Sentenza N. 418 del 1998
Corte Costituzionale
Data generale
23/12/1998
Data deposito/pubblicazione
23/12/1998
Data dell'udienza in cui è stato assunto
14/12/1998
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI
MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI;
penale, promosso con ordinanza emessa il 22 aprile 1997 dal Tribunale
di sorveglianza di Firenze, nel procedimento di sorveglianza nei
confronti di Stracuzzi Luciano, iscritta al n. 792 del registro
ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 47, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Udito nella camera di consiglio del 30 settembre 1998 il giudice
relatore Giuliano Vassalli.
sulla revoca del beneficio della liberazione condizionale, concesso,
dopo un lungo periodo di semilibertà, con provvedimento del 28
aprile 1994, avendo il condannato riportato una condanna per delitto
divenuta definitiva, ha denunciato, in riferimento agli artt. 27,
terzo comma, e 3 della Costituzione, l’illegittimità dell’art. 177
del codice penale, nella parte in cui dispone che “la liberazione è
revocata se la persona liberata commette un delitto o una
contravvenzione della stessa indole”. Nucleo essenziale delle censure
del ricorrente è il rigido automatismo che contrassegna le ipotesi
di revoca dei benefici penitenziari, un automatismo più volte
dichiarato illegittimo dalla Corte a far tempo dalla sentenza n. 186
del 1995 che ebbe a pronunciare “l’illegittimità costituzionale
dell’art. 54, terzo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella
parte in cui prevede la revoca della liberazione anticipata nel caso
di condanna per delitto non colposo commesso nel corso
dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio
anziché stabilire che la liberazione anticipata è revocata se la
condotta del soggetto, in relazione alla condanna subita, appare
incompatibile con il mantenimento del beneficio”, e secondo una linea
ribadita, da ultimo, con la sentenza n. 173 del 1997, che ha
dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter ultimo
comma, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui fa derivare
automaticamente la sospensione della detenzione domiciliare dalla
presentazione di una denuncia per il reato di allontanamento del
detenuto dalla propria abitazione”.
Dopo aver trascritto gran parte dell’ordinanza con la quale lo
stesso Tribunale di sorveglianza di Firenze aveva sollevato la
questione di legittimità decisa con sentenza di questa Corte n. 186
del 1995, segnalando l’analogia della ratio sottostante a detta
ordinanza rispetto a quella posta alla base della questione di
legittimità ora sollevata, il giudice a quo segnala come i criteri
della revoca della liberazione condizionale contenuti nell’art. 177
del codice penale “hanno caratteristiche completamente opposte a
quelle che dovrebbero avere secondo la Corte costituzionale” essendo,
in effetti, informati ad un rigoroso automatismo.
L’ordinanza si sofferma poi sul caso di specie per rilevare le
caratteristiche del delitto per cui il liberato condizionalmente era
stato condannato, sottolineando che non si tratta di un reato della
stessa indole di quello per il quale il detenuto scontava la pena e
che in ogni caso la nuova pena inflitta (di anni uno e mesi quattro
di reclusione) sarebbe stata scontata per intero, mentre,
all’opposto, dal coinvolgimento del detenuto nel nuovo delitto non
potrebbero di per sé stesso trarsi conseguenze negative sul piano di
una utile prosecuzione del periodo di prova in libertà vigilata.
Ciò premesso, l’ordinanza del tribunale di sorveglianza denuncia
il contrasto dell’art. 177, primo comma, del codice penale, là dove
questo pone alla base della revoca della liberazione condizionale la
condanna per qualsiasi delitto, con l’art. 27, terzo comma, della
Costituzione, perché il mancato collegamento di tale norma fra cause
di revoca e incompatibilità con la prosecuzione del regime di prova
controllata, nonché gli elementi di automatismo della revoca che
contrassegnano il detto regime precludono di valutare “se il
soggetto, che ha posto in essere una possibile causa di revoca,
nonostante ciò, non abbia abbandonato, voglia proseguire e prosegua
in effetti il percorso rieducativo, cui è finalizzata la esecuzione
della pena”. L’intervento della revoca frustrerebbe, pertanto, lo
svolgimento di quel percorso, impedendo, quindi, la concreta
attuazione della finalità rieducativa della pena. Ma a risultare
vulnerato sarebbe pure l’art. 3 della Costituzione, in quanto le
caratteristiche della normativa in esame, “possono consentire il
realizzarsi di una disparità di trattamento, priva di
ragionevolezza, fra casi di compatibilità o fra casi di
incompatibilità con la prosecuzione della prova controllata: così,
secondo il tipo di reato commesso durante la prova e non secondo il
rilievo e il significato dello stesso (in termini di compatibilità
con la prosecuzione della prova), si potrebbe configurare o meno una
causa di revoca della liberazione condizionale”.
2. – Nel giudizio non si è costituita la parte privata né ha
spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei Ministri.
legittimità costituzionale dell’art. 177, primo comma, del codice
penale, nella parte in cui pone a fondamento della revoca della
liberazione condizionale la condanna per qualsiasi delitto senza
operare in proposito distinzione alcuna e senza tener conto della
concreta compatibilità o meno del fatto di aver riportato tale
condanna con la prosecuzione della prova in regime di libertà
vigilata.
La questione di legittimità costituzionale viene sottoposta alla
Corte costituzionale sotto un duplice parametro: anzitutto, in
riferimento al contrasto della disposizione citata con l’art. 27,
terzo comma, della Costituzione, in quanto la genericità di tale
disposizione, il mancato collegamento fra cause di revoca e
incompatibilità con la prosecuzione del regime di prova controllata,
nonché gli elementi di automatismo della revoca nella disposizione
stessa contenuti, non consentono di valutare se il soggetto, che ha
posto in essere una possibile causa di revoca, nonostante ciò non
abbia abbandonato ed effettivamente prosegua il percorso rieducativo
cui è finalizzata l’esecuzione della pena. A causa di detto mancato
collegamento l’intervento della revoca frustrerebbe lo svolgimento
dell’anzidetto “percorso” e impedirebbe la concreta attuazione della
finalità rieducativa della pena.
In secondo luogo l’art. 177, primo comma, del codice penale, nella
parte sottoposta a scrutinio di costituzionalità, si porrebbe in
contrasto con l’art. 3 della Costituzione, in quanto le
caratteristiche della normativa in esame, più sopra rilevate,
possono consentire il realizzarsi di una disparità di trattamento,
priva di ragionevolezza, fra casi di compatibilità e casi di
incompatibilità con la prosecuzione della prova controllata.
2. – La questione è fondata.
L’eccessivo rigore dal quale il codice del 1930 appariva ispirato
nel disciplinare le ipotesi di revoca della liberazione condizionale
fu rilevato dalla dottrina sin dai primi anni successivi alla entrata
in vigore della Costituzione, e ciò anche in considerazione del
principio enunciato nell’art. 27, terzo comma, secondo il quale “le
pene… devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tale rigore
veniva rilevato sia con riferimento al presupposto consistente nella
commissione, da parte della persona liberata condizionalmente, di un
qualsiasi delitto o contravvenzione (anche se, quest’ultima, della
stessa indole: v. art. 101 del codice penale), sia in relazione alla
disposizione che includeva tra i presupposti obbligatori della revoca
qualsiasi trasgressione agli obblighi inerenti alla libertà vigilata
disposta, nei confronti del soggetto liberato condizionalmente, ai
termini dell’art. 230, numero 2. Senonché, mentre ad evitare gli
eccessi prodotti dalla formulazione dell’art. 177, primo comma, sotto
questo secondo profilo, ha potuto provvedere oramai da vari anni la
giurisprudenza ordinaria, segnatamente la giurisprudenza di
legittimità – esigendo che le trasgressioni siano tali da far
ritenere il mancato ravvedimento della persona cui sia stata concessa
la liberazione condizionale, nel senso che il giudice deve compiere
una penetrante indagine diretta ad accertare, senza ombra di dubbio,
se l’addebito possa concretare, o non, una grave trasgressione al
regime di vita cui il liberato è sottoposto, e se costituisca un
sicuro elemento rivelatore della mancanza di ravvedimento e della non
meritevolezza dell’anticipato reinserimento nella vita sociale -,
nulla di simile è stato possibile disporre a proposito dei
presupposti della revoca quando questi consistano in una condanna per
delitto o per contravvenzione. La stessa giurisprudenza pone in
rilievo il rigido automatismo di questa ipotesi, operare sulla quale
in linea interpretativa appare impossibile. Secondo tale
giurisprudenza il presupposto consistente nella commissione di un
delitto (ovviamente ritenuto da sentenza di condanna passata in
giudicato) non subisce nella legge alcuna limitazione, il requisito
della stessa indole del reato dovendosi ritenere riferito alle sole
contravvenzioni. Né altra interpretazione restrittiva è comunque
proponibile vuoi, ad esempio, con riferimento all’elemento soggettivo
vuoi con riferimento alla natura o alla gravità della pena prevista
dalla legge o della pena inflitta.
Né, d’altra parte, tra le varie riforme legislative susseguitesi
negli ultimi decenni in materia di liberazione condizionale, ve ne è
stata alcuna che concerna i presupposti della revoca della
liberazione stessa. Il problema proposto non può quindi essere
risolto se non in riferimento ai parametri costituzionali.
3. – Assorbente si rivela in proposito il profilo di illegittimità
costituzionale fatto valere dal giudice rimettente in riferimento al
principio rieducativo.
che l’istituto della liberazione condizionale si inserisca
decisamente nell’ambito della finalità rieducativa della pena è
stato affermato da questa Corte sin dalla sentenza n. 204 del 1974, i
cui principi sono stati richiamati in varie sentenze degli anni
successivi. Secondo tale giurisprudenza “l’istituto della liberazione
condizionale si inserisce nel fine ultimo e risolutivo della pena,
quello, cioè, di tendere al recupero sociale del condannato”; e “con
l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, l’istituto ha assunto un
peso e un valore più incisivo di quello che non avesse in origine”,
sì che “il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo
tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità
rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei
a realizzarle e le forme atte a garantirle”.
È alla luce di tale principio che va esaminata la disciplina
legale della revoca, con particolare riguardo al modo di operare
automatico di taluno dei suoi presupposti.
Del carattere automatico della revoca della liberazione
condizionale questa Corte ebbe già ad occuparsi, sia pure
incidentalmente. Nella sentenza n. 282 del 1989, dopo avere
riaffermato che “con la liberazione condizionale la funzione
rieducativa della pena prevale, oggi, ai sensi dell’art. 27, terzo
comma, Cost., sull’esigenza retribuzionistica”, la Corte stessa prese
ad esaminare analiticamente quei passi che la Relazione al re sul
codice penale del 1930 dedica al tema della revoca della liberazione
condizionale e al suo modo automatico di operare, inteso come
risposta a chi non si sia dimostrato degno della fiducia in lui
riposta al momento della concessione del beneficio; e concluse
dicendo che le affermazioni del ministro dell’epoca non erano in
armonia con la natura della liberazione condizionale emersa dopo la
Costituzione repubblicana (n. 7 del Considerato in diritto). In
quella circostanza la critica della opzione ideologica espressa al
momento dell’emanazione del codice venne utilizzata per negare quella
che la citata sentenza chiama “rigidità repressiva della revoca” e
per dichiarare l’illegittimità costituzionale del primo comma
dell’art. 177 nella parte in cui esso non consentiva, nel caso di
avvenuta revoca, di tener conto, per determinare la residua quantità
della pena detentiva ancora da espiare, del tempo trascorso in
libertà condizionale nonché delle restrizioni di libertà subite
dal condannato e del suo comportamento durante tale periodo. Oggi la
Corte si trova a dover esaminare, alla luce degli stessi caratteri
attribuibili in forza della Costituzione alla liberazione
condizionale, i casi di revoca automatica della liberazione stessa.
4. – Ora non v’è dubbio che il carattere automatico di quello che
è il primo gruppo di ipotesi in cui per legge deve farsi luogo alla
revoca (“delitti” e “contravvenzioni della stessa indole”) è in
contrasto con una ragionevole applicazione del principio rieducativo.
Come ricorda il giudice rimettente, questa Corte ha già avuto modo
di dichiarare l’illegittimità costituzionale di disposizioni che
prevedevano casi di revoca automatica di benefici concessi in
relazione alle esigenze proprie dei percorsi rieducativi del
condannato: così, a proposito della revoca delle misure alternative
alla detenzione disposte dall’art. 15, comma 2, del d.l. 8 giugno
1992, n. 306 (convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356), la Corte
ebbe a statuire che l’effetto della revoca di tali benefici deve
essere proporzionato alla gravità oggettiva e soggettiva del
comportamento che lo ha determinato (sentenza n. 306 del 1993, n. 13
del Considerato in diritto); così a proposito della revoca del
beneficio della liberazione anticipata a seguito di condanna per
delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione della pena
successivamente alla concessione del beneficio (art. 54, terzo comma,
della legge 26 luglio 1975, n. 354), la Corte ebbe a rilevare
l’illegittimità costituzionale di un meccanismo improntato a un
rigido automatismo sanzionatorio che “relega nell’ombra la funzione
di impulso e di stimolo ad una efficace collaborazione nel
trattamento rieducativo” ed esclude ogni apprezzamento “in ordine
alla compatibilità o meno degli effetti che scaturiscono dalla
liberazione anticipata rispetto al valore sintomatico che in concreto
può assumere l’intervenuta condanna” (sentenza n. 186 del 1995); e
così, ancora, ha usato lo stesso filone di pensiero quando ha
escluso che la sola presentazione di una denuncia, non seguita da
accertamento sia pure incidentale e limitato sulla esistenza di un
reato, possa determinare la sospensione automatica della detenzione
domiciliare di cui all’art. 47-ter della suddetta legge 26 luglio
1975, n. 354 (sentenza n. 173 del 1997). Ed anche dove la Corte ha
dovuto dichiarare non fondate censure di illegittimità
costituzionale pur riferite agli artt. 27, terzo comma, 3 e 101,
secondo comma, della Costituzione, nelle quali si lamentava
l’eccessivo rigore del regime vigente in tema di ammissione ai
permessi-premio, la Corte non ha mancato di raccomandare al
legislatore di rivedere “l’impiego dell’assoluto automatismo di cui
al quarto comma dell’art. 30-ter (della legge 26 luglio 1975, n. 354)
non tanto in relazione al momento processuale che determina l’effetto
preclusivo, quanto in relazione alle tipologie di delitti dolosi la
cui commissione effettivamente comprometta il giudizio sulla
regolarità della condotta e, conseguentemente, faccia presumere la
pericolosità del condannato” (sentenza n. 296 del 1997).
Alla stregua dei ricordati precedenti l’automatismo denunciato dal
giudice rimettente a proposito della revoca della liberazione
condizionale non può considerarsi costituzionalmente legittimo.
Anche se non può dirsi preclusa in senso assoluto al legislatore
la potestà di assumere determinate condanne come criterio per
escludere l’ammissione del condannato a determinati benefici o per
sancire la revoca di benefici già ottenuti, occorre tuttavia che
tali criteri siano sufficientemente circoscritti, in modo da non dar
luogo a irragionevoli parificazioni e da non precludere, nelle
ipotesi meno gravi, la funzione rieducativa della pena. Il
parificare, come fa l’art. 177, primo comma, del codice penale, tutti
i delitti, senza operare nel seno di questa vastissima categoria –
comprensiva sia di delitti dolosi che di delitti colposi, sia di
delitti puniti con pena restrittiva della libertà personale che di
delitti puniti con la sola pena della multa, sia di delitti della
stessa indole di quello per cui il soggetto stava espiando la pena al
momento dell’intervenuta liberazione condizionale che di delitti di
natura affatto diversa – alcuna selezione, è criterio che, collegato
con l’automatica derivazione della revoca dalla condanna, rende tale
disposizione manifestamente illegittima, perché in essa sono violati
congiuntamente il principio rieducativo e quello di ragionevolezza.
Ed altrettanto deve dirsi per la contestuale parificazione delle
contravvenzioni ai delitti, ancorché tale parificazione sia limitata
alle contravvenzioni della stessa indole del reato in relazione al
quale il detenuto stava scontando la pena.
5. – A sottolineare, ad un tempo, la irragionevolezza della assenza
di ogni selezione e il contrasto di questa assenza con le esigenze
imposte dal principio rieducativo, basterebbe del resto esaminare
altre disposizioni di legge prese variamente in considerazione da
questa Corte in altre sentenze, sempre in collegamento con le
esigenze della funzione rieducativa. Nell’art. 30-ter
dell’ordinamento penitenziario, pocanzi ricordato, la concessione dei
permessi-premio è ammessa entro tempi proporzionati alla gravità
delle condanne inflitte ed anche al quantum di pena già espiata
(comma 4 del suddetto articolo); quando si tratta (come nel comma 5
dell’articolo) di soggetti che hanno riportato condanna o sono
imputati di reati commessi durante l’espiazione della pena, la
esclusione ivi contemplata è limitata ai delitti dolosi. Egualmente
l’art. 58-quater al comma 5, prevede l’esclusione dell’assegnazione
del lavoro all’esterno, dei permessi-premio e delle misure
alternative alla detenzione per quegli autori dei gravi delitti
contemplati nel comma 1 dell’art. 4-bis ancorché “collaboratori con
la giustizia” quando gli stessi siano imputati o condannati per
delitti dolosi puniti con la pena della reclusione non inferiore nel
massimo a tre anni. E quando preclusioni del genere non sussistano,
il criterio per la revoca d’altri benefici è quello dettato dalla
constatazione giudiziale di un comportamento, contrario alla legge o
alle prescrizioni dettate, incompatibile con la prosecuzione delle
misure (v. art. 47, undicesimo comma, per l’affidamento in prova al
servizio sociale e art. 47-ter sesto comma, per la detenzione
domiciliare) o, più semplicemente, dalla constatazione della non
idoneità del soggetto al trattamento (v. art. 51, primo comma, per
il regime di semilibertà). Questi ultimi sono senza dubbio i criteri
più consoni alle misure alternative alla detenzione introdotte con
la legge 26 luglio 1975, n. 354, e dalle integrazioni successive
della stessa legge avutesi nel corso degli ultimi decenni, quando
già da tempo la finalità rieducativa della pena era stata iscritta
nella Costituzione. Tale criterio, la cui applicazione nei casi
concreti è rimessa alla Magistratura di sorveglianza, non può non
valere, in osservanza dello stesso principio costituzionale, anche
per la revoca della liberazione condizionale.
6. – L’accoglimento della questione sotto il profilo dell’art. 27,
terzo comma, della Costituzione, assorbe la questione sollevata dal
giudice rimettente in riferimento all’art. 3 della Costituzione sotto
il profilo della ingiustificata disparità di trattamento tra i casi
di compatibilità della condanna riportata con la prosecuzione della
prova in stato di libertà vigilata e casi di incompatibilità con
tale prosecuzione. Del resto la prospettazione del dubbio di
costituzionalità così formulata non fa che riprodurre, con
specifico richiamo alla varietà dei casi che si presentano al
giudice chiamato a disporre la revoca, il dubbio poi espresso in
riferimento all’art. 27, terzo comma, della Costituzione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 177, primo
comma, del codice penale, nella parte in cui prevede la revoca della
liberazione condizionale nel caso di condanna per qualsiasi delitto o
contravvenzione della stessa indole, anziché stabilire che la
liberazione condizionale è revocata se la condotta del soggetto, in
relazione alla condanna subita, appare incompatibile con il
mantenimento del beneficio.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 1998.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Vassalli
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 23 dicembre 1998.
Il direttore della cancelleria: Di Paola