Sentenza N. 427 del 1989
Corte Costituzionale
Data generale
25/07/1989
Data deposito/pubblicazione
25/07/1989
Data dell'udienza in cui è stato assunto
18/07/1989
Presidente: dott. Francesco SAJA;
Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo
CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO,
dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL’ANDRO, prof. Gabriele
PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI,
prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof.
Vincenzo CAIANIELLO,
avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
terzo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela
della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e
dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), promosso con ordinanza emessa il 13 gennaio 1989 dal
Tribunale di Vicenza nel procedimento civile vertente tra Taccon
Giancarlo e la Pellicceria T.G. di Toniolo Graziano, iscritta al n.
181 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 14, prima serie speciale dell’anno 1989;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 14 giugno 1989 il Giudice
relatore Francesco Greco;
licenziato dal suo datore di lavoro “a seguito dei fatti accaduti il
giorno 14 febbraio 1986” e con effetto dal 17 febbraio 1986.
Avverso il licenziamento così motivato proponeva impugnazione
giudiziaria il lavoratore, assumendone la natura disciplinare e
l’illegittimità per mancata osservanza della procedura di cui
all’art. 7 della legge n. 300 del 1970.
Il Pretore adito rigettava la domanda, ritenendo non applicabile
alla fattispecie la testé citata norma, per essere presso l’azienda
occupati meno di sedici dipendenti.
Il Tribunale di Vicenza, in sede di appello avverso tale
decisione, sollevava questione di legittimità costituzionale
dell’art. 7, secondo e terzo comma, della citata legge n. 300 del
1970, in riferimento all’art. 3 della Costituzione.
Osservava al riguardo che l’impugnato licenziamento aveva
carattere sostanzialmente disciplinare, come dimostrato dall’espresso
riferimento a fatti accaduti il 14 febbraio 1986 (consistenti in
ingiurie e minacce in danno del datore di lavoro, che aveva perciò
proposto querela) nonché dall’intimazione in tronco del
licenziamento stesso: donde la rilevanza della questione relativa
alla suddetta normativa, interpretata, alla stregua della
giurisprudenza della Corte regolatrice, nel senso della sua
inapplicabilità all’ipotesi, ricorrente nella fattispecie, di
licenziamento disciplinare irrogato da datore di lavoro con meno di
sedici dipendenti.
Il giudice a quo osservava, poi, nel merito della questione che la
sancita non operatività della normativa de qua nell’area di
recedibilità ad nutum da parte del datore di lavoro (anche nel caso
in cui quest’ultimo non ritenga di avvalersi puramente e
semplicemente del correlativo potere, ma commini il licenziamento
come sanzione per una mancanza del lavoratore, così ponendo il
motivo disciplinare come determinante della sua volontà di recedere)
è viziata dall’incoerenza derivante dal fatto che le garanzie
procedimentali di cui al citato art. 7 della legge n. 300 del 1970 –
ed, in particolare, quelle della previa contestazione degli addebiti
e dell’ammissione del lavoratore a rendere le sue giustificazioni -,
denegate nel caso della massima sanzione (espulsiva) sono invece
accordate, ancorché in presenza di un numero di dipendenti inferiore
a sedici, in relazione all’irrogazione di sanzioni di minore entità:
ciò a maggior ragione quando si consideri la sostanziale differenza
fra licenziamento ad nutum e licenziamento disciplinare, nel quale
ultimo non esiste un motivo di recesso riconducibile a valori di tipo
puramente economico, bensì l’autonomo rilievo determinante di una
presunta infrazione di obblighi gravanti sul lavoratore, rispetto
alla quale quest’ultimo ha uno specifico interesse alla difesa, sia
al fine di evitare la perdita del posto di lavoro, sia a tutela della
propria dignità professionale e personale.
2. – Nel susseguente giudizio davanti a questa Corte è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite
dell’Avvocatura Generale dello Stato, la quale ha preliminarmente
concluso nel senso dell’inammissibilità della questione, rilevando
che il Tribunale remittente non avrebbe precisato se il contestato
licenziamento era stato intimato ex art. 2118 ovvero ex art. 2119 del
codice civile, né se al rapporto di lavoro de quo fosse applicabile
un contratto collettivo che richiamasse espressamente, in tema di
licenziamenti per “mancanze”, le garanzie procedimentali di cui
all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori: decisione, questa, già
adottata dalla Corte con ordinanza n. 1068 del 1988, in relazione ad
identica questione, anch’essa sollevata in carenza di precisazioni
siffatte.
Nel merito ha, poi, rilevato che la questione sarebbe, comunque,
infondata, non ravvisandosi il preteso difetto di coerenza della
normativa censurata, in quanto l’operatività delle garanzie
procedimentali in caso di sanzioni disciplinari, minori del
licenziamento, irrogate da datore di lavoro con meno di sedici
dipendenti, trova ragionevole giustificazione nel fatto che queste, a
differenza del licenziamento, sia pure disciplinare, intimato dal
medesimo datore di lavoro, possono essere effettivamente rimosse per
effetto dell’applicazione di dette garanzie, inidonee, invece, ad
impedire il risultato della risoluzione del rapporto di lavoro,
ottenibile ad nutum. Né, in senso dirimente, possono invocarsi le
necessità di tutela della dignità del lavoratore, che trovano
comunque adeguato presidio nei normali mezzi apprestati
dall’ordinamento.
dell’art. 7, secondo e terzo comma, della legge n. 300 del 1970, ove
interpretata alla stregua della giurisprudenza della Corte
regolatrice, nel senso della sua inapplicabilità all’ipotesi di
licenziamento disciplinare irrogato dal datore di lavoro con meno di
sedici dipendenti, in quanto risulterebbe violato l’art. 3 della
Costituzione perché le garanzie procedimentali previste dalla norma
censurata sarebbero applicate a lavoratori delle dette aziende per
sanzioni di minore entità, mentre il licenziamento c.d. disciplinare
oltre a produrre la perdita del posto di lavoro lede la dignità
professionale e personale del lavoratore.
La questione è fondata.
Questa Corte ha affermato (sentenza n. 204 del 1982; ordinanza n.
345 del 1988) che le garanzie di cui all’art. 7 della legge n. 300
del 1970 si applicano ai licenziamenti qualificabili come sanzione
disciplinare secondo la legge o l’autonomia collettiva; il relativo
accertamento e la relativa qualificazione spettano ai giudici
remittenti e possono essere effettuati secondo l’indirizzo
giurisprudenziale affermatosi in materia.
Nella fattispecie il Tribunale di Vicenza ha qualificato il
licenziamento intimato di carattere sostanzialmente disciplinare.
Principi di civiltà giuridica ed innegabili esigenze di
assicurazione della parità di trattamento garantita dal precetto
costituzionale (art. 3 della Costituzione) richiedono che a favore
del lavoratore, colpito dalla più grave delle sanzioni disciplinari,
quale è quella espulsiva, con perdita del posto di lavoro e lesione
della dignità professionale e personale, siano assicurate le
garanzie previste dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori
specificamente a favore di colui al quale è stata inflitta una
sanzione disciplinare.
Il lavoratore deve essere posto in grado di conoscere l’infrazione
contestata, la sanzione ed i motivi; deve essere, inoltre, posto
nella condizione di difendersi adeguatamente, di fare accertare
l’effettiva sussistenza dell’addebito in contraddittorio con l’altra
parte, cioè del datore di lavoro.
Queste ragioni attengono alle specie del licenziamento e ai motivi
che lo determinano e prescindono dal numero dei dipendenti impiegati
nell’impresa, il quale (numero) condiziona le conseguenze che
derivano dall’eventuale declaratoria di illegittimità del
licenziamento.
Sicché le garanzie di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori
devono essere riconosciute anche ai lavoratori di imprese che
occupino meno di sedici dipendenti e non possono essere omesse in
alcun caso a tutela del lavoratore.
Non vi è dubbio infatti che il licenziamento per motivi
disciplinari senza l’osservanza delle garanzie suddette può incidere
sulla sfera morale e professionale del lavoratore e crea ostacoli o
addirittura impedimenti alle nuove occasioni di lavoro che il
licenziato deve poi necessariamente trovare. Tanto più grave è il
pregiudizio che si verifica se il licenziato non sia posto in grado
grado di difendersi e fare accertare l’insussistenza dei motivi
“disciplinari”, peraltro unilateralmente mossi e addebitati dal
datore di lavoro.
Del resto la sfera di operatività dell’art. 2118 del codice
civile, dopo gli interventi del legislatore in tema di licenziamento
(leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970) ispirati anche a
raccomandazioni internazionali (sessioni della Conferenza
internazionale del lavoro) (sentenza n. 2 del 1986), ed i numerosi
accordi sindacali che sono intervenuti e continuamente intervengono
in materia, si è molto ridotta e la norma non è più, quindi, una
regola del nostro ordinamento di efficacia generale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 7, secondo e
terzo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela
della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e
dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), nella parte in cui è esclusa la loro applicabilità
al licenziamento per motivi disciplinari irrogato da imprenditore che
abbia meno di sedici dipendenti.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1989.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: GRECO
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 25 luglio 1989.
Il cancelliere: DI PAOLA