con la legge n. 86 del 1990, ” ..
e ciò indipendentemente dalle ragioni per cui nell’art. 228 della
legge fallimentare è previsto un diverso regime sanzionatorio”.
4. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, che ha concluso per una declaratoria di non fondatezza della
questione; l’Avvocatura richiama a tal fine la giurisprudenza
costituzionale che riconduce all’ambito del legittimo esercizio della
discrezionalità legislativa le ipotesi di diversificazione della
disciplina di certe fattispecie che, pur simili ad altre, presentino
rispetto a queste ultime elementi di diversità, come si verifica nel
caso in esame, stante la specificità del settore fallimentare e
della figura del curatore del fallimento.
Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 228 della
legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267) che prevede la pena
della reclusione da due a sei anni e la multa non inferiore a lire
quattrocentomila per il “curatore che prende interesse privato in
qualsiasi atto del fallimento direttamente o per interposta persona o
con atti simulati”.
Si osserva nell’ordinanza di rimessione che “in virtù della legge
n. 26 aprile 1990, n. 86 è stata espunta dal nostro ordinamento la
fattispecie normativa di cui all’art. 324 c.p. (interesse privato in
atti di ufficio), norma strutturata in maniera identica all’art. 228
della legge fallimentare”. In base a quest’ultima norma “il curatore
fallimentare continuerebbe ad essere sottoposto ad una fattispecie
cui non sono oramai più soggetti.. gli altri pubblici ufficiali,
determinandosi così una disparità di trattamento che non può
ritenersi colmata dal rinvio”, contenuto nel citato art. 228,
“all’art. 323 cod.pen. , ove venga letto nella nuova formulazione
successiva all’entrata in vigore della legge n. 86/90”.
2. – La questione non è fondata.
Va innanzitutto precisato che l’art. 228 della legge fallimentare,
recante il titolo “interesse privato del curatore negli atti del
fallimento”, nel mentre ricollega al curatore stesso i reati
imputabili in generale ai pubblici ufficiali, facendo a taluni di
essi esplicito richiamo con la clausola di sussidiarietà espressa
nella formula “salvo che al fatto non siano applicabili gli artt.
315, 317, 318, 319, 321, 322 e 323 del codice penale”, configura in
modo autonomo, sia pure simile nel contenuto all’abrogato art. 324
del codice penale, la fattispecie dell’interesse privato riferita al
curatore fallimentare, comminando, fra l’altro, una pena detentiva
maggiore, nel minimo e nel massimo, rispetto a quella dell’analogo
reato già previsto dall’abrogato art. 324 del codice penale per il
pubblico ufficiale.
L’incriminazione in modo autonomo del suddetto reato se commesso
dal curatore fallimentare, pur recante il medesimo titolo di quello
ora abrogato nel codice penale, evidenzia l’intento del legislatore
di attribuire una specialità – e un connotato di maggiore gravità,
espresso nel trattamento sanzionatorio – al reato di interesse
privato riferito al curatore, rispetto alla previsione incriminatrice
del codice penale già prevista per il pubblico ufficiale; figura,
quest’ultima, cui, anche sotto altri profili, il curatore è
assimilato.
Detta specialità costituisce indubbio indice di disomogeneità
fra l’abrogata fattispecie dell’art. 324 del codice penale e quella
prevista per il curatore dalla legge fallimentare. Una disomogeneità
che ha indotto evidentemente lo stesso giudice rimettente ad
escludere – per il fatto stesso di sollevare la questione, con ciò
supponendo la perdurante vigenza della norma impugnata – l’implicita
abrogazione anche dell’art. 228 della legge fallimentare, quale
conseguenza dell’abrogazione dell’art. 324 del codice penale,
mostrando così di non aderire alla opinione espressa da qualche
autore.
In presenza di situazioni normative fra loro non omogenee, stante
l’autonomia e la specialità dell’art. 228 del r.d. n. 267 del 1942
rispetto all’abrogato art. 324 del codice penale invocato come
tertium comparationis, non trova fondamento la tesi di una
ingiustificata disparità di trattamento che si sarebbe venuta a
determinare, per effetto delle modifiche apportate dalla legge n. 86
del 1990, fra il curatore fallimentare ed il pubblico ufficiale
rispetto alla situazione precedente: da un lato, già in origine le
fattispecie incriminatrici dell’interesse privato erano, nei due
casi, rispettivamente autonome e diversificate nel segno della
maggiore severità per la prima; dall’altro, non si è determinata
una indiscriminata abolitio criminis delle condotte del pubblico
ufficiale già qualificabili come fatti di interesse privato in atti
di ufficio, bensì si è verificata la riconduzione di quelle
condotte a nuove fattispecie (artt. 323 e 326) del codice penale –
secondo un fenomeno di successione di incriminazioni enucleato, in
termini consolidati, dalla giurisprudenza e già sottolineato da
questa Corte (ord. n. 6 del 1992) – per cui perde rilievo
l’asserzione, da cui muove il giudice a quo, della impunità di cui
godrebbero i pubblici ufficiali per le richiamate condotte, sebbene
assimilabili a quelle del curatore.
La dichiarazione di infondatezza della questione non può peraltro
esimere la Corte del richiamare l’attenzione del legislatore
sull’esigenza di coordinamento del vigente art. 228 della legge
fallimentare con le modifiche introdotte per i reati commessi da
pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, ad alcuni dei
quali detto articolo peraltro, come si è detto, rinvia presupponendo
situazioni normative oggi abrogate o sostituite con altre previsioni
incriminatrici ad opera della legge n. 86 del 1990. Un profilo,
questo, che assume particolare rilievo per quel che concerne la
riserva, operata dal citato art. 228, di applicazione dell’art. 323
del codice penale, sostituito con una fattispecie che, come si è
detto, comprende, mutatis mutandis, ipotesi corrispondenti a quelle
incriminate dalla norma della legge fallimentare oggetto del presente
giudizio.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 228 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del
fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sollevata, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Casale
Monferrato, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 novembre 1994.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: CAIANIELLO
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 7 dicembre 1994.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA