Sentenza N. 420 del 1998
Corte Costituzionale
Data generale
23/12/1998
Data deposito/pubblicazione
23/12/1998
Data dell'udienza in cui è stato assunto
14/12/1998
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI
MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI;
20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità
dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale
nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), promosso con
ordinanza emessa il 20 febbraio 1998 dal pretore di Modica, Sezione
distaccata di Scicli, nel procedimento civile vertente tra Trovato
Giuseppe e la Plasticontenitor s.r.l. iscritta al n. 264 del registro
ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 16, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 30 settembre 1998 il giudice
relatore Fernando Santosuosso.
conseguenza dell’impugnazione di un licenziamento per presunta
inidoneità alle mansioni, il pretore di Modica, Sezione distaccata
di Scicli, ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela
della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e
dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), in riferimento agli artt. 3 e 27 (recte: 24) della
Costituzione.
Rileva il giudice a quo che nel procedimento sottoposto al suo
giudizio la domanda principale proposta dal lavoratore è già stata
accolta, con conseguente ordine di reintegrazione dello stesso, e che
deve ora decidersi la sola domanda conseguenziale di risarcimento dei
danni. Tale risarcimento, che tendenzialmente è commisurato alle
retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito dal giorno del
licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, non può
essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di
fatto, potendo però il lavoratore optare, in alternativa alla
reintegrazione, per un’indennità sostitutiva pari a quindici
mensilità di retribuzione.
Questi principi, ad avviso del Pretore, non sembrano poter valere
nel caso di specie, nel quale il datore di lavoro ha disposto il
licenziamento “per effetto di verifica d’inidoneità al lavoro
accertata in esito alla procedura di cui all’art. 5 dello Statuto”,
situazione che dovrebbe legittimare l’applicazione degli artt. 1256 e
1463 del codice civile. Ad avviso del rimettente, in altre parole,
l’avvenuto espletamento della procedura di controllo di cui al
menzionato art. 5, portando ad una pronuncia di carattere tecnico
che il datore di lavoro non può contestare ed alla quale, anzi, ha
il dovere di attenersi, dovrebbe implicare che nessuna
responsabilità possa essere posta a suo carico in caso di successiva
verifica dell’erroneità dell’accertamento medico in precedenza
compiuto. È pacifico, infatti, che il giudizio espresso dall’organo
medico di controllo rimane soggetto a verifica in sede
giurisdizionale, come più volte ribadito dalla giurisprudenza della
Cassazione; ciò non toglie, peraltro, che dovrebbe ritenersi
sussistente, quanto meno sotto l’aspetto putativo, il giustificato
motivo di licenziamento di cui all’art. 3 della legge 15 luglio 1966,
n. 604, con conseguente inesistenza di ogni pretesa risarcitoria.
La norma impugnata, invece, pare riconoscere automaticamente al
lavoratore la misura minima risarcitoria delle cinque mensilità di
retribuzione. Ne consegue che, ad avviso del rimettente, a meno che
questa Corte “non ritenga praticabile un’interpretazione
costituzionale della norma”, l’art. 18 in esame viola l’art. 3 della
Costituzione perché, senz’alcuna ragionevolezza, pone a carico del
datore di lavoro una sorta di responsabilità oggettiva del tutto
ingiustificata, nonché l’art. 27 della Costituzione, perché
impedisce al medesimo “di far valere in giudizio, in via di
eccezione, l’insussistenza dell’obbligo risarcitorio posto a suo
carico”.
In punto di rilevanza il pretore nota che l’eventuale accoglimento
della presente questione potrebbe portare al rigetto della domanda
risarcitoria nel giudizio a quo, domanda che sarebbe comunque da
accogliere in caso contrario.
2. – Nel giudizio davanti a questa Corte è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
Rileva innanzitutto la difesa erariale che, pur essendo
predominante l’orientamento della Cassazione secondo cui
l’obbligazione risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo
prescinde dalla sussistenza di un comportamento “colposo” da parte
del datore di lavoro, alcune pronunce vanno di contrario avviso,
sicché al rimettente non sarebbe totalmente preclusa la possibilità
di una diversa interpretazione della norma impugnata.
Nel merito, poi, la questione non è fondata, poiché questa Corte
ha già riconosciuto che la predeterminazione di un danno minimo
risarcibile in ogni caso rientra nel legittimo esercizio della
discrezionalità legislativa, sicché non c’è violazione del
principio di ragionevolezza. L’alternativa, del resto, sarebbe
ancora peggiore, perché negare il diritto al risarcimento del danno
in un caso del genere equivarrebbe a porre a carico del lavoratore il
rischio di un errato accertamento dell’inabilità da parte di un ente
pubblico, il che certamente non è ammissibile.
sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della
legge 20 maggio 1970, n. 300, in riferimento agli artt. 3 e 27 della
Costituzione.
Il giudice a quo ritiene che la norma impugnata appare in palese
contrasto: a) con l’art. 3 della Costituzione, laddove essa, “in
violazione di ogni elementare principio di uguaglianza e
ragionevolezza, addossa la responsabilità risarcitoria a un soggetto
al quale non è addebitabile l’evento da cui tale responsabilità
trae origine, in forza di una sorta di responsabilità oggettiva
ingiustificata e incompatibile con i principi del nostro ordinamento;
b) con l’art. 27 (recte: 24) della Costituzione, laddove nella
sostanza impedisce al datore di lavoro incolpevole di far valere in
giudizio, in via di eccezione, l’insussistenza dell’obbligo
risarcitorio posto a suo carico”.
2. – Occorre innanzitutto rilevare che l’Avvocatura dello Stato ha
eccepito l’inammissibilità della questione, sostenendo che in
qualche recente sentenza la Corte di cassazione avrebbe diversamente
interpretato la norma impugnata, nel senso che la responsabilità
risarcitoria del datore di lavoro debba essere esclusa qualora il
rifiuto della sua prestazione sia giustificato da un motivo
legittimo; sicché il presente giudizio si risolverebbe nella
decisione di una questione di mera interpretazione, potendo il
pretore seguire quella ritenuta conforme a Costituzione.
L’eccezione è infondata. Dal testo dell’art. 18, così come
interpretato dalla costante giurisprudenza, emerge con chiarezza,
infatti, che la misura risarcitoria costituita dalle cinque
mensilità di retribuzione globale di fatto costituisce un minimum,
predeterminato ex lege e connesso alla riconosciuta illegittimità
del licenziamento, da corrispondersi “in ogni caso”. Il pretore, pur
esprimendo dubbi di legittimità costituzionale, non ha inteso
discostarsi da un tale orientamento.
3. – Nel merito, la questione è infondata.
Questa Corte, in una non recente sentenza (n. 178 del 1975), ebbe
già occasione di affermare che i due parametri costituzionali oggi
invocati non risultano violati per il fatto che la norma in esame
prevede una misura di risarcimento del danno che va comunque
riconosciuta al lavoratore ingiustamente licenziato. In
quell’occasione si osservò, scrutinando il testo dell’art. 18 dello
Statuto dei lavoratori nella versione precedente a quella introdotta
dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, che la
predeterminazione di un risarcimento minimo, spettante in ogni caso,
“risponde ad una presunzione legale che, per essere configurata in
una misura realistica (…), non contrasta con l’art. 3 della
Costituzione, ma costituisce legittimo esercizio di discrezionalità
politica da parte del legislatore”. Tale conclusione va qui
riaffermata per le seguenti ulteriori considerazioni.
È pacifico in giurisprudenza che la dichiarazione di inidoneità
fisica in esito alle procedure di cui all’art. 5 dello Statuto non ha
carattere di definitività, potendo il giudice della controversia
pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica
d’ufficio disposta nel giudizio di merito. Da ciò consegue che il
datore di lavoro, nel momento in cui opta per l’immediato
licenziamento del dipendente anziché chiedere, secondo le normali
regole contrattuali, la risoluzione giudiziaria del rapporto di
lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione, agisce
evidentemente a suo rischio, perché non può ignorare che l’esito
della procedura di cui al citato art. 5 non è incontrovertibile.
D’altra parte questa Corte ha già riconosciuto, sia pure in
fattispecie diverse, la generica sussistenza del principio del
“rischio d’impresa” (sentenze n. 30 del 1996 e n. 7 del 1993), che
viene oggettivamente a gravare su chi intraprende una simile
attività; e la stessa Corte di cassazione (sentenza n. 9464 del
1998), in un caso simile a quello attuale, ha recentemente
sottolineato che il risarcimento nella misura minima delle cinque
mensilità costituisce un’indennità “quasi a titolo di penale avente
la sua radice nel rischio d’impresa”. È indubbio, del resto, che gli
effetti economici della situazione di incertezza – necessariamente
conseguente alla possibilità che l’inabilità accertata con la
procedura di cui all’art. 5 dello Statuto venga successivamente
ritenuta dal giudice insussistente – devono gravare o sul datore di
lavoro o sul lavoratore; la scelta del legislatore, chiaramente
rivolta a tutela del soggetto più debole, si presenta immune dalle
lamentate censure.
4. – Può solo aggiungersi che la responsabilità risarcitoria del
datore di lavoro per l’illegittimo licenziamento intimato in regime
di tutela c.d. reale non si discosta dalla disciplina ordinaria
perché implica comunque, per il danno eccedente la suddetta misura
minima, la sussistenza della colpa dello stesso, in mancanza della
quale non c’è danno ulteriore risarcibile. Per altro verso, quanto
alla presunzione assoluta di danno minimo pari a cinque mensilità di
retribuzione, il legislatore ha operato un non irragionevole
bilanciamento complessivo per il fatto di aver simmetricamente
riconosciuto al datore di lavoro l’esercizio della facoltà di
recesso, idonea ad incidere unilateralmente ed immediatamente nella
sfera degli interessi del lavoratore.
La previsione (di carattere eccezionale) di una presunzione iuris
et de iure di danno in caso di esercizio oggettivamente illegittimo
di tale facoltà non fa che riequilibrare siffatto potere privato, a
fronte del quale il lavoratore versa in una situazione di soggezione.
5. – Per le esposte considerazioni, dunque, la denunziata norma –
che con l’accertata illegittimità del licenziamento presume che il
lavoratore abbia subìto un danno predeterminato in una misura base
aumentabile quando si dia prova di un ulteriore pregiudizio – non
viola il principio costituzionale di ragionevolezza; e, quanto al
parametro di cui all’art. 24 della Costituzione (erroneamente
indicato nell’art. 27), nessuna lesione sussiste, perché “la
garanzia costituzionale della difesa opera entro i limiti del diritto
sostanziale” (sentenza n. 178 del 1975).
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela
della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e
dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 (recte:
24) della Costituzione, dal pretore di Modica, Sezione distaccata di
Scicli, con l’ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 1998.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Santosuosso
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 23 dicembre 1998.
Il direttore della cancelleria: Di Paola