Sentenza N. 419 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
27/12/1996
Data deposito/pubblicazione
27/12/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
12/12/1996
Presidente:, dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI;
della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse
idriche) promosso con ordinanza emessa il 16 dicembre 1995 dal
pretore di Firenze – sezione distaccata di Empoli – nel procedimento
civile vertente tra Cappellini Alda e comune di Cerreto Guidi,
iscritta al n. 222 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale,
dell’anno 1996.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 27 novembre 1996 il giudice
relatore Riccardo Chieppa;
asserendo di essere la proprietaria di un terreno sul quale il comune
di Cerreto Guidi aveva stabilito di realizzare il depuratore
comunale, chiedeva l’emissione di un provvedimento cautelare ai sensi
degli artt. 1171 e 1172 cod. civ., in quanto avrebbe potuto ricevere
danno dall’immissione dei reflui del depuratore in un fosso di sua
proprietà; ed inoltre chiedeva l’adozione di un provvedimento
d’urgenza ex art. 1170, cod. civ., in quanto la progettata
immissione dei reflui del depuratore nel rio in questione, che è un
fosso di bonifica che raccoglie le acque meteoriche drenate dal
terreno, avrebbe costituito una illegittima turbativa nel possesso
del medesimo.
Nel corso del giudizio veniva espletata perizia, che, accertata la
esistenza di un progetto di variante adottato in corso di causa che
avrebbe comportato il cambiamento del sito destinato al collocamento
dello scarico del depuratore nel corpo idrico in questione, e tenuto
conto delle caratteristiche fisiche dell’alveo a valle del nuovo
punto diimmissione, escludeva la possibilità di danni alla
proprietà della ricorrente. Costei contestava le risultanze della
consulenza tecnica d’ufficio ed eccepiva la incostituzionalità
dell’art. 1 della legge 5 gennaio 1994, n. 36, per violazione
dell’art. 42 della Costituzione, in quanto esso disporrebbe la
espropriazione di un bene di proprietà privata senza prevedere un
serio ristoro che compensi il privato per la perdita subita.
L’adito pretore di Firenze – sezione distaccata di Empoli – con
ordinanza in data 16 dicembre 1995 (r.o. n. 222 del 1996), respinta
la domanda di cui agli artt. 1171 e 1172 cod. civ., ha ritenuto,
quanto alla domanda di manutenzione, rilevante e non manifestamente
infondata, sia pure in termini parzialmente diversi da quelli
prospettati dalla ricorrente, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 1, della citata legge n. 36 del
1994.
In punto di rilevanza, il giudice a quo ha osservato che la norma
di cui si tratta, con lo stabilire la natura pubblica del fosso in
questione, o almeno delle acque in esso contenute, renderebbe
inammissibile la tutela anche solo in sede possessoria dello stesso,
impedendo l’accoglimento del ricorso.
Quanto alla non manifesta infondatezza, secondo il rimettente, il
comma 1 dell’art. 1 della legge n. 36 del 1994 si porrebbe in
contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui,
prescindendo dalle finalità della legge (chiaramente rivolta a
preservare le risorse idriche quale bene anche delle generazioni
future), e senza tenere conto della permanenza del diritto di
raccolta e di utilizzazione dell’acqua piovana a fini agricoli,
esclude la possibilità di proprietà privata sui corpi idrici
ricettori dell’acqua drenata dai terreni agricoli bonificati,
proprietà privata la quale consentirebbe l’utilizzazione agricola,
laddove l’art. 28, comma 3, della stessa legge, dispone la permanenza
del diritto di raccolta e di utilizzazione dell’acqua piovana a fini
agricoli, fattispecie sostanzialmente non diversa dalla prima.
Viene, inoltre, denunciato il vulnus all’art. 42 della
Costituzione, in quanto la norma censurata non prevederebbe un serio
ristoro per la compressione del diritto dominicale sui terreni
adiacenti ai corsi d’acqua. La norma, che attribuisce carattere di
demanialità a tutte le acque, non individuerebbe, infatti, limiti
generalizzati al diritto di proprietà al fine di assicurarne la
funzione sociale, ciò che di per sé non darebbe luogo ad
indennizzo; bensì colpirebbe solo alcuni dei componenti della
collettività destinataria della legge. Nel caso di specie, infatti,
il legislatore avrebbe determinato un pregiudizio per i proprietari
dei fondi finitimi dell’alveo del corso d’acqua, che per
l’impossibilità di disporne subirebbero una ingiustificata
compressione del diritto di proprietà sui terreni, allorché il
valore e la utilizzabilità degli stessi siano condizionati dal
drenaggio delle acque meteoriche o affioranti.
La norma sarebbe, infine, costituzionalmente illegittima in quanto
non sarebbero esplicitati, né emergerebbero i profili di interesse
generale che la Costituzione impone come condizione per qualunque
limitazione della proprietà.
2. – Nel giudizio ha spiegato intervento il Presidente del
Consiglio dei Ministri con il patrocinio dell’Avvocatura generale
dello Stato, che ha concluso per la infondatezza della questione.
Ha osservato, in proposito, l’autorità intervenuta che finalità
precipua della legge n. 36 del 1994 è la tutela dell’acqua, come
bene primario della vita, con caratteristiche esclusive, e, come
tale, non realmente suscettibile di dominio, ma solo di uso, ciò che
ne giustificherebbe il particolare regime giuridico. La
demanializzazione di tutte le acque tenderebbe, perciò, ad evitare
sottrazioni all’uso pubblico di un bene progressivamente meno
disponibile, ed a rendere effettivo un disegno di ottimizzazione
delle scarse risorse idriche ancora utilizzabili.
In tale situazione, la normativa censurata non sarebbe in contrasto
con l’art. 3 della Costituzione, essendo evidente la diversità delle
fattispecie messe a confronto dal giudice rimettente, così come la
possibilità, riconosciuta dagli artt. 27 e seguenti della legge, di
uso (anche se non più di dominio) da parte dei privati delle acque
irrigue e di bonifica; né violerebbe l’art. 42 della Costituzione,
in quanto l’utilità pubblica dell’acqua giustificherebbe
l’esclusione del dominio privato su di essa; inoltre, la destinazione
della norma alla generalità dei soggetti escluderebbe un obbligo di
indennizzo.
1, comma 1, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in
materia di risorse idriche), nella parte in cui, prevedendo la
espropriazione generalizzata e senza indennizzo di tutte le acque
superficiali e sotterranee, violerebbe: a) l’art. 3 della
Costituzione, in quanto non sarebbe prevista la proprietà privata
sui corpi idrici ricettori dell’acqua drenata dai terreni agricoli
bonificati per consentirne l’utilizzazione agricola, regolandosi tale
fattispecie in modo irragionevolmente discriminatorio rispetto a
quella, non sostanzialmente diversa, della raccolta ed utilizzazione
dell’acqua piovana a fini agricoli, consentita a norma dell’art. 28,
comma 3, della stessa legge; b) l’art. 42 della Costituzione, in
quanto non sarebbe prevista la corresponsione di un serio ristoro per
la compressione del diritto dominicale dei proprietari dei terreni,
adiacenti ai corsi d’acqua, il cui valore e la cui utilizzabilità a
fini commerciali siano condizionati dalla stessa utilizzabilità del
corso d’acqua, e che risulterebbero pertanto, pregiudicati
dall’espropriazione di questo; c) ancora l’art. 42 della
Costituzione, in quanto non sarebbero esplicitati, né emergerebbero
a seguito di attività ermeneutica, i profili di interesse generale
che la norma costituzionale impone come condizione per qualsiasi
limitazione alla proprietà privata.
2. – La questione non è fondata. Infatti, come questa Corte ha
avuto occasione di affermare (sentenza n. 259 del 1996), il
progressivo “aumento dei fabbisogni derivanti dai nuovi insediamenti
abitativi e dalle crescenti utilizzazioni residenziali anche a
seguito delle nuove tecnologie introdotte nell’ambito domestico,
accompagnato da un incremento degli usi agricoli produttivi ed altri
usi, ha indotto il legislatore (legge 5 gennaio 1994, n. 36), di
fronte a rischi notevoli per l’equilibrio del bilancio idrico, ad
adottare una serie di misure di tutela e di priorità dell’uso delle
acque intese come risorse, con criteri di utilizzazione e di
reimpiego indirizzati al risparmio, all’equilibrio e al rinnovo delle
risorse medesime. Di qui la esigenza avvertita dallo stesso
legislatore di un maggiore intervento pubblico concentrato
sull’intero settore dell’uso delle acque, sottoposto al metodo della
programmazione, della vigilanza e dei controlli, collegato ad una
iniziale dichiarazione di principio, generale e programmatica (art.
1, comma 1, della legge n. 36 del 1994), di pubblicità di tutte le
acque superficiali e sotterranee, indipendentemente dalla estrazione
dal sottosuolo”.
Ed appunto la “pubblicità delle acque” ha riguardo al regime
dell’uso di un bene divenuto limitato, di modo che la dichiarazione
di pubblicità di un’acqua, intesa come risorsa suscettibile di uso
previsto o consentito, si basa su un interesse generale ritenuto in
linea di principio esistente in relazione alla limitatezza delle
disponibilità e alle esigenze prioritarie di uso dell’acqua.
Quanto alla mancanza di una generalizzata ed indiscriminata forma
di pubblicità (e regime concessorio di uso) di tutte le acque, si
tratta di una circostanza che trova fondamento nella scelta,
tutt’altro che irragionevole, del legislatore, di privilegiare talune
utilizzazioni tradizionali caratterizzate da esclusione di interesse
generale o da una razionale ponderazione di interessi.
Né dall’esistenza di disposizioni che consentono, in regime di
libertà, la raccolta delle acque piovane in invasi e cisterne al
servizio di fondi agricoli o di singoli edifici (art. 28, comma 3,
della legge n. 36 del 1994) o l’utilizzazione (purché compatibile
con l’equilibrio del bilancio idrico) delle acque sotterranee per usi
domestici, può inferirsi la illegittimità sul piano costituzionale
della mancata previsione di proprietà privata dei “corpi idrici
recettori di acque drenate dai terreni agricoli bonificati”.
Infatti, tali acque fluenti in fosso o rio (salva l’ipotesi limite
di percorso limitato del fosso non affluente in altro corpo idrico)
si differenziano dalla mera raccolta di acque piovane in invasi e
cisterne e ricadono nella disciplina generale delle acque in quanto
si presuppone un interesse generale. Esse, inoltre, sono soggette al
regime delle acque di bonifica (v. anche l’art. 27 della legge n. 36
del 1994) ove ne ricorrano i presupposti. Di conseguenza deve essere
escluso alla radice ogni profilo di contrasto con l’art. 3 della
Costituzione.
3. – I proprietari dei terreni, lungo i quali scorrono gli
anzidetti fossi o rii (recettori di acqua drenata dai terreni
bonificati o affiorante), anche se le relative acque sono divenute
pubbliche, hanno una priorità dell’uso agricolo una volta assicurato
l’eventuale consumo umano insieme agli altri agricoltori (art. 28,
comma 3, della legge n. 36 del 1994); conservano (a determinate
condizioni) il diritto di utilizzare (art. 28, comma 5) la falda
sotterranea per usi domestici, ricomprendendovi, secondo una
interpretazione giurisprudenziale, anche l’abbeveramento del bestiame
e l’annaffiamento dei giardini ed orti intesi come unità colturale
familiare; hanno avuto un periodo transitorio per l’esercizio del
diritto al riconoscimento o alla concessione di acque se precedenti
utilizzatori delle acque che hanno assunto natura pubblica (art. 34).
Di conseguenza, da un canto non vi è una apprezzabile compressione
della utilizzazione economica dei fondi finitimi, mentre i titolari
della proprietà privata non sono affatto pregiudicati nella loro
pretesa di mantenimento della funzione essenziale di drenaggio degli
anzidetti corpi idrici, che proprio dal carattere pubblico ricevono
unaulteriore e maggiore protezione anche sotto il profilo dell’uso
agricolo. D’altro canto, la dichiarazione di pubblicità delle acque
si risolve in un limite della proprietà dovuto alla intrinseca e
mutata rilevanza della risorsa idrica, rispondente alla sua natura,
“come scelta non irragionevole operata dal legislatore” e quale modo
di attuazione e salvaguardia di uno dei valori fondamentali
dell’uomo (e delle generazioni future) all’integrità del patrimonio
ambientale, nel quale devono essere inseriti gli usi delle risorse
idriche (art. 1, commi 2 e 3, della legge n. 36 del 1994).
4. – Su un piano più generale, deve essere confermato il principio
che l’art. 42 della Costituzione non impone indennizzo quando la
legge in via generale regoli diritti dominicali in relazione a
determinati fini per assicurare la funzione sociale con riferimento a
intere categorie di beni (v. per tutte la sentenza n. 328 del 1990
con richiami), né quando sia regolata la situazione che i beni
stessi hanno rispetto ad interessi della pubblica amministrazione,
sempre che la legge abbia per destinataria la generalità dei
soggetti (sentenza n. 245 del 1976).
Da quanto sin qui rilevato, emerge che nella fattispecie normativa
in esame, quanto alla previsione del regime di pubblicità delle
acque (art. 1, primo comma, della legge n. 36 del 1994), si è al di
fuori dello schema della espropriazione, e quindi dell’obbligo di
indennizzo. Né la limitazione al diritto di proprietà si risolve
per i proprietari dei fondi finitimi al corpo idrico in una lesione
irrimediabile del contenuto minimo della proprietà, tale da
svuotarne il contenuto (cfr. la sentenza n. 529 del 1995).
Giova inoltre sottolineare che, come nella precedente sentenza n.
259 del 1996, non si fa, nel caso di specie, questione di
acquisizione coattiva di manufatti e opere o terreni necessari per la
captazione o l’utilizzo di acque divenute pubbliche.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, risulta la
infondatezza di tutti i profili ulteriori di illegittimità
costituzionale in ordine alla compressione del diritto di proprietà
e al difetto di funzione sociale sollevati in questa sede rispetto
alla precedente questione esaminata dalla già citata sentenza n. 259
del 19 luglio 1996.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 1, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni
in materia di risorse idriche) sollevata, in riferimento agli artt.
3 e 42 della Costituzione, dal pretore di Firenze – sezione
distaccata di Empoli – con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 1996.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Chieppa
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 27 dicembre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola