Sentenza N. 434 del 1997
Corte Costituzionale
Data generale
23/12/1997
Data deposito/pubblicazione
23/12/1997
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/12/1997
Presidente: prof. Francesco GUIZZI;
Giudici: prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv.
Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof.
Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE,
avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa
il 10 giugno 1996 dal pretore di Rovereto nel procedimento civile
vertente tra Rossi Andrea e il concessionario del servizio
riscossione tributi per la Provincia di Trento, iscritta al n. 1249
del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 1996;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 12 novembre 1997 il giudice
relatore Francesco Guizzi.
codice di procedura civile, il titolare di un’impresa si opponeva
alla esecuzione esattoriale disposta dal concessionario del servizio
di riscossione tributi per soddisfare il credito relativo a imposte
non pagate dall’impresa anteriormente al fallimento. Chiamato a
giudicare sull’opposizione, il pretore di Rovereto sollevava, in
riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice
di procedura civile.
Il pretore premette di non poter immediatamente applicare, come
richiesto dal ricorrente, l’art. 46, primo comma, numero 2, della
legge fallimentare, di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267,
con conseguente impignorabilità dello stipendio aggredito
dall’esattore per la copertura del credito che non era stato
soddisfatto in sede concorsuale per effetto dell’esclusione dalla
massa fallimentare, operata dal giudice delegato. Ciò perché la
norma citata non sarebbe estensibile, in linea interpretativa, alla
procedura esecutiva singolare.
La disposizione censurata violerebbe innanzitutto l’art. 3, primo
comma, della Costituzione, per l’irrazionale disparità di
trattamento tra il fallito – alle cui esigenze di mantenimento, anche
familiari, il citato art. 46 assicura tutela, sottraendo all’attivo
fallimentare determinati beni e crediti, in particolare gli stipendi,
– e il debitore della procedura esecutiva non concorsuale, per il
quale l’art. 545, quarto comma, statuisce in via generale, e
indifferenziata, la pignorabilità dello stipendio nella misura del
quinto. In entrambi i casi il bene costituzionalmente protetto
attiene, infatti, alla sopravvivenza fisica dell’esecutato e dei suoi
conviventi; ma la norma denunciata consentirebbe l’aggredibilità
dello stipendio nell’esecuzione non concorsuale, malgrado
l’esclusione dalla massa fallimentare.
Pur non ignorando la giurisprudenza costituzionale (sentenze nn.
209 del 1975, 102 del 1974 e 20 del 1968), il rimettente afferma che
la disposizione in esame contrasta con l’art. 36, primo comma, della
Costituzione: il debitore percepisce un modesto reddito da lavoro che
non gli garantisce di vivere in modo libero e dignitoso, sì che
risulta eccessivamente rigido l’art. 545, quarto comma, del codice di
procedura civile, nella parte in cui stabilisce una quota fissa dello
stipendio ai fini del pignoramento.
2. – È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato,
concludendo per l’infondatezza, anche manifesta, della questione.
Osserva la difesa erariale che analogo dubbio di legittimità
costituzionale è stato dichiarato non fondato con le sentenze nn.
209 del 1975 e 38 del 1970, dal momento che il principio dettato
dall’art. 36 della Costituzione vale a regolare il rapporto di lavoro
nell’ambito suo proprio e non si estende alle conseguenze di eventi
che prescindono da esso; e che appartiene comunque alla
discrezionalità del legislatore il bilanciamento fra le esigenze del
lavoratore e il diritto dei creditori.
La questione non sarebbe fondata pure alla luce del principio di
eguaglianza, rapportato alla normativa fallimentare, perché
sarebbero diverse le situazioni del debitore soggetto ad
espropriazione verso terzi e quella dell’imprenditore per il quale è
in corso procedura fallimentare, in quanto la sentenza dichiarativa
di fallimento lo priva dell’amministrazione e della disponibilità
dei beni (anche futuri) e, quindi, affida al prudente apprezzamento
del giudice la distinzione fra i guadagni da versare alla massa e
quelli da lasciare al fallito. D’altronde, il limite di un quinto –
conclude l’Avvocatura – è tale da consentire il soddisfacimento
delle fondamentali e insopprimibili esigenze di vita.
primo comma, e 36, primo comma, della Costituzione, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice
di procedura civile, censurato nella parte in cui non prevede
l’impignorabilità della quota di retribuzione che, in base alla
valutazione del giudice, è necessaria al mantenimento del debitore e
della sua famiglia.
L’art. 46, numero 2, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267,
sottrae beni e crediti all’attivo fallimentare in misura tale da
assicurare il sostentamento anche al nucleo familiare del debitore,
mentre la disposizione denunciata dispone, in via generale e
indifferenziata, la pignorabilità dello stipendio nei limiti del
quinto: di qui, un trattamento deteriore per il debitore esecutato,
rispetto al fallito, con lesione del principio di eguaglianza. Vi
sarebbe altresì violazione dell’art. 36, primo comma, della
Costituzione, perché la destinazione di una quota fissa dello
stipendio del debitore per il soddisfacimento del credito non
garantisce condizioni di vita libera e dignitosa a colui che
percepisca un modesto reddito da lavoro.
2. – La Corte ha già dichiarato non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice
di procedura civile (sentenze nn. 38 del 1970, 209 del 1975, 102 del
1974 e 20 del 1968), e con riguardo al parametro di cui all’art. 36
della Costituzione ha rilevato, in particolare, che esso regola il
rapporto di lavoro “nell’ambito attinente alla sua conclusione ed
attuazione” e non si estende alle conseguenze di eventi che ne
prescindono. Principio che va oggi ribadito.
In ordine all’art. 3 della Costituzione, questa Corte ha sì
ritenuto l’infondatezza della questione, ma con riferimento ad altri
tertia comparationis: l’art. 514 (sentenza n. 102 del 1974) e l’art.
545, terzo comma, del codice di procedura civile (sentenza n. 38 del
1970), non essendo stato mai evocato, sinora, l’art. 46, primo comma,
n. 2, della legge fallimentare.
3. – Anche sotto tale profilo la questione, tuttavia, non è
fondata.
La dottrina e la giurisprudenza hanno affrontato il problema del
coordinamento fra le due disposizioni, quella censurata e quella
contenuta nel citato art. 46, sostenendo che il giudice delegato ha
un ampio potere nel determinare la quota degli emolumenti spettanti
al fallito non acquisibile all’attivo; e ciò in base al principio di
specialità della normativa fallimentare rispetto alle regole
processuali generali.
In ossequio a questa linea interpretativa, è talvolta accaduto che
lo stipendio sia stato escluso dalla massa fallimentare secondo
quanto deciso dal giudice delegato, e successivamente sia stato
invece aggredito nella misura di un quinto, ai sensi dell’art. 545,
quarto comma, del codice di procedura civile, per il soddisfacimento
di crediti d’imposta. È appena il caso di ricordare che l’esecuzione
singolare può precedere o seguire quella concorsuale: la legge
fallimentare stabilisce, infatti, soltanto il divieto di azioni
esecutive individuali dal giorno della dichiarazione di fallimento a
quello della chiusura (art. 51 della legge fallimentare), sì che
l’evenienza di cui si duole il giudice a quo è da ritenersi
fisiologica.
3.1. – La citata sentenza n. 20 del 1968 ha affermato che l’art.
545 “ha per scopo il contemperamento dell’interesse del creditore con
quello del debitore che percepisca, da un privato, uno stipendio o un
salario”: la legge ha fissato una identica percentuale per tutti i
salariati e gli impiegati, non potendosi sacrificare totalmente il
credito. Tale decisione ha individuato il punto di equilibrio fra i
valori costituzionali coinvolti, nei quali è senza dubbio compresa
la salvaguardia, seppur parziale, degli interessi del creditore, che
– ove in precedenza non soddisfatto – potrà aggredire, dopo la
chiusura del fallimento, anche l’emolumento che, in sede concorsuale,
sia stato escluso dalla massa, in quanto necessario, nella sua
integrità, al sostentamento del debitore e dei suoi familiari. Ma
tale vicenda è destinata a ricomporsi nel sistema: la disposizione
censurata acquista il valore di regola comune e indefettibile,
configurandosi il fallimento come uno strumento volto ad assicurare,
nell’ipotesi del concorso di creditori, la par condicio. Con la
conseguenza della possibilità di una esecuzione singolare, qualora
la pretesa creditoria sia rimasta (in tutto o in parte)
insoddisfatta.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile,
sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 36, primo
comma, della Costituzione, dal pretore di Rovereto con l’ordinanza in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.
Il Presidente e redattore: Guizzi
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 23 dicembre 1997.
Il direttore della cancelleria: Di Paola