Sentenza N. 42 del 1965
Corte Costituzionale
Data generale
31/05/1965
Data deposito/pubblicazione
31/05/1965
Data dell'udienza in cui è stato assunto
13/05/1965
GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO – Prof. ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER
– Prof. BIAGIO PETROCELLI – Prof. ALDO SANDULLI – Prof. GIUSEPPE BRANCA
– Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE
CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO, Giudici,
Codice penale, promosso con ordinanza emessa il 20 ottobre 1964 dalla
Corte di assise di Roma nel procedimento penale a carico di Tutino
Giovanni, Ferretti Amedino ed altri, iscritta al n. 181 del Registro
ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica,
n. 308 del 12 dicembre 1964.
Visti l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e l’atto di costituzione in giudizio di Ferretti Amedino;
udita nell’udienza pubblica del 17 marzo 1965 la relazione del
Giudice Biagio Petrocelli;
uditi gli avvocati Remo Pannain e Giuseppe Berlingieri, per
Ferretti Amedino, e il vice avvocato generale dello Stato Dario
Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel corso del procedimento penale a carico di Tutino Giovanni ed
altri davanti alla Corte di assise di Roma, la difesa di Ferretti
Amedino, imputato di concorso in omicidio ai sensi dell’art. 116 del
Codice penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale di
detta norma in riferimento all’art. 27, primo comma, della
Costituzione.
La Corte, ritenuta la questione non manifestamente infondata e
rilevante ai fini del giudizio, con ordinanza del 20 ottobre 1964, ha
rimesso gli atti alla Corte costituzionale.
Secondo l’ordinanza, l’art. 116 prevede una “ipotesi di concorso a
titolo di responsabilità obiettiva per mero rapporto di causalità
materiale tra l’evento non voluto e l’azione od omissione
dell’imputato”, responsabilità che sarebbe “ascritta per fatto non
proprio”, e quindi in contrasto col principio, sancito dall’art. 27,
primo comma, della Costituzione, della personalità della
responsabilità penale.
L’ordinanza è stata notificata, comunicata e pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale, n. 308 del 12 dicembre 1964.
Si sono costituiti in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, assistito dall’Avvocatura generale dello Stato, e la difesa
del Ferretti, con atti di intervento e deduzioni depositati il 30
dicembre 1964.
L’Avvocatura dello Stato rileva, innanzi tutto, che, secondo la
giurisprudenza della Corte costituzionale, l’art. 27, primo comma,
della Costituzione si limita a fissare il divieto della responsabilità
penale per fatto altrui, “senza alcun riferimento al divieto della
cosiddetta responsabilità oggettiva” (sentenza n. 107 del 1957).
Osserva inoltre che la fattispecie prevista da tale norma non potrebbe
mai risolversi in una ipotesi di responsabilità per fatto altrui, in
quanto la norma richiede che fra l’azione e l’omissione del concorrente
e l’evento diverso o più grave di quello da lui voluto sussista un
rapporto di conseguenzialità.
L’Avvocatura conclude, pertanto, per il rigetto della eccezione di
legittimità.
La difesa del Ferretti, nel costituirsi in giudizio, si è
brevemente riportata ai motivi della ordinanza di rinvio.
Una esposizione più ampia dei propri argomenti si rinviene nella
memoria depositata il 21 gennaio 1965.
La difesa fa precedere alcune considerazioni sulla interpretazione
da darsi all’art. 27, primo comma, della Costituzione e, sul punto,
giunge alla conclusione che “la ragion d’essere del divieto della
responsabilità per fatto altrui è la ‘ stessa’ che sta a base del
divieto della responsabilità per fatto proprio non colpevole”. Di qui
– ad avviso della difesa – la illegittimità costituzionale della norma
impugnata, nel caso si voglia ritenere che questa preveda una ipotesi
di responsabilità oggettiva.
Ma – sempre secondo la difesa – l’art. 116 prevede in realtà una
ipotesi di responsabilità per fatto altrui.
Esso realizzerebbe “addirittura un caso di responsabilità per
fatto altrui, in senso fisico, nel senso cioè, che il fatto
appartenente esclusivamente ad un concorrente è posto a carico anche
degli altri concorrenti, che nulla hanno operato in quel senso”.
Nello stesso ordine di idee si rileva che “solo il dolo e la colpa
possono ricollegare a un soggetto il fatto di un terzo, un’attività
non realizzata dal soggetto stesso, un evento diverso da quello
voluto”, mentre “se taluno si è limitato a porre la causa senza volere
l’effetto, il fatto suo è solo quello che si concreta nella causa; e
di quel che segue potrà rispondere solo se vi è colpa”.
Con memoria, depositata il 21 gennaio 1965, l’Avvocatura dello
Stato ribadisce le argomentazioni dedotte nell’atto di costituzione.
L’ordinanza della Corte di assise di Roma ravvisa nella norma
dell’art. 116 del Codice penale una “ipotesi di concorso a titolo di
responsabilità oggettiva, per mero rapporto di causalità materiale,
tra l’evento non voluto e l’azione od omissione dell’imputato”; e
soggiunge che tale responsabilità sarebbe “ascritta per fatto non
proprio”, e quindi in contrasto con l’art. 27, primo comma, della
Costituzione, cioè col principio della personalità della
responsabilità penale.
Ferma rimanendo la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale
la responsabilità oggettiva non è responsabilità per fatto altrui,
è da ritenere che con l’art. 116 del Codice penale, diversamente da
quanto si afferma nell’ordinanza, non si versi nella ipotesi della
responsabilità oggettiva, in quanto, secondo la interpretazione che
negli ultimi anni, in numerose sentenze, ha data la Corte di
cassazione, e che questa Corte ritiene di condividere, è necessaria,
per questa particolare forma di responsabilità penale, la presenza
anche di un elemento soggettivo.
Le interpretazioni immediatamente successive alla entrata in vigore
del Codice furono strettamente influenzate dalla formulazione letterale
della nuova disposizione; e ne derivarono per un certo tempo
affermazioni piuttosto decise del principio della responsabilità
oggettiva come fondamento della disposizione stessa. Tuttavia questa
interpretazione non mancò di suscitare, fin dal principio, vive
obiezioni.
Sebbene i suoi sostenitori abbiano sempre tentato di attenuarne in
certa misura la portata, è innegabile che, a voler assumere come
fondamento della responsabilità ex art. 116 unicamente il rapporto di
causalità materiale, non si potrebbe, a stretto rigore, stabilito un
tale rapporto, sfuggire a talune estreme conseguenze: a quella,
soprattutto, di dover imputare all’agente, solo perché materiale
conseguenza della sua azione, un reato non soltanto diverso o più
grave di quello voluto, ma anche del tutto al di fuori, per sua natura,
da ciò che sarebbe un prevedibile omogeneo sviluppo dell’azione
concordata. La interpretazione dell’art. 116 in senso rigidamente
oggettivo è pertanto apparsa giustamente alla Cassazione non conforme
al vero spirito della norma, venendo a creare una forma di
responsabilità del tutto contrastante col sistema e produttiva, oltre
tutto, di conseguenze penali di sproporzionata gravità.
Di qui il graduale manifestarsi della tendenza a riconoscere nella
responsabilità ex art. 116 un coefficiente di partecipazione anche
psichica: tendenza che ha poi trovato negli ultimi anni, come si è
detto, costante e decisa affermazione nella giurisprudenza. Né ciò
può attribuirsi a una diversione tardiva da quella che fu la
originaria interpretazione, in quanto significativi precedenti nello
stesso senso si riscontrano in una parte notevole della dottrina sin
dai primi anni dall’entrata in vigore del Codice, e traccia evidente ne
presentano gli stessi lavori preparatori. Già, infatti, nella
Relazione sul testo definitivo (pag. 71) si avvertiva che, “chi coopera
ad un’attività criminosa può e deve rappresentarsi la possibilità
che il socio commetta un reato diverso da quello voluto”.
La interpretazione che in definitiva si è affermata nella
giurisprudenza, pur tra qualche difformità e incertezza di
formulazione, esige, sostanzialmente, come base della responsabilità
ex art. 116 del Codice penale, la sussistenza non soltanto del rapporto
di causalità materiale, ma anche di un rapporto di causalità
psichica, concepito nel senso che il reato diverso o più grave
commesso dal concorrente debba potere rappresentarsi alla psiche
dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani,
come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto,
affermandosi in tal modo la necessaria presenza anche di un
coefficiente di colpevolezza.
Tale interpretazione questa Corte, accogliendo i motivi che la
giurisprudenza ne ha via via esposti e sviluppati, ritiene di dover
pienamente condividere, escludendo con ciò che l’art. 116 del Codice
penale importi una violazione del principio della personalità della
responsabilità penale: principio che nella partecipazione psichica
dell’agente al fatto trova la sua massima affermazione. Essendo ciò
sufficiente per riconoscere infondata la questione proposta, non è
compito di questa Corte il delimitare particolarmente la natura e gli
aspetti del coefficiente di colpevolezza che ricorre nella fattispecie
dell’art. 116, né lo stabilire se dalla semplice colpa esso possa
addirittura assurgere alla forma dolosa, nel qual caso, è anche dubbio
che si rientri nella ipotesi del predetto art. 116.
Ciò che invece questa Corte ritiene di dover rilevare è che le
incertezze e i contrasti suscitati dalla disposizione dell’art. 116,
sebbene da ultimo avviati dalla giurisprudenza a una più equilibrata
ed esatta soluzione, non possono dirsi del tutto dissipati nella
coscienza sociale e giuridica: onde la opportunità di un intervento
del legislatore, al fine di stabilire se la norma in questione debba
rimanere nel nostro ordinamento e, in caso positivo, quali esattamente
debbano esserne il fondamento e i limiti, e in quali termini, inoltre,
debba realizzarsi una logica coordinazione della norma stessa con tutto
il sistema e con norme analoghe, in particolare con quella dell’art. 83
del Codice penale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione,
sollevata dalla Corte di assise di Roma con ordinanza del 20 ottobre
1964, sulla legittimità costituzionale dell’art. 116 del Codice
penale, in riferimento all’art. 27, primo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 13 maggio 1965.
GASPARE AMBROSINI – GIUSEPPE CASTELLI
AVOLIO – ANTONINO PAPALDO – NICOLA
JAEGER – BIAGIO PETROCELLI – ALDO
SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA – MICHELE
FRAGALI – COSTANTINO MORTATI –
GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO.