Sentenza N. 422 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
03/12/1993
Data deposito/pubblicazione
03/12/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
18/11/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
avv. Massimo VARI;
terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il
riconoscimento dell’obiezione di coscienza), promosso con ordinanza
emessa il 26 gennaio 1993 dal Tribunale militare di Padova nel
procedimento penale a carico di Parisio Mario, iscritta al n. 172 del
registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 1993;
Udito nella camera di consiglio del 6 ottobre 1993 il Giudice
relatore Prof. Antonio Baldassarre;
dell’art. 8, secondo e terzo comma, della legge 15 febbraio 1972, n.
772 (Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza), il
Tribunale militare di Padova ricorda, in linea di fatto, che Mario
Parisio, militare di leva in servizio dal 29 aprile 1991, il 25
settembre dello stesso anno, inviato dall’ospedale militare al corpo
di appartenenza, non si presentava e rimaneva in assenza arbitraria
fino al 20 maggio 1992, giorno in cui si è presentato al Distretto
militare di Caserta. Con sentenza del 31 marzo 1992, peraltro, il
Parisio veniva condannato in contumacia a quattro mesi di reclusione
militare, con il beneficio della sospensione condizionale della pena,
per l’arbitraria assenza protrattasi dal 25 settembre 1991 alla data
della condanna. Il Tribunale militare di Padova, chiamato a giudicare
nuovamente il Parisio per due distinti fatti di diserzione (tanto
l’assenza arbitraria dal 31 marzo al 20 maggio 1992, quanto quella
protrattasi dal 4 giugno all’11 dicembre dello stesso anno), osserva
nell’ordinanza di rimessione che dalle dichiarazioni e dai documenti
acquisiti nel dibattimento risulta che l’imputato ha dichiarato di
non voler prestare il servizio militare per obbedire all’imperativo
morale di far fronte con il suo aiuto e il suo lavoro a una
disastrosa situazione della sua famiglia (composta dai genitori e da
dieci figli), soprattutto a causa di una malattia della madre, ormai
giunta allo stadio terminale, e del fatto che il suo lavoro, in
presenza di un padre alcolizzato e disoccupato e di molti fratelli
ancora minori di età, è una delle principali fonti per il
sostentamento della famiglia stessa.
Posti questi elementi di fatto, il giudice a quo rileva come il
dovere morale, che ha indotto l’imputato ad assentarsi dal reparto
nel quale prestava il servizio militare, non può costituire
giustificato motivo di rifiuto del servizio stesso, ai fini
dell’esonero a pena espiata, ai sensi dell’art. 8, secondo e terzo
comma, della legge n. 772 del 1972, poiché le ragioni addotte
dall’imputato non rientrano tra i motivi di coscienza previsti
dall’art. 1 della medesima legge. In realtà, l’imputato avrebbe
potuto beneficiare dell’esonero dal servizio militare di leva per
ragioni di famiglia: ma egli, essendo apparso totalmente ignorante
dei suoi diritti, in assenza di adeguati istituti di patronato
sociale non ha chiesto di godere di tale beneficio. Di fronte a
questa situazione, il giudice a quo dubita della legittimità
costituzionale dell’art. 8, secondo comma, della ricordata legge n.
772, poiché apparirebbe contrario al principio di eguaglianza (art.
3 della Costituzione) l’accordare una tutela a motivi di coscienza di
un certo tipo (come la contrarietà all’uso delle armi per i motivi
indicati nell’art. 1 della stessa legge) e non agli altri motivi di
coscienza, pur se non riconducibili all’incondizionata contrarietà
all’uso delle armi. Inoltre, in riferimento al medesimo parametro
costituzionale, lo stesso giudice a quo ritiene ingiustificata la
diversità fra la norma impugnata, che prevede l’adduzione degli
specifici motivi di coscienza indicati nell’art. 1 della medesima
legge, e la disposizione contenuta nell’art. 8, primo comma, la quale
punisce il puro e semplice rifiuto del servizio civile alternativo
senza che sia necessaria l’adduzione di particolari motivi di
coscienza o di altro genere.
Ad avviso del giudice a quo, lo stesso art. 8, secondo comma,
appare contrastare anche con altre norme costituzionali, segnatamente
quelle che tutelano il rispetto della coscienza come principio
creatore di ogni altra libertà (artt. 2, 19 e 21 della
Costituzione). Infatti, tali valori, che hanno indotto il legislatore
a configurare il reato di cui all’art. 8, secondo comma, della legge
n. 772 del 1972, ricorrono anche in relazione ad una posizione di
coscienza non riconducibile all’incondizionata contrarietà all’uso
delle armi, sicché pur in tal caso occorre evitare, se si vuole
tutelare il valore della coscienza, la c.d. spirale delle condanne.
Per questi stessi motivi, la disposizione impugnata sembra
contrastare anche con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione (le
“pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”), poiché
tale principio costituzionale preclude al legislatore di porre norme
che, misconoscendo la sostanziale unitarietà del fatto da
penalizzare, comportino una certa frammentazione e indeterminatezza
e, quindi, una disumanità del trattamento sanzionatorio.
Sulla base delle argomentazioni svolte, il giudice a quo, in
riferimento ai parametri già indicati, chiede a questa Corte di
dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, secondo
comma, della legge n. 772 del 1972, nella parte in cui esclude che il
reato ivi configurato si realizzi per il solo fatto del rifiuto del
servizio militare o con l’adduzione di motivi di coscienza diversi da
quelli indicati nell’art. 1 della stessa legge. O, se si preferisce,
precisa il giudice rimettente, la Corte potrebbe semplicemente
caducare l’inciso “adducendo i motivi di cui all’art. 1” contenuto
nell’art. 8, secondo comma. Inoltre, poiché quest’ultimo articolo
prevede che il reato si realizzi soltanto quando il rifiuto del
servizio militare venga posto in essere “prima di assumerlo”, il
giudice a quo chiede a questa Corte di dichiarare, in riferimento
agli stessi parametri, l’incostituzionalità dell’art. 8, secondo
comma, nella parte in cui esclude che il reato ivi configurato si
realizzi anche dopo l’assunzione del servizio militare di leva. In
proposito il giudice rimettente osserva che la Corte con la sentenza
n. 467 del 1991 ha riconosciuto l’ingiustificatezza di simile
limitazione, ma ha dichiarato di non poterla annullare in quanto da
una tale pronunzia sarebbe potuto derivare un effetto peggiorativo
del trattamento sanzionatorio dell’obiettore di coscienza. Ma
quest’ultima osservazione è contestata dal giudice a quo tanto
perché nella considerazione della maggiore o minore gravità di un
trattamento sanzionatorio andrebbero valutati anche gli effetti
conseguenti all’espiazione della pena, quanto soprattutto perché nel
caso di specie l’imputato è incriminato per reati puniti con una
sanzione superiore a quella prevista dalla norma impugnata, di modo
che all’annullamento di quest’ultima conseguirebbe un trattamento per
lui più favorevole.
Infine, il giudice a quo solleva questione di costituzionalità,
sempre in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, nei
confronti dell’art. 8, terzo comma, che, contenendo una fattispecie
autonoma da quelle proprie dei commi precedenti (come ha riconosciuto
la stessa Corte nella sentenza n. 467 del 1991), appare illegittimo
nella parte in cui non prevede l’esonero dalla prestazione del
servizio militare a seguito dell’espiazione della pena da parte di
chi abbia rifiutato il servizio militare per motivi di coscienza non
compresi nell’art. 1 della legge n. 772 del 1972.
artt. 2, 3, 19, 21 e 27, terzo comma, della Costituzione – distinte
questioni di legittimità costituzionale nei confronti dell’art. 8,
secondo e terzo comma, della legge 15 febbraio 1972, n. 772 (Norme
per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza).
In particolare, il giudice a quo dubita, innanzitutto, della
legittimità costituzionale dell’art. 8, secondo comma, per
violazione del principio di parità di trattamento (art. 3 della
Costituzione) sotto un duplice profilo. In primo luogo, la
disposizione impugnata, nel configurare il reato di rifiuto del
servizio militare in tempo di pace in relazione a coloro che, al di
fuori dei casi di ammissione ai benefici previsti per gli obiettori
di coscienza, adducono i motivi di cui all’art. 1 (contrarietà
all’uso delle armi per motivi di coscienza attinenti a una concezione
generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi o
filosofici o morali professati dal soggetto), discriminerebbe
ingiustificatamente coloro che compiono lo stesso rifiuto adducendo
motivi di coscienza diversi, anche se non riconducibili alla
ricordata contrarietà all’uso delle armi. Inoltre, la medesima
posizione, ad avviso dello stesso giudice, comporterebbe un’ulteriore
disparità di trattamento rispetto alla disciplina prevista nel comma
precedente del medesimo art. 8: mentre il primo comma, infatti, non
condiziona il rifiuto del servizio sostitutivo ivi configurato
all’adduzione di motivi giustificativi, la disposizione impugnata,
invece, contiene tale condizionamento richiedendo che per configurare
il reato ivi previsto siano addotti i motivi di coscienza indicati
nel ricordato art. 1. Sulla base delle considerazioni ora enunciate
il giudice rimettente formula un petitum complesso, nel senso che
chiede a questa Corte la dichiarazione d’illegittimità
costituzionale dell’art. 8, secondo comma, nella parte in cui esclude
che il reato ivi configurato si realizzi per il solo fatto del
rifiuto del servizio militare o con l’adduzione di motivi di
coscienza diversi da quelli indicati nell’art. 1 della stessa legge.
La seconda questione posta dal giudice a quo concerne ancora
l’art. 8, secondo comma, sotto il diverso profilo della presunta
violazione del principio di coscienza (artt. 2, 19 e 21 della
Costituzione) e di quello per il quale le pene non possono consistere
in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, della
Costituzione). Secondo il giudice rimettente, questi due principi
costituzionali risulterebbero violati dalla concreta possibilità che
una posizione di coscienza, pur se non riconducibile ai motivi
indicati nel predetto art. 1, sia soggetta alla c.d. spirale delle
condanne, vale a dire al susseguirsi di pene irrogate fino all’età
del venir meno dell’obbligo di leva, in conseguenza della
reiterazione del medesimo rifiuto del servizio militare.
La terza questione posta dal giudice a quo è sorretta da
un’identica motivazione diretta alla contestazione della c.d. spirale
delle condanne, anche se concerne l’art. 8, terzo comma, della stessa
legge, il quale prevede che l’espiazione della pena irrogata per i
reati configurati nei due commi precedenti esonera dalla prestazione
del servizio militare. Secondo il giudice rimettente, i parametri di
costituzionalità invocati per la questione antecedente
risulterebbero violati ove non si estendesse il ricordato beneficio
anche a coloro che rifiutano il servizio militare per motivi di
coscienza diversi da quelli indicati nel citato art. 1 della stessa
legge.
Infine, lo stesso giudice contesta ancora, in riferimento ai
parametri costituzionali invocati nelle due precedenti questioni, la
legittimità costituzionale dell’art. 8, secondo comma, nella parte
in cui la norma impugnata, nel circoscrivere la configurazione del
reato di rifiuto del servizio militare ivi previsto a coloro che, non
godendo dei benefici concessi dalla medesima legge, adducano i motivi
di coscienza di cui all’art. 1 prima di assumere il servizio
militare, esclude dall’esonero susseguente alla pena espiata per il
predetto reato, ai sensi del comma terzo dello stesso art. 8, coloro
che adducano i medesimi motivi di coscienza per rifiutare il servizio
militare soltanto dopo averlo assunto.
2. – L’insieme delle contestazioni mosse dal giudice a quo
all’art. 8, secondo e terzo comma, della legge n. 772 del 1972, mira
a ottenere da questa Corte interventi additivi o correttivi sulle
disposizioni impugnate, diretti al risultato di estendere l’esonero
conseguente alla pena espiata per i reati di rifiuto del servizio
militare a coloro che manifestino tale volontà anche successivamente
all’assunzione del servizio stesso tanto se giustifichino il rifiuto
adducendo motivi di coscienza anche diversi da quelli indicati dal
più volte ricordato art. 1 della medesima legge, quanto se esprimano
lo stesso rifiuto senza addurre motivo alcuno. Tuttavia, occorre
subito osservare che, per effetto di una decisione pronunziata
successivamente all’emissione dell’ordinanza introduttiva del
presente giudizio, questa Corte è già intervenuta sulla sostanza
del complessivo problema sollevato dal Tribunale militare di Padova
in un senso non contrario a quello auspicato dal medesimo giudice a
quo.
Con la sentenza n. 343 del 1993, questa Corte ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, terzo comma, della legge
n. 772 del 1972, in relazione al caso di un imputato per il reato di
diserzione (art. 148 c.p.m.p.), adottando una pronunzia additiva
vòlta ad estendere l’esonero dalla prestazione del servizio militare
di leva a favore di coloro che, avendo rifiutato totalmente in tempo
di pace la prestazione del servizio stesso dopo aver addotto motivi
diversi da quelli indicati nell’art. 1 della medesima legge o senza
aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato per quel comportamento la
pena della reclusione quantomeno in misura complessivamente non
inferiore alla durata del servizio militare di leva.
Considerata alla luce dei precedenti giurisprudenziali – e, in
particolare, in relazione alla sentenza n. 467 del 1991 – e valutata
in base alla motivazione della decisione prima citata, la pronunzia
ora ricordata, resa in base agli artt. 3 e 27, terzo comma, della
Costituzione (parametri invocati anche nel caso in questione), ha
evidentemente una portata generale, nel senso che estende i suoi
effetti a tutti i militari imputati di reati comportanti forme di
rifiuto del servizio militare che si vengano a trovare assoggettati
alla “spirale delle condanne”. È chiaro, infatti, che, nel
ragionamento svolto da questa Corte nella sentenza n. 343 del 1993,
è l’effetto della “spirale delle condanne” a porsi, di per sé, in
contrasto con i valori e i fini espressi dal combinato disposto degli
artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione.
Nel confermare ora la portata generale di quella pronunzia, la
Corte, sulla base degli stessi motivi allora espressi, ribadisce la
medesima dichiarazione d’illegittimità costituzionale, precisando,
in obbedienza a ragioni di certezza giuridica, che l’esonero, nei
termini già detti, si estende anche a coloro che abbiano rifiutato
il servizio militare soltanto dopo averlo assunto. Infatti, il caso
dedotto in questo giudizio riguarda proprio un militare che ha
espresso il suo rifiuto successivamente all’assunzione del servizio
di leva.
In conseguenza di tale pronunzia, sono assorbiti i profili
relativi all’art. 8, terzo comma, in riferimento ai parametri
concernenti gli artt. 2, 19 e 21 della Costituzione e quelli relativi
all’art. 8, secondo comma, in riferimento a tutti i parametri
invocati, eccetto l’art. 3 della Costituzione per l’aspetto attinente
alla disparità di trattamento.
3. – Resta da esaminare, pertanto, la prima delle questioni
sollevate dal giudice a quo, che è in parte inammissibile e in parte
non fondata.
Inammissibile per irrilevanza è la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 8, secondo comma, per la parte in cui si assume un’ingiustificata disparità di trattamento in relazione al
fatto che la norma impugnata conferisce rilievo soltanto ai motivi di
coscienza, pur se non riconducibili alla contrarietà all’uso delle
armi. L’irrilevanza della questione deriva dal fatto che nel caso
dedotto nel giudizio a quo l’imputato, stando all’ampia descrizione
contenuta nell’ordinanza di rimessione, non rientra fra i soggetti
che fanno valere un motivo di coscienza, anche se diverso da quelli
indicati nell’art. 1 della legge n. 772 del 1972. I motivi di
coscienza, infatti, non coincidono con qualsiasi imperativo morale,
ma riguardano, come si deduce anche dall’appena ricordato art. 1, i
comandi del foro interno riconducibili a concezioni generali, ai
quali, in ragione del pluralismo dei valori di coscienza susseguente
alla garanzia costituzionale delle libertà fondamentali della
persona, può esser attribuita dal legislatore una determinata e
limitata capacità di deroga a specifici doveri costituzionali di
solidarietà civile o politica. Il pur lodevole imperativo morale di
assistere la propria numerosa e bisognosa famiglia, che il giudice a
quo riconosce nel caso di fronte a lui dedotto, è tutelato
dall’ordinamento giuridico, come ammette lo stesso giudice, non già
quale motivo di coscienza, ma quale causa sociale di dispensa dalla
ferma di leva (v. art. 22, n. 5, della legge 31 maggio 1975, n. 191).
E il deprecabile fatto che il godimento di tale beneficio, come
lamenta il giudice a quo, non sia adeguatamente assicurato presso i
ceti sociali maggiormente privi di mezzi materiali e di cultura,
porta indubbiamente questa Corte ad auspicare il varo di opportune
riforme, ma non può comunque indurla a convertire in motivo di
coscienza un imperativo morale che per sua natura non può rientrare
in quella categoria.
4. – Non fondata è, infine, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 8, secondo comma, per la parte in cui
concerne la pretesa disparità di trattamento rispetto all’ipotesi di
reato configurato nel comma precedente dello stesso articolo,
disparità in conseguenza della quale il giudice a quo è pervenuto a
richiedere a questa Corte una pronunzia diretta a eliminare nella
disposizione impugnata qualsiasi rilievo all’adduzione di motivi per
il rifiuto del servizio militare.
Le ipotesi di reato che il giudice rimettente pone a confronto
sono in realtà totalmente eterogenee sia sotto il profilo
soggettivo, sia sotto il profilo delle condotte considerate. Per quel
che riguarda il primo aspetto, occorre osservare, infatti, che,
mentre l’art. 8, primo comma, concerne coloro che sono ammessi ai
benefici previsti nella legge n. 772 del 1972, il capoverso, invece,
presuppone proprio la mancata ammissione ai predetti benefici. Sul
piano delle condotte, poi, mentre, il primo comma riguarda il rifiuto
del servizio militare non armato e di quello sostitutivo,
diversamente il secondo comma ha ad oggetto il rifiuto del servizio
militare come tale. È, pertanto, evidente che la questione sollevata
dal giudice a quo concerne ipotesi che, sulla base della costante
giurisprudenza di questa Corte, non possono essere ritenute
comparabili ai fini dell’applicazione dell’art. 3 della Costituzione.
Per questa parte, dunque, la questione va rigettata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, terzo comma,
della legge 15 febbraio 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento
dell’obiezione di coscienza), nella parte in cui non prevede
l’esonero dalla prestazione del servizio militare di leva a favore di
coloro che, avendo in tempo di pace rifiutato totalmente la
prestazione del servizio stesso, anche dopo averlo assunto, sulla
base di motivi diversi da quelli indicati nell’art. 1 della legge n.
772 del 1972 o senza aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato per
quel comportamento la pena della reclusione quantomeno in misura
complessivamente non inferiore alla durata del servizio militare di
leva;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata dal Tribunale militare di Padova, con l’ordinanza indicata
in epigrafe, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nei
confronti dell’art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972,
nella parte in cui esclude che il reato ivi configurato si realizzi
per il solo fatto del rifiuto del servizio militare di leva;
Dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale, sollevata dal Tribunale militare di Padova, con
l’ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, nei confronti dell’art. 8, secondo comma, della legge
n. 772 del 1972, nella parte in cui esclude che il reato ivi
configurato si realizzi allorché siano addotti motivi di coscienza
diversi da quelli contemplati nell’art. 1 della stessa legge.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 novembre 1993.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: BALDASSARRE
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 3 dicembre 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA