Sentenza N. 422 del 1994
Corte Costituzionale
Data generale
14/12/1994
Data deposito/pubblicazione
14/12/1994
Data dell'udienza in cui è stato assunto
05/12/1994
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare
RUPERTO;
del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche
al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego),
promossi con n. 4 ordinanze emesse il 13 gennaio 1994 dal Tribunale
amministrativo regionale del Lazio sui ricorsi proposti da Ioele
Giuseppe, Pagano Antonino, Scali Domenico e Marra Pietro Oreste
contro il Ministero dell’Interno, rispettivamente iscritte ai nn.
267, 383, 384 e 455 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 20, 27 e 35, prima serie
speciale, dell’anno 1994;
Visti gli atti di costituzione di Pagano Antonino e Marra Pietro
Oreste, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica dell’8 novembre 1994 il Giudice
relatore Fernando Santosuosso;
Uditi gli avvocati Giuliano Berruti per Pagano Antonino, Giulio
Cevolotto per Marra Pietro Oreste e l’Avvocato dello Stato Stefano
Onufrio per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Stato nei confronti del Ministero dell’Interno, aventi ad oggetto
l’annullamento dei provvedimenti di rigetto delle istanze per il
trattenimento in servizio per un biennio ai sensi della legge 23
ottobre 1992, n. 421, il t.a.r. del Lazio, con quattro ordinanze di
identico contenuto, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, quinto comma, del decreto legislativo 23
dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3
febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego), in riferimento agli
artt. 3, 76 e 97 della Costituzione.
A parere del giudice rimettente la questione è sicuramente
rilevante, in quanto, trattandosi di norma di interpretazione
autentica, e pertanto con efficacia ex tunc, la sua applicazione
comporterebbe necessariamente il rigetto dei rispettivi ricorsi.
Quanto alla ritenuta violazione dell’art. 76 della Costituzione,
osserva il giudice che la legge da cui trae origine la norma
impugnata (legge 23 ottobre 1992, n. 421), contiene due distinte
deleghe al Governo: la prima, di cui all’art. 2, riguardante la
disciplina del pubblico impiego; la seconda, di cui all’art. 3,
attinente alla materia previdenziale. La norma oggetto del presente
giudizio si configura come disposizione interpretativa dell’art. 5,
terzo comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503;
tuttavia, mentre tale ultima disposizione è stata emanata in forza
della delega contenuta nell’art. 2 della legge di delega, la norma
interpretativa trae invece la propria legittimazione (come indicato
nella premessa del decreto) dall’art. 3. Ritiene pertanto il giudice
a quo che la potestà legislativa del Governo, per il suo carattere
di eccezionalità, in tanto può considerarsi legittima in quanto si
dimostri puntualmente rispettosa della delega per ogni specifico
oggetto delegato: nella specie, invece, il Governo, utilizzando la
delega di cui all’art. 2 (in materia di pubblico impiego), avrebbe
travalicato l’oggetto della delega stessa, invadendo quindi il campo
della delega di cui all’art. 3 (previdenza), con conseguente
violazione dell’art. 76.
Circa la supposta violazione degli artt. 3 e 97 della
Costituzione, ritiene il giudice rimettente che la norma sarebbe
illegittima in quanto discrimina irrazionalmente nell’ambito di una
medesima species (dipendenti civili dello Stato) una sottocategoria
di essa (il personale appartenente alla Forze di polizia ad
ordinamento civile). Tale differenziazione non avrebbe ragione di
esistere dal momento che il corpo di Polizia di Stato è stato
smilitarizzato, con la conseguenza che i suoi appartenenti rientrano
a tutti gli effetti nella categoria dei dipendenti civili: le
differenziazioni sono limitate ad alcuni aspetti di specialità
operativa, non idonei pertanto ad escluderne lo status di dipendenti
civili.
2. – Nel giudizio davanti alla Corte si è costituito Antonio
Pagano, parte nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al R.o. n.
383 del 1994, concludendo per la dichiarazione di illegittimità
costituzionale della disposizione.
La parte ribadisce in primo luogo la censura mossa alla
disposizione impugnata in riferimento all’art. 76, sottolineando un
diverso aspetto della questione. La legge di delega, confermando al
Governo la potestà di emanare disposizioni correttive soltanto
“nell’ambito dei decreti di cui al primo comma, nel rispetto dei
principi e criteri direttivi determinati nel medesimo comma”, avrebbe
escluso l’ammissibilità di un unico decreto legislativo contenente
disposizioni correttive riguardanti più di una materia tra quelle
costituenti oggetto di separata delega. Da qui la censura mossa alla
disposizione in esame, contenuta in un decreto che corregge un
decreto riguardante la materia del pubblico impiego (decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29), ma riferita ad una disposizione
inserita in un decreto riguardante la previdenza (decreto legislativo
30 dicembre 1992, n. 503).
Quanto alla violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, la
parte sottolinea l’avvenuta equiparazione delle forze di polizia ad
ordinamento civile alle altre categorie di pubblici dipendenti: onde
la irragionevolezza della disparità di trattamento della norma in
questione. Né varrebbe, sostiene la parte, riferirsi ad una presunta
natura eccezionale del beneficio della permanenza in servizio
(trattandosi di una norma che deroga rispetto ai limiti di età
ordinari), stante la sua generalizzazione nei confronti di tutto il
pubblico impiego (tranne ipotesi tassative). E neppure sarebbe
possibile ragionare in termini di equiparazione tra il personale di
Polizia ad ordinamento civile con quello ad ordinamento militare,
attesa la diversità tra le due categorie, recentemente confermata
dalla sentenza n. 91 del 1993 di questa Corte.
3. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile ovvero non
fondata.
La difesa erariale ritiene preliminarmente la questione
inammissibile per difetto di rilevanza nei giudizi a quo, osservando
che la norma impugnata ha natura interpretativa, mentre i relativi
giudizi vertono sulla legittimità di provvedimenti adottati in
ottemperanza a quanto previsto (non già dalla norma impugnata
bensì) dall’art. 5 del decreto legislativo n. 503 del 1992. Ne
consegue che l’eventuale caducazione ( ex art. 76 della Costituzione)
dell’impugnato art. 4, quinto comma, del decreto legislativo n. 546
del 1993 non farebbe venir meno l’art. 5 richiamato
nell’interpretazione imposta dalla norma impugnata, essendo tale
interpretazione fatta propria anche dal Ministero competente.
In linea subordinata, l’Avvocatura ritiene che la questione
sarebbe non fondata in riferimento all’art. 76, in quanto la norma
impugnata non può essere ritenuta una diretta estrinsecazione di
quella delega conferita in materia previdenziale al Governo ed
attuata con il decreto legislativo n. 503 del 1992. Ritiene inoltre
che l’espletamento della delega può avvenire attraverso una serie di
decreti tra loro complementari, purché siano rispettati i limiti
temporali e i principi e criteri direttivi in essa stabiliti. Per
quanto riguarda il rilievo prospettato dal giudice rimettente,
osserva la difesa erariale che la norma impugnata, pur essendo
stricto sensu di carattere previdenziale, ha rilevanti effetti anche
in ordine alla disciplina del lavoro dei dipendenti pubblici, con
evidente interconnessione tra la materia oggetto di delega di cui
all’art. 2 della legge n. 421 del 1992 e quella di cui all’art. 3.
Parimenti infondata sarebbe la questione sollevata in riferimento
agli artt. 3 e 97 della Costituzione, in quanto la deroga di cui alla
norma impugnata deriverebbe già dall’art. 5, terzo comma, del
decreto legislativo n. 503 del 1992, con cui sono stati fatti salvi i
limiti di età stabiliti dalle leggi vigenti nei confronti di talune
categorie di dipendenti, tra le quali i dipendenti delle Forze di
polizia.
Riguardo in particolare a questi ultimi, la legge 1 aprile 1981,
n. 121 ha fissato – con la disciplina “a regime” – in sessanta anni i
limiti di età per il collocamento a riposo di alcuni ruoli della
Polizia, in misura pertanto inferiore rispetto a quelli previsti in
via generale per il pubblico impiego: ciò al fine di salvaguardare
la salute fisica degli operatori di P.S., logorata da un’attività
stressante ed usurante quale quella svolta a tutela dell’ordine e
della sicurezza pubblica. In tale quadro, attribuire la facoltà del
prolungamento in servizio ad una sola delle Forze di polizia sarebbe
contraddittorio e destabilizzante, tanto più che recentemente la
tendenza all’omogeneità degli ordinamenti è stata riconfermata
dalla legge 6 marzo 1992, n, 216, con la quale sono stati equiparati
i trattamenti economici di tutte le forze di polizia e sono state
formulate deleghe per uniformarne l’ordinamento delle carriere.
questa Corte è se l’art. 4, quinto comma, del decreto legislativo 23
dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3
febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego), nella parte in cui,
interpretando l’art. 5, terzo comma, del decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 503, esclude per il personale appartenente alle
Forze di polizia ad ordinamento civile la facoltà di optare per il
mantenimento in servizio di un biennio stabilito dall’art. 16 del
decreto legislativo n. 503 del 1992, sia in contrasto:
con l’art. 76 della Costituzione, per eccesso della norma
impugnata rispetto alla delega attribuita al Governo con l’art. 3
della legge n. 421 del 1992;
con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, in quanto discrimina
irragionevolmente nell’ambito di una medesima species (dipendenti
civili dello Stato) una sottocategoria di essa (gli appartenenti alle
“Forze di polizia ad ordinamento civile”).
Data l’identità delle questioni sollevate i giudizi possono
essere riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.
2. – Con la preliminare eccezione di inammissibilità per difetto
di rilevanza, l’Avvocatura dello Stato deduce che oggetto del
giudizio dinanzi al T.A.R. era l’illegittimità della revoca dei
provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 5 del decreto legislativo
n. 503 del 1992, norma che non è stata denunziata in questa sede dal
giudice rimettente: da ciò deriverebbe che l’eventuale caducazione
dell’impugnato art. 4, quinto comma, del decreto legislativo n. 546
del 1993 non travolgerebbe il citato articolo 5, dal momento che tale
norma potrebbe ancora essere interpretata nel senso già accolto dal
Ministero competente e dall’intervento legislativo ipoteticamente
illegittimo. Irrilevante quindi nel giudizio a quo sarebbe la
denunzia di incostituzionalità limitata alla norma interpretativa.
A tale eccezione si replica nella memoria delle parti che questa
norma ha in realtà un contenuto innovativo, quindi con una rilevanza
autonoma; e quand’anche la norma fosse di natura sostanzialmente
interpretativa avrebbe comunque effetti decisivi nell’interpretazione
e nell’applicazione dell’art. 5 del decreto legislativo n. 503 del
1993 con la consequenziale rilevanza della denunziata illegittimità
anche del solo art. 4 del decreto legislativo n. 546 del 1993.
3. – L’eccezione non può essere accolta.
Indipendentemente dall’indagine se nella specie si tratti di
intervento legislativo di carattere innovativo (e quindi rilevante),
può osservarsi che, anche nell’ipotesi di norma di natura realmente
interpretativa, questa “non fa venir meno la norma interpretata,
poiché l’una e l’altra si saldano fra loro dando luogo ad un
precetto normativo unitario” (sentenze n. 397 del 1994; 424 e 39 del
1993; 155 del 1990, 233 del 1988).
Se allora nel giudizio a quo va applicato il “sistema” risultante
dalla combinazione delle due disposizioni (interpretativa e
interpretata), l’incostituzionalità eventualmente ravvisata in una
delle due produce decisivi riflessi anche sull’altra. A ciò si
aggiunga il rilievo che, pur quando l’illegittimità costituzionale
investa la sola norma interpretativa, ciò determina comunque
l’effetto della rimozione dell’impedimento al giudice di scegliere la
diversa interpretazione dallo stesso ritenuta più corretta: il che
è sufficiente a ravvisare una incidenza (e quindi la rilevanza della
questione) nel giudizio a quo.
4. – In ordine al ritenuto eccesso da parte del decreto
legislativo rispetto alla legge di delega, è opportuno rilevare
anzitutto che differenti sono le prospettazioni della questione operate rispettivamente dal giudice a quo e dalla parte costituita: a)
secondo il primo si avrebbe eccesso di delega in quanto la
disposizione impugnata sarebbe stata emanata sulla base di una delega
riguardante la materia del pubblico impiego, mentre essa interpreta
autenticamente una disposizione emanata (a suo tempo) in forza della
delega riguardante la materia della previdenza; b) secondo la parte,
invece, il legislatore delegato avrebbe utilizzato la delega
conferita per correggere un decreto sul pubblico impiego al fine di
interpretare autenticamente un decreto, in materia di previdenza,
già emanato in forza di diversa delega.
Devono altresì notarsi le particolari vicende parlamentari relative alla disposizione in esame; e cioè il Governo in un primo tempo
propose l’introduzione della disposizione interpretativa ora
impugnata con la presentazione di uno specifico disegno di legge al
Parlamento (n. 1364): le Commissioni competenti avevano espresso
parere favorevole, pur con precisazioni diverse tra le due Camere.
Tale disegno di legge non ebbe poi seguito in sede assembleare.
Successivamente, il Governo ha introdotto la stessa disposizione
all’interno di un decreto legislativo “correttivo” di precedente
decreto in materia di pubblico impiego.
Non appare necessario approfondire i rilievi non decisivi che
potrebbero farsi circa il particolare iter formativo della
disposizione e circa la diversa prospettazione della questione, dal
momento che questa Corte è chiamata ad esaminare in sostanza la
denunziata violazione dell’art. 76 della Costituzione sotto il
profilo della non identità tra l’oggetto della disposizione
interpretativa e l’ambito della delega utilizzata per emanare la
norma stessa.
Posta in questi ristretti termini, la questione non è fondata.
Va preliminarmente ricordato che l’inserimento di una norma avente
ad oggetto una determinata disciplina in un testo relativo ad una
diversa materia, pur configurandosi come esercizio non corretto di
tecnica legislativa, non è tuttavia motivo di per sé sufficiente a
determinare una illegittimità costituzionale (v. sentenza n. 108 del
1987), e che al legislatore delegato è consentito in linea di
massima anche l’utilizzazione frazionata e ripetuta di una stessa
delega (v. sentenza n. 156 del 1985), purché nel rispetto dell’art.
76 della Costituzione.
Più specificamente deve rilevarsi che la “delega” (enunciata al
singolare nella rubrica della legge n. 421 del 1992) pur se
distintamente articolata in quattro materie (sanità, pubblico
impiego, previdenza e finanza territoriale) in ragione dell’ampiezza
e complessità della riforma, deve tuttavia considerarsi
fondamentalmente unitaria, tanto più che alcuni aspetti delle
anzidette materie risultano tra loro strettamente connessi. In
particolare, la complementarità si rivela tra il pubblico impiego e
la relativa disciplina previdenziale; e, nella misura in cui queste
due ultime materie sono distinguibili, l’eccesso delle corrispondenti
deleghe potrebbe porre problemi di costituzionalità, non per un
erroneo richiamo a particolari disposizioni o per l’inesatta loro
collocazione, ma solo nel caso in cui la discordanza incida sui
limiti stabiliti (ai sensi dell’art. 76 della Costituzione) dalla
legge di delegazione, con riguardo cioè ai principi e criteri
direttivi ed all’ambito temporale in cui la delega deve esercitarsi.
Nella specie, non è ravvisabile la violazione di detti limiti
costituzionali per essersi riferita la legge interpretativa alla
norma delegante relativa al pubblico impiego anziché a quella della
previdenza, ovvero in quanto essa è contenuta in un decreto
“correttivo” riguardante il pubblico impiego.
Con specifico riguardo all’art. 2 della legge di delegazione n.
421 del 1992, è stato recentemente affermato da questa Corte
(sentenza. n. 343 del 1994) che tale norma, pur inserita a proposito
della materia del pubblico impiego, si estende alla disciplina
unitaria del sistema di controllo sugli atti amministrativi regionali
nella loro globalità.
5. – Con il secondo profilo della questione, il giudice a quo
denunzia la violazione degli articoli 3 e 97 della Costituzione,
rilevando che gli appartenenti alla Polizia di Stato, anche dopo la
loro smilitarizzazione, sono stati irrazionalmente discriminati circa
i limiti di età per il collocamento a riposo rispetto agli altri
dipendenti civili dello Stato.
Si fa osservare ex adverso che gli appartenenti alla Polizia non
sono da parificarsi pienamente ai dipendenti civili; e d’altra parte
risulta che i d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335 e n. 336 prevedono in via
transitoria (art. 45 d.P.R. n. 336 del 1982) che “il personale in
servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto
legislativo, inquadrato nei ruoli dei dirigenti e dei commissari di
Polizia di Stato, è collocato a riposo d’ufficio al compimento del
sessantacinquesimo anno di età”.
6. – Anche sotto il predetto profilo di costituzionalità la
questione sollevata dal T.A.R. Lazio non è fondata.
Va premesso che nella fattispecie – oggetto del giudizio dinanzi
al giudice a quo – non viene in considerazione la disciplina “a regime” della cessazione dal servizio del personale della Polizia di
Stato per il quale sono previsti diversi limiti di età (58 e 60 anni
a seconda dei ruoli), né l’omogeneità tra le varie Forze
dell’ordine, ma soltanto la disparità di trattamento fra i
dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici
(che hanno la facoltà di permanere in servizio per un biennio oltre
i limiti di età per essi previsti) e quei dirigenti della Polizia di
Stato (tra i quali coloro che hanno proposto ricorso al T.A.R.), che
si trovano nelle condizioni stabilite dalla citata norma transitoria
(con il limite cioè di 65 anni di età per il loro collocamento a
riposo).
Orbene, in ordine a tale situazione, il differente trattamento
previsto, così come precisato dalla norma interpretativa denunziata
dal giudice a quo, deve ritenersi costituzionalmente legittimo
anzitutto perché il legislatore ha contemplato nella normativa di
delegazione la possibilità di introdurre deroghe alla nuova
disciplina per determinate categorie di dipendenti; e, con
particolare riguardo alla cessazione dal servizio del personale di
Polizia “ad ordinamento civile” e del Corpo dei vigili del fuoco, il
citato decreto legislativo n. 503 (art. 5 terzo comma) stabilisce che
“restano ferme le particolari norme dettate dai rispettivi
ordinamenti”. In secondo luogo non appare macroscopicamente
irragionevole la censurata preclusione (almeno per quanto riguarda la
situazione delle parti in causa che si giovano della citata norma
transitoria), tenuto anche conto della natura di particolare impegno
inerente all’attività del mantenimento dell’ordine pubblico svolta
dalle Forze di Polizia. Tale circostanza, del resto, emerge
indirettamente dalla stessa legge n. 121 del 1981 che ha esteso al
predetto personale le norme previste per i pubblici dipendenti solo
“in quanto compatibili” e per “quanto non previsto dalla presente
legge”, statuendo nel contempo (art. 16 legge n. 121 del 1981) che ai
fini dell’ordine e della sicurezza pubblica sono da ritenersi “Forze
di Polizia” non solo la Polizia di Stato ma anche l’Arma dei
Carabinieri, il Corpo di Guardia di Finanza, il Corpo degli agenti di
custodia ed il Corpo Forestale dello Stato, categorie queste escluse
dall’operatività del beneficio della permanenza in servizio per un
biennio in quanto ad “ordinamento militare”.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 4, quinto comma, del decreto
legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego), sollevata,
in riferimento agli artt. 3, 76 e 97 della Costituzione, dal
Tribunale amministrativo del Lazio con le ordinanze indicate in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 dicembre 1994.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: SANTOSUOSSO
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 14 dicembre 1994.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA