Sentenza N. 439 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
16/12/1993
Data deposito/pubblicazione
16/12/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
02/12/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
avv. Massimo VARI;
del codice di procedura penale, in relazione all’art. 248 delle norme
di attuazione, di coordinamento e transitorie approvate con decreto
legislativo 28 luglio 1989, n. 271 ed all’art. 61 del codice di
procedura penale del 1930, promossi con ordinanze emesse il 22
dicembre 1992 dal Tribunale di Modica, il 2 dicembre 1992 dal Pretore
di Napoli – sezione distaccata di Capri, il 26 febbraio 1993 dal
Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di
Roma (n. 4 ordinanze), l’8 febbraio 1993 dal Tribunale di Pordenone,
il 19 marzo 1993 dal Tribunale di Torino ed il 2 aprile 1993 dal
Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Napoli,
rispettivamente iscritti ai nn. 75, 80, 215, 216, 217, 218, 255, 279
e 285 del registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica nn. 9, 10, 20, 24 e 25, prima serie
speciale, dell’anno 1993;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 6 ottobre 1993 il Giudice
relatore Ugo Spagnoli;
richiesta di applicazione di Pena ex artt. 444 e 446 c.p.p. identica
a quella già in precedenza rigettata dallo stesso Tribunale, in
diversa composizione, il Tribunale di Modica ha sollevato, con
ordinanza del 22 dicembre 1992 (r.o. n. 75/1993), una questione di
legittimità costituzionale degli artt. 446 e 34, secondo comma, del
c.p.p. (quest’ultimo, come integrato dalla sentenza di questa Corte
n. 186 del 1992), assumendone il contrasto con gli artt. 25, 97 e 112
della Costituzione.
Il giudice a quo premette, in punto di rilevanza, che il mutamento
di composizione del Collegio era stato determinato
dall’incompatibilità conseguente al rigetto della precedente
richiesta alla stregua della predetta sentenza, e che, in assenza di
norme impeditive, è a suo avviso lecita la riproposizione, anche
nella stessa fase processuale, di una richiesta identica a quella in
precedenza non accolta, attesa anche la natura di negozio processuale
di essa e la possibilità di una diversa valutazione da parte del
nuovo Collegio.
La riproponibilità della richiesta avrebbe però – osserva il
giudice a quo – un effetto condizionante sul nuovo giudice chiamato a
valutarla perché, se anch’esso dovesse ritenere non congrua la pena
richiesta, si riproporrebbe il problema della sua incompatibilità a
giudicare, problema che finirebbe per essere indefinitamente
prospettato ove l’imputato insistesse a riproporre la richiesta
suddetta ai vari giudici di seguito nominati in sostituzione di
quelli che di volta in volta si pronunciassero per il rigetto. Si
determinerebbe, con ciò, una situazione incompatibile con
l’esercizio della giurisdizione, ed in particolare con il principio
del suo buon andamento (art. 97) e con quelli di cui agli artt. 25 e
112 della Costituzione, dato che si consentirebbe all’imputato
d’influire sulla scelta e composizione del giudice naturale fino al
punto di renderle di fatto impraticabili e si finirebbe per
intralciare, fino ad impedirlo di fatto, l’esercizio dell’azione
penale; violazioni che – aggiunge il Tribunale – sarebbero
ravvisabili anche se la nuova richiesta fosse formalmente diversa
perché avente ad oggetto una pena leggermente superiore, potendo
anche in tal caso la strategia processuale dell’imputato dar luogo ad
una serie indefinita di situazioni di incompatibilità.
1.1. – Una questione analoga, riferita però agli artt. 34 e 444
c.p.p. – in relazione all’art. 248 delle relative disposizioni di
attuazione (decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) – nonché
all’art. 61 c.p.p. del 1930, è stata sollevata, in un procedimento
disciplinato da quest’ultimo codice, dal Tribunale di Pordenone con
ordinanza dell’8 febbraio 1993 (r.o. n. 255/1993) emessa a seguito
del rigetto di una richiesta di applicazione di pena concordata.
In ordine alla propria incompatibilità a procedere al
dibattimento (cfr. sentenza cit.), il Tribunale osserva che da essa
deriverebbe un’irragionevole limitazione all’esercizio della
giurisdizione – se non la sua impossibilità, specie negli uffici con
organico ridotto – dato che la richiesta di applicazione di pena
potrebbe essere nuovamente formulata avanti al diverso giudice, che a
sua volta, potrebbe di nuovo respingerla e così di seguito, senza
limiti: donde l’asserita violazione dell’art. 3 nonché – senza
specifica motivazione – dell’art. 24 della Costituzione.
1.2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che le
predette questioni ( sub 1 e 1.1.) siano dichiarate infondate,
osservando che la situazione denunciata, pur se può comportare, in
casi limite, il rischio di una disfunzione nello svolgimento del
processo, non viola alcuna disposizione costituzionale.
2. – Con quattro ordinanze di identico tenore emesse all’udienza
preliminare del 26 febbraio 1993 (r.o. nn. 215, 216, 217 e 218/1993),
il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare
di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, una questione di legittimità costituzionale dell’art.
34, secondo comma, c.p.p., nella parte in cui non prevede
l’incompatibilità a partecipare al giudizio abbreviato del giudice
dell’udienza preliminare che abbia rigettato la richiesta di
applicazione di pena concordata di cui all’art. 444 dello stesso
codice.
Premesso che nei casi di specie tale richiesta era stata respinta
per la ritenuta incongruità della pena e che poi gli imputati, con
il consenso del pubblico ministero, avevano chiesto procedersi con
rito abbreviato, il giudice rimettente osserva che se – in base alla
citata sentenza n. 186 del 1992 – il rigetto della richiesta di
applicazione di pena concordata costituisce “valutazione di merito
circa l’idoneità delle risultanze delle indagini preliminari a
fondare un giudizio di responsabilità dell’imputato”, tale da
determinare l’incompatibilità del giudice del dibattimento, alla
medesima conclusione dovrebbe pervenirsi nel caso in esame. Infatti –
come questa Corte ha affermato nella sentenza n. 401 del 1991 – la
locuzione “giudizio” “è di per sé tale da ricomprendere qualsiasi
tipo di giudizio, cioè ogni processo che in base ad un esame delle
prove pervenga ad una decisione di merito, compreso quello che si
svolge con il rito abbreviato”. Il rigetto della richiesta, inoltre,
presuppone la valutazione di inesistenza delle condizioni
legittimanti il proscioglimento ex art. 129 c.p.p., e la decisione
già adottata circa l’entità della pena, ritenuta incongrua, sarebbe
tale da pregiudicare l’imparzialità del giudice nel successivo
giudizio.
2.1. – La mancata previsione dell’incompatibilità a procedere a
giudizio abbreviato del giudice per le indagini preliminari che abbia
rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata per la
ritenuta incongruità di questa è denunciata anche, con ordinanza
del 2 aprile 1993 (r.o. n. 285/1993), dal Giudice per le indagini
preliminari presso la Pretura di Napoli: il quale rileva che in tal
caso è stata già compiuta una valutazione non solo di legittimità
ma anche di merito dei fatti oggetto del giudizio e che perciò – in
raffronto con altre ipotesi nelle quali questa Corte ha ritenuto
sussistente l’incompatibilità (sentenze nn. 496 del 1990; 401 e 502
del 1991; 124 del 1992) – la mancata previsione di questa darebbe
luogo ad una disparità di trattamento di situazioni analoghe (art.
della Costituzione).
3. – In un procedimento a carico di due imputate rinviate a
giudizio come concorrenti nei medesimi reati, il Tribunale di Torino,
dovendo procedere al dibattimento nei confronti dell’una dopo che per
l’altra aveva – previa separazione dei giudizi – rigettato la
richiesta di applicazione di pena concordata per la ritenuta
incongruità di questa e non concedibilità della sospensione
condizionale della pena, ha sollevato, con ordinanza del 19 marzo
1993 (r.o. n. 279/1993), una questione di legittimità costituzionale
del citato art. 34, secondo comma, c.p.p. , ravvisando una violazione
degli artt. 3, 25 e 101 della Costituzione nella mancata previsione
dell’incompatibilità anche in tale ipotesi.
Ad avviso del Tribunale, la valutazione di merito operata nei
confronti del richiedente l’applicazione di pena implica
necessariamente una valutazione di merito nei confronti degli altri
imputati concorrenti negli stessi reati: ond’è che costoro
riceverebbero un trattamento deteriore rispetto a chi sia giudicato
da un giudice che non abbia già espresso una siffatta valutazione e
sarebbe violata la posizione di imparzialità del giudice garantita
dai principi di precostituzione per legge del giudice naturale e di
indipendenza del medesimo.
3.1. – Nei giudizi cui ai parr. 2, 2.1. e 3 il Presidente del
Consiglio dei ministri non è intervenuto.
4. – Dovendo procedere al dibattimento per un reato di falsa
testimonianza che sarebbe stato commesso, secondo l’accusa, in un
precedente dibattimento da lui stesso celebrato, il Pretore di Napoli
– sezione distaccata di Capri, ha sollevato d’ufficio, con ordinanza
del 2 dicembre 1992 (r.o. n. 80/1993), una questione di legittimità
costituzionale dell’art. 34 c.p.p., nella parte in cui per tale
ipotesi non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio.
Pur premettendo di non avere, in esito al precedente procedimento,
ottemperato alla richiesta del pubblico ministero di trasmissione
degli atti al proprio ufficio – ond’è che il procedimento per la
falsa testimonianza aveva tratto origine dal sequestro del verbale di
dibattimento disposto dopo l’udienza dello stesso pubblico ministero
– il Pretore rimettente osserva che l’art. 207, secondo comma, c.p.p.
– prevedendo che la trasmissione degli atti a quest’ultimo sia
disposta dal giudice se, definendo la fase processuale in cui il
testimone ha prestato il suo ufficio, “ravvisa indizi del reato” di
falsa testimonianza – attribuisce al giudice medesimo un potere-dovere di valutazione di tali deposizioni. A suo avviso,
l’attribuzione di tale potere (comunque esercitato), dovrebbe
comportare l’incompatibilità a giudicare della falsità della
testimonianza, pena la violazione del principio di terzietà del
giudice desumibile, per il giudizio pretorile, dalla direttiva n. 103
della legge delega, nonché degli artt. 25 e 101 della Costituzione,
per il sospetto che la valutazione precostituita richiesta dall’art.
207 mini l’indipendenza ed imparzialità del giudice.
4.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che la
predetta questione sia dichiarata non fondata, osservando che la
trasmissione degli atti al pubblico ministero “perché proceda a
norma di legge” non è altro che la specificazione del generale
obbligo di denunzia posto a carico dei pubblici ufficiali e non
comporta alcun “giudizio sul merito della res iudicanda” suscettibile
di minare l’imparzialità del giudizio sulla responsabilità
dell’imputato.
medesima disposizione di legge. È perciò opportuno che siano
riuniti e decisi con un’unica sentenza.
2. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Modica
dubita che gli artt. 34, secondo comma e 446 del codice di procedura
penale – il primo così come integrato dalla sentenza di questa Corte
n. 186 del 1992 – contrastino con gli artt. 25, 97 e 112 della
Costituzione, in quanto consentirebbero di reiterare indefinitamente,
dopo che sia stata rigettata, la stessa richiesta di applicazione di
pena (ovvero di richiedere di volta in volta l’applicazione di una
leggermente superiore) e perciò permetterebbero all’imputato, in
ragione dell’incompatibilità conseguente al rigetto, di influire
sulla scelta e composizione del qiudice naturale e di intralciare
l’esercizio dell’azione penale ed il buon andamento
dell’amministrazione della giustizia.
Il Tribunale di Pordenone, a sua volta, prospetta una questione
analoga, riferita però agli artt. 34 e 444 c.p.p. – in relazione
all’art. 248 delle relative disposizioni di attuazione (decreto
legislativo 28 luglio 1989, n. 271) – nonché all’art. 61 c.p.p. del
1930, opinando che dall’incompatibilità a procedere al dibattimento
conseguente al rigetto della richiesta di applicazione di pena
concordata conseguirebbe, per l’indefinita reiterabilità di questa
dinnanzi al nuovo giudice, un’irragionevole limitazione all’esercizio
della giurisdizione, con violazione degli artt. 3 e 24 della
Costituzione.
2.1. – Le questioni non sono fondate.
I giudici a quibus censurano, nella sostanza, la previsione di
incompatibilità alla celebrazione del giudizio in caso di rigetto
della richiesta di applicazione della pena concordata introdotta con
la sentenza n. 186 del 1992 di questa Corte, ponendo in luce le
paradossali conseguenze che da essa deriverebbero in caso di
indefinita reiterazione della medesima richiesta innanzi ad ognuno
dei collegi di volta in volta costituiti. Ma tale censura sarebbe
degna di considerazione solo ove se ne riconoscesse fondato il
presupposto interpretativo, e cioè che sia ammissibile la
reiterazione indefinita della medesima richiesta di patteggiamento.
Tale assunto non può, però, essere condiviso: innanzitutto,
perché – come lo stesso Tribunale di Modica riconosce – esso è
smentito dalla Corte di cassazione, la quale ammette bensì che le
richieste possano essere reiterate, anche nella stessa fase, ma solo
se abbiano contenuto diverso; ed inoltre, perché gli argomenti
addotti in contrario dai giudici a quibus non sono affatto
persuasivi.
In effetti, se dovesse valere quello dell’assenza di norme
impeditive, se ne dovrebbe concludere che, anche prima del
riconoscimento dell’incompatibilità per l’ipotesi in esame, era
consentito riproporre indefinitamente allo stesso giudice la
richiesta già da questo rigettata e così impedire la celebrazione
del dibattimento. Né potrebbe opporsi che la reiterazione è
ammissibile nell’uno e non nell’altro caso in quanto il nuovo giudice
potrebbe pervenire ad una diversa valutazione della richiesta, dato
che la reiterabilità, in linea di principio, della richiesta di
applicazione di pena concordata fino a quando non sia scaduto il
termine previsto dall’art. 446, primo comma, c.p.p., consentirebbe in
astratto anche allo stesso giudice di mutare la propria decisione. La
dedotta natura di negozio processuale della richiesta di
patteggiamento, infine, non giova a dimostrare che possa ammettersene
la riproposizione nei medesimi termini.
È da ritenere, perciò, che il potere di proporre utilmente una
determinata richiesta si esaurisca con la pronuncia su di essa e non
riviva sol perché, proprio in ragione di tale vicenda, un nuovo
giudice è chiamato ad esaminare il merito del processo. Restano
quindi prive di base le censure avanzate dai giudici remittenti; né
può valere ad avvalorarle la considerazione dell’ipotesi di
prospettazione innanzi al nuovo giudice (non della stessa, ma) di una
richiesta di applicazione di una pena leggermente superiore, dato che
una pronuncia su questa diversa fattispecie non sarebbe rilevante nei
giudizi a quibus.
3. – I giudici per le indagini preliminari presso il Tribunale
militare di Roma e la Pretura di Napoli dubitano, a loro volta, della
legittimità costituzionale del medesimo art. 34, secondo comma – in
riferimento, rispettivamente, agli artt. 3 e 24 ed all’art. 3 della
Costituzione – nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a
partecipare al giudizio abbreviato del giudice per le indagini
preliminari che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena
concordata di cui all’art. 444 dello stesso codice.
3.1. – La questione è fondata.
Con la citata sentenza n. 186 del 1992 – corretta con l’ordinanza
n. 313 dello stesso anno – è stata dichiarata l’illegittimità
costituzionale della predetta norma “nella parte in cui non prevede
l’incompatibilità del giudice del dibattimento che abbia rigettato
la richiesta di applicazione di pena concordata di cui all’art. 444
dello stesso codice a partecipare al giudizio” (cfr. anche, nello
stesso senso, le sentenze nn. 124 e 399 del 1992). Ciò posto, deve
considerarsi, da un lato, che con le sentenze nn. 401 del 1991 e 261
del 1992 si è chiarito che nell’art. 34, secondo comma, la locuzione
“giudizio” è da intendere come comprensiva anche del giudizio
abbreviato: dall’altro, che – per le ragioni illustrate nelle sopra
dette sentenze – il rigetto della richiesta di patteggiamento
comporta una valutazione sul merito della res iudicanda idonea a
radicare l’incompatibilità al giudizio, e che non può farsi
differenza a seconda che il rigetto sia disposto dal giudice
dibattimentale ovvero dal giudice per le indagini preliminari.
L’illegittimità costituzionale va perciò dichiarata anche per il
caso qui considerato.
4. – Il Tribunale di Torino, poi, dubita che lo stesso art. 34,
secondo comma, contrasti con gli artt. 3, 25 e 101 della
Costituzione, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del
giudice del dibattimento, che ha rigettato la richiesta di
applicazione di pena avanzata da uno degli imputati, a partecipare al
giudizio nei confronti dei coimputati concorrenti negli stessi reati,
dato che in tal modo questi riceverebbero un trattamento deteriore e
sarebbe compromessa la posizione di imparzialità del giudice
garantita dai principi di precostituzione per legge del giudice
naturale e di indipendenza del giudice.
4.1. – La questione non è fondata.
Nella già citata sentenza n. 186 del 1992 questa Corte ha escluso
che l’emissione di una sentenza di applicazione di pena concordata
nei confronti di un coimputato determini incompatibilità a celebrare
il giudizio nei confronti dei concorrenti negli stessi reati: ciò
perché il necessario presupposto di questa, e cioè l’identità
dell’oggetto del giudizio, “non è .. ravvisabile nell’ipotesi di
concorso di persone nel medesimo reato, perché alla comunanza
dell’imputazione fa necessariamente riscontro una pluralità di
condotte distintamente ascrivibili a ciascuno dei concorrenti, le
quali, ai fini del giudizio di responsabilità, devono formare
oggetto di autonome valutazioni sotto il profilo tanto materiale che
psicologico, e ben possono, quindi, sfociare in un accertamento
positivo per l’uno e negativo per l’altro”.
Tale diversità della regiudicanda sussiste, evidentemente, anche
in caso di rigetto della richiesta di applicazione di pena
concordata, ond’è che deve pervenirsi alla medesima conclusione.
5. – Il Pretore di Napoli – sezione distaccata di Capri, dubita,
infine, che l’art. 34 c.p.p. contrasti con gli artt. 76, 25 e 101
della Costituzione, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità
a giudicare della falsa testimonianza da parte del giudice che,
ravvisando indizi di tale reato (art. 207 c.p.p.), abbia provveduto a
trasmettere i relativi atti all’ufficio del pubblico ministero.
5.1. – La questione è inammissibile per difetto di rilevanza,
dato che nel caso in esame la valutazione che dovrebbe radicare
l’incompatibilità e cioè l’avere il giudice ravvisato indizi del
reato di falsa testimonianza, non è stata effettuata ed anzi il
giudice ha disatteso la richiesta del pubblico ministero di
trasmettere per tale motivo gli atti al suo ufficio; né può certo
sostenersi che, ai fini in esame, siffatta ipotesi equivalga al suo
opposto.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi:
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, secondo
comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede
l’incompatibilità a partecipare al giudizio abbreviato del giudice
per le indagini preliminari che abbia rigettato la richiesta di
applicazione di pena concordata di cui all’art. 444 dello stesso
codice;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 34, secondo comma, e 446 del codice di procedura penale,
in riferimento agli artt. 25, 97 e 112 della Costituzione, sollevata
dal Tribunale di Modica con l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 34 e 444 del codice di procedura penale – in relazione
all’art. 248 delle norme di attuazione, di coordinamento e
transitorie approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271
ed all’art. 61 del codice di procedura penale del 1930 – sollevata,
in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di
Pordenone con l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale, in
riferimento agli artt. 3, 25 e 101 della Costituzione, sollevata dal
Tribunale di Torino con l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale, in
riferimento agli artt. 76, 25 e 101 della Costituzione, sollevata dal
Pretore di Napoli – sezione distaccata di Capri, con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 dicembre 1933.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: SPAGNOLI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 16 dicembre 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA