Sentenza N. 440 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
16/12/1993
Data deposito/pubblicazione
16/12/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
02/12/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, prof. Luigi MENGONI, prof.
Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.
Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, avv. Massimo VARI;
comma, ultima parte, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza), promosso con ordinanza
emessa il 19 giugno 1992 dal Tribunale Amministrativo Regionale della
Calabria sul ricorso proposto da Raffaele Luca contro il Prefetto di
Catanzaro e, per esso, Ministero dell’Interno, iscritta al n. 26 del
registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 1993;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 6 ottobre 1993 il Giudice
relatore Giuliano Vassalli;
della Calabria – Sede di Catanzaro per l’annullamento del decreto 12
marzo 1991 con il quale il Prefetto di Catanzaro aveva respinto
l’istanza per il rilascio di licenza di porto di pistola avanzata dal
ricorrente.
Con ordinanza del 19 giugno 1992, il detto Tribunale
Amministrativo Regionale ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,
24 e 97, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità
dell’art. 11, secondo comma, ultima parte, del regio decreto 18
giugno 1931, n. 773, a norma del quale le autorizzazioni di polizia
sono negate, fra l’altro, “a chi non può provare la sua buona
condotta”. Premesso che la richiesta licenza non era stata, nella
specie, concessa perché, in presenza di una querela per lesioni
personali proposta contro l’interessato, costui – nonostante avesse
presentato il certificato di “buona condotta” del Sindaco del Comune
di residenza e l’estratto del casellario giudiziario – non aveva
potuto provare la sua buona condotta, il giudice a quo osserva, in
punto di rilevanza, che, “per quanto evidenziato in separata
sentenza”, l’implicito riferimento alla norma denunciata “sembra
essere la sola ragione di legittimità del provvedimento impugnato”,
così da determinare la soccombenza del ricorrente.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il Tribunale rileva che il
precetto di cui si contesta la legittimità, con l’esigere da chi
richiede un’autorizzazione di polizia “una generica prova di buona
condotta”, fa gravare sullo stesso richiedente “una presunzione di
cattiva condotta”, non prevista nell’ambito di analoghi procedimenti
autorizzator/’ e concessor/’, nei quali la preventiva indicazione di
dati ostativi al rilascio di provvedimenti domandati esclude che
l’amministrato possa essere gravato dell’onere di provare una
qualità soggettiva che, invece, “dovrebbe essere ritenuta
sussistente fino a prova contraria”: e ciò con conseguente
compromissione del principio di eguaglianza sotto il profilo della
pari dignità di tutti i cittadini.
Questa difformità dal precetto dell’art. 3 della Costituzione
rileverebbe – secondo l’ordinanza del giudice a quo – anche se l’art.
11, secondo comma, ultima parte, del testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza venisse interpretato nel senso che il detto onere
farebbe carico all’interessato solo in presenza di “indizi contrari
riscontrati dall’Amministrazione”, perché comunque l’interesse
pubblico potrebbe essere garantito col conservare all’autorità
decidente ampia potestà deliberativa, “consentendo le preventive e
necessarie indagini nei confronti dei richiedenti”.
Sarebbe, inoltre, vulnerato il diritto di difesa per l’eccessiva
genericità del precetto denunciato, tale da “vanificare o comunque
rendere ardua”, la prova in giudizio della propria buona condotta.
Più in particolare, di fronte ad una denuncia o querela, si
renderebbe indispensabile l’esercizio di potestà investigative non
pertinenti al tipo di contenzioso nella specie instaurato.
Un epilogo ineluttabile anche ove volesse porsi a carico della
amministrazione “la prova della buona condotta”. Anzi, se si seguisse
una tale linea interpretativa risulterebbe violato pure l’art. 97,
primo comma, della Costituzione, perché la ricerca “dei
comportamenti difformi resterebbe libera di addentrarsi nel
metagiuridico e di riflettere, in conseguenza, le opinioni personali
e l’esperienza sociale dei titolari della potestas decidendi”.
2. – L’ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 5, prima serie speciale, del 3
febbraio 1993.
3. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
L’Avvocatura fa, in particolare, riferimento a quella
giurisprudenza amministrativa che impone all’autorità decidente di
esporre le ragioni sulla base delle quali è pervenuta ad un giudizio
negativo, comunque sindacabili dal giudice quanto alla fondatezza dei
suoi presupposti.
di Catanzaro dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della
Costituzione, della legittimità dell’art. 11, secondo comma, ultima
parte, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, a norma del quale le
autorizzazioni di polizia possono essere negate “a chi non può
provare la sua buona condotta”. Il principio di eguaglianza
risulterebbe vulnerato esigendosi da coloro che richiedono
un’autorizzazione di polizia una generica prova di buona condotta,
così gravandoli “di una presunzione di cattiva condotta” che non
trova, invece, riscontro in analoghi procedimenti autorizzator/’ o
concessor/’; e ciò pure ove si interpreti la norma denunciata nel
senso che il detto onere sussiste solo in presenza di indizi contrari
riscontrati dall’amministrazione.
Sarebbe violato, inoltre, il diritto di difesa per l’eccessiva
genericità del precetto censurato che vanificherebbe o renderebbe
estremamente ardua la prova della propria buona condotta, in quanto
implicherebbe spesso la necessità di indagini improprie rispetto al
contenzioso giurisdizionale amministrativo.
Resterebbe, infine, compromesso il principio di imparzialità e
buon andamento della pubblica amministrazione perché, pure ove si
volesse porre a carico dell’autorità amministrativa la prova della
buona condotta, l’assenza, sul punto, di indicazioni legislative
comporterebbe l’affidamento all’esperienza sociale ed alle opinioni
personali dei titolari della potestas decidendi la determinazione
dell’esistenza o no di tale requisito.
2. – Per una migliore puntualizzazione, anche quanto alla
rilevanza, della questione occorre premettere che – come risulta dal
provvedimento introduttivo del giudizio incidentale – il giudice a
quo, investito di un ricorso avverso un decreto prefettizio con il
quale era stato negato al ricorrente il rilascio della licenza di
porto di pistola perché “il richiedente risulta essere stato
denunciato per lesioni personali volontarie e tenuto conto che già
il padre e il fratello, contitolari della stessa azienda, sono
titolari della licenza di porto di pistola, non si ritiene che abbia
necessità di andare armato”, ha pronunciato nella camera di
consiglio del 19 ottobre 1992 due distinti provvedimenti. Una
“sentenza interlocutoria” con la quale, dopo aver censurato
l’illegittimità del decreto prefettizio per la parte relativa alla
titolarità della licenza da parte dei parenti del ricorrente, ha
sospeso il giudizio e rinviato “gli atti alla Corte costituzionale
come da separata ordinanza”; un’ordinanza, appunto l’ordinanza di
rimessione, perché venisse decisa la questione di legittimità ora
sottoposta al vaglio della Corte, così operando – con modalità
alquanto atipiche – una netta separazione tra l’atto produttivo
dell’effetto sospensivo (la sentenza interlocutoria) e l’atto
produttivo dell’effetto rimessivo (l’ordinanza con la quale è stato
instaurato l’attuale giudizio incidentale).
Il tutto al fine evidente di delimitare l’ambito del devolutum
alla sola parte del decreto reiettivo concernente la buona condotta,
anche se, per la verità, nessun effetto demolitorio – sia pure
parziale – è conseguito dalla sentenza contestualmente pronunciata,
recante soltanto nella motivazione la dichiarazione di fondatezza
della censura riguardante l’addotta titolarità della licenza da
parte del padre e del fratello.
La Corte è, quindi, chiamata a decidere solo in merito alla
legittimità dell’art. 11, secondo comma, ultima parte, del testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza per la parte in cui statuisce
che, “Le autorizzazioni di polizia possono essere negate .. a chi non
può provare la sua buona condotta”.
3. – L’Avvocatura Generale dello Stato, nel suo atto di intervento
per il Presidente del Consiglio dei ministri, ha domandato il rigetto
della questione; e ciò perché nessuna violazione degli invocati
parametri costituzionali sarebbe ipotizzabile in quanto l’autorità
amministrativa decidente è sempre tenuta ad esporre le specifiche
ragioni sulla base delle quali è pervenuta ad un giudizio negativo e
che sono comunque sindacabili dal giudice amministrativo, verificando
sia la fondatezza dei presupposti sia le scelte operate
dall’autorità decidente.
Tali rilievi, pur risultando pertinenti, alla stregua di un
costante indirizzo giurisprudenziale, si incentrano, peraltro, su
tipologie di provvedimenti autorizzator/’ diversi da quello oggetto
del giudizio a quo, riguardante non una qualsiasi autorizzazione
amministrativa (di polizia), ma uno specifico provvedimento
permissivo quale è la “licenza di portare le armi”. Ed è piuttosto
singolare che né il rimettente né l’Avvocatura Generale dello Stato
abbiano evocato la specifica disposizione riguardante tale tipo di
autorizzazione, vale a dire l’art. 43 del testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza del 1931 che, dopo aver richiamato la norma adesso
impugnata (“Oltre a quanto è stabilito dall’art. 11”) ed aver
individuato le situazioni comunque preclusive all’assenso ad un
provvedimento autorizzatorio (primo comma, lettere a, b, e c),
stabilisce al suo ultimo comma: “La licenza può essere ricusata ai
condannati per delitti diversi da quelli sopra menzionati e a chi non
può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non
abusare delle armi” (una situazione, quest’ultima, rilevante, alla
stregua dell’art. 39 dello stesso testo unico, anche in relazione
alla mera detenzione di armi denunciate). Un ulteriore specifico
presupposto per la concedibilità della licenza è stabilito, poi,
dall’art. 42 del testo unico, che subordina l’esercizio della
“facoltà del prefetto” di adottare il provvedimento permissivo al
“dimostrato bisogno” dell’interessato: disposizione che pure il
giudice a quo ha avuto occasione di prendere in esame all’atto della
pronuncia della sentenza interlocutoria la cui motivazione ha
contestato, sul punto, le determinazioni prefettizie.
Va aggiunto, ancora, sempre al fine di rimarcare la specificità
della materia in questione, che l’art. 8 della legge 18 aprile 1975,
n. 110, recante norme integrative della disciplina vigente per il
controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi, stabilisce,
fra l’altro, che il “permesso di porto d’armi” è subordinato
all’ulteriore requisito “della capacità tecnica del richiedente”, da
accertarsi attraverso apposito esame (quarto comma dello stesso art.
8).
Di fronte al quadro normativo ora ricordato il semplice appello al
disposto dell’art. 11 del testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza non si rivela, però, insufficiente ai fini della
valutazione della questione proposta dal giudice a quo. Considerata,
infatti, la testuale riproduzione del requisito della prova della
buona condotta nell’art. 43, la questione incentrata sull’ultima
parte dell’ultimo comma dell’art. 11, che è disposizione dettata in
via generale per tutte le autorizzazioni di polizia, appare
ammissibile. D’altro canto, il richiamo alla “separata sentenza”, che
aveva censurato il provvedimento prefettizio proprio in relazione
alla sussistenza delle condizioni richieste dall’art. 39 del testo
unico, sta a comprovare come, nonostante l’esclusiva formale
impugnazione dell’art. 11, il giudice a quo abbia inteso riferirsi al
detto articolo in quanto integrato dall’art. 43.
4. – La questione è fondata.
Anche a prescindere dal contesto storico in cui la buona condotta
viene ad assumere specifiche connotazioni e conseguenti specifici
significati giuridici, caratteristica pressoché immanente di tale
requisito è il suo valore sintomatico relativamente ad un modo di
essere soggettivo, in funzione non di una statuizione avente il fine
di reprimere comportamenti rilevanti per il passato ma in vista di
prevenire il futuro presumibile atteggiarsi della persona a cui i
comportamenti si riferiscono. Il tutto con riguardo sia al
conferimento di posizioni altrimenti oggetto di divieto sia al
riconoscimento di condizioni di legittimazione per l’accesso a
situazioni giuridiche variamente previste dalla legge ma sempre
dirette a far conseguire all’interessato un ampliamento –
genericamente inteso – della sua sfera giuridica.
Con il che resta previamente delimitato il tema del decidere,
occorrendo escludere ogni affinità, pure sul piano dei criteri
interpretativi da utilizzare allo scopo di definire la nozione in
esame, quelle previsioni in cui – nonostante l’identità del lessico
talvolta adottato – la buona condotta assume un diverso e meno
generico valore designante. Per esemplificare, è il caso, in primo
luogo, della rilevanza della buona condotta – o di nozioni rispetto
ad essa pressoché equivalenti – quale presupposto per il venir meno
di effetti di diritto penale sostanziale. A parte situazioni
direttamente tipizzate dal legislatore in funzione di un
atteggiamento futuro, ma valutabili anche in relazione ai trascorsi
dell’interessato (si pensi alla prognosi di non recidività di cui
agli artt. 164, primo comma, e 169, primo comma, del codice penale,
ai fini, rispettivamente, della concessione della sospensione
condizionale della pena e del perdono giudiziale, norme che,
peraltro, richiamando entrambe l’art. 133 dello stesso codice,
assegnano rilievo non secondario anche alle condizioni di cui al
secondo comma di tale articolo), pare interessante ricordare come la
nozione di buona condotta rilevi in un ambito descrittivo
sufficientemente precisato in relazione alle cause di estinzione
della pena. Trascurando il comportamento tale da far ritenere sicuro
il ravvedimento del condannato richiesto dall’art. 176 del codice
penale ai fini della liberazione condizionale (prima della sua
sostituzione ad opera dell’art. 2 della legge 25 novembre 1962, n.
1634, l’art. 176 richiedeva “prove costanti di buona condotta”), la
nozione in esame ricorre espressamente quale presupposto della
riabilitazione, concedibile soltanto al condannato che “abbia dato
prove effettive e costanti di buona condotta” (art. 179, primo comma,
del codice penale); ma le esigenze teleologiche alla base
dell’istituto consentono univocamente di riferire al ravvedimento del
riabilitando e, quindi, ad una condizione di sicura verifica, la formula utilizzata. Direttamente collegato, poi, a fatti-reato è
l’istituto della cauzione di buona condotta prevista dall’art. 237
del codice penale, una espressione chiaramente tralaticia e comunque
non connessa al conseguimento di condizioni di favore.
In secondo luogo, solo apparenti affinità con quella prevista
dalla norma denunciata hanno quelle situazioni, ipotizzate dal
legislatore, ove la buona condotta acquista una designazione ancor
più specifica in quanto ragguagliata ad un microsistema nel quale il
comportamento – genericamente valutabile in rapporto all’accesso a
determinati benefici – assume rilevanza significativa e connotati di
assoluta tipicità proprio in rapporto alla posizione rivestita
dall’interessato. Ci si riferisce, più in particolare, sia alle
“norme di condotta” dei detenuti e degli internati indicate sin dalla
intitolazione dell’art. 32 dell’Ordinamento penitenziario (legge 26
luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), sia agli artt. 30-ter, commi 1 e 8, e 56 del suddetto Ordinamento penitenziario per la
specifica menzione della “regolare condotta” ai fini dell’ottenimento
di “permessi-premio” e “della remissione del debito per le spese di
procedimento e di mantenimento”. Il fenomeno, infatti, si giustifica
in forza di un particolare status che impone, in relazione alle
esigenze del trattamento, un tipo determinato di contegno che solo
sulla base di valutazioni elastiche, collegate alle esigenze
teleologiche proprie di quell’ordinamento, è in grado di assegnare
un ruolo esponenziale ad un modo di essere di altrimenti difficile
definizione. Considerazioni non dissimili potrebbero essere fatte per
quell’altro microsistema che è rappresentato dalle misure di
prevenzione, dove “la condotta e il tenore di vita” figurano tra i
presupposti per l’adozione di dette misure (art. 1, n. 2, della legge
27 dicembre 1956, n. 1423, e successive modificazioni).
5. – Il requisito della “buona condotta”, evocato dalla decisione
del giudice rimettente sotto il profilo attinente alla prova della
sua esistenza in capo all’interessato, rappresenta la base per vari
giudizi di affidabilità devoluti all’autorità amministrativa e,
come tale, non può essere giudicato in sé stesso lesivo di quei
principi di ragionevolezza ai quali ogni ordinamento è tenuto ad
ispirarsi. Tuttavia la latitudine di apprezzamento che a tale
requisito è connessa esige, per non confliggere con inderogabili
esigenze di determinatezza e perché sia evitato il pericolo di
sconfinare nell’arbitrio, una specificazione finalistica, riferita
cioè alle particolari esigenze che l’accertamento deve soddisfare
per le finalità correlate con il tipo di abilitazione o di
autorizzazione richiesta. Questo bisogno di evitare ogni genericità
ha portato l’ordinamento successivo alla Costituzione ora a forme di
obsolescenza di concetti precedentemente ricorrenti nelle leggi ed
ora, più radicalmente, alla eliminazione del requisito stesso della
“buona condotta” da quei settori nei quali esso si poneva con
caratteri apparsi incompatibili con l’accesso a posizioni che per
criteri di eguaglianza e pari dignità debbono poter essere ottenute
sulla base di condizioni chiare ed oggettivamente determinabili.
L’esempio più tipico di questo secondo tipo di trasformazione appare
rappresentato dalla legge 29 ottobre 1984, n. 732, che ha stabilito
che “ai fini dell’accesso agli impieghi pubblici non può essere
richiesto o comunque accertato il possesso del requisito della “buona
condotta””, così esplicitamente abrogando il n. 3 dell’art. 2 del
testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati
civili dello Stato (d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3), che tale requisito
aveva mutuato dall’art. 3 del r.d. 24 novembre 1908, n. 756:
“regolare condotta” da accertarsi dall’amministrazione “con tutti i
mezzi di cui dispone” e in ogni caso sorretta dal “certificato di
buona condotta”. Si trattò indubbiamente di una innovazione molto
importante, sia per l’eliminazione della fonte di una
discrezionalità ritenuta troppo ampia in quanto legata ad un
giudizio dai margini piuttosto indeterminati, sia per i numerosi
riverberi sulla vigenza di precetti espressamente o implicitamente
richiamanti la norma abrogata. Ed è noto che a tale innovazione ha
fatto séguito, su un piano più generale, l’eliminazione, avvenuta
con l’art. 64, lett. c), del nuovo Ordinamento delle autonomie locali
(legge 8 giugno 1990, n. 142), dello stesso certificato comunale di
buona condotta, già previsto dall’art. 7 del testo unico della legge
comunale e provinciale del 1934 (r.d. 3 marzo 1934, n. 383).
Quanto alla caducazione per desuetudine o per incompatibilità con
i principi costituzionali (ritenuta nella pratica amministrativa e
giudiziaria senza la formulazione di questioni di illegittimità) di
altri riferimenti legislativi alla buona condotta contenuti in leggi
anteriori alla Costituzione, basterebbe ricordare tutti i casi nei
quali si erano venuti aggiungendo al requisito stesso altri attributi
specifici, o dati di qualificazione, dal dubbio contenuto:
segnatamente quelli della “buona condotta civile, morale e politica”.
Una legislazione caratterizzata da un alto numero di previsioni, che
ha contribuito ad aumentare, nonostante l’apparente specificazione,
il relativismo proprio della nozione (specie per quanto attiene alla
buona condotta morale) o l’anticostituzionale discriminazione tra
cittadini (per quanto attiene alla buona condotta politica).
E tuttavia il requisito della buona condotta è stato richiesto
ancora in disposizioni contenute in leggi recenti o persino
recentissime, come quelle relative all’autorizzazione, alla
coltivazione, produzione di sostanze stupefacenti o psicotrope (art.
17, secondo comma, della legge 22 dicembre 1975, n. 685, riprodotto
nel testo unico d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) o quelle relative
all’apertura di autoscuole (art. 123, quinto comma, del decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285, con il quale è stato approvato
il “nuovo codice della strada”). Né possono ritenersi espunte dalla
legislazione le norme che esigono la buona condotta per le
autorizzazioni di polizia, tra le quali rientra quella denunciata;
che anzi alcuni ritengono che tra gli argomenti adducibili in favore
della loro vigenza sia da annoverarsi proprio quello ricavabile
dall’avvenuta eliminazione del requisito della buona condotta per
l’accesso ai pubblici impieghi.
Non pare dubbio, comunque, che la permanenza in vita di
disposizioni emanate antecedentemente all’entrata in vigore della
Costituzione che rispetto a pretese giuridiche dei privati richiedono
il requisito della buona condotta, se e comunque qualificata, è
legata ad una interpretazione del requisito in questione
particolarmente attenta ai valori costituzionali. E se, di norma, non
si sono ancora verificati immediati effetti caducator/’, una delle
ragioni è da ravvisarsi nell’esistenza della tutela giurisdizionale
delle pretese stesse nei confronti della pubblica amministrazione,
tutela garantita dall’art. 113 della Costituzione, al quale la
giurisdizione amministrativa ha fatto ampio ricorso al fine di
realizzare in concreto il sindacato dell’azione amministrativa.
6. – I sommari accenni che precedono, se comprovano come l’estrema
varietà dei criteri in grado di pervenire ad un’operazione di
riempimento e di conseguente tipizzazione del requisito della buona
condotta talora implica l’insorgere di zone di assoluta incertezza
quanto alla verifica dei parametri sui quali la pubblica
amministrazione deve attestarsi nel valutare la sussistenza del detto
requisito, divengono peraltro decisivi quando si tratti di
riscontrare la conformità alla Costituzione delle norme che, ai fini
del riconoscimento di pretese di soggetti astrattamente legittimati,
non soltanto richiedono la buona condotta ma addossano al privato
l’onere di provare l’esistenza di tale requisito.
Diviene, infatti, intrinsecamente irragionevole addebitare
all’interessato un onere che talora neppure l’amministrazione è in
grado di adempiere proprio per la varietà dei parametri di verifica
dai quali può scaturire la preclusione alla realizzabilità di
posizioni soggettive di cui il privato è titolare. Del resto, quanto
irragionevole ed arbitraria dovesse ritenersi, in via generale,
l’esistenza di un simile onere probatorio, risulta essere stato
avvertito dal legislatore allorché con l’art. 10 della legge 4
gennaio 1968, n. 15, contenente norme sulla documentazione
amministrativa e sulla legalizzazione e autenticazione delle firme,
ha statuito che la buona condotta (al pari dell’assenza di precedenti
penali e di carichi pendenti) è accertata d’ufficio, presso gli
uffici pubblici competenti dalla amministrazione che deve emettere il
provvedimento. Un precetto – questo della legge n. 15 del 1968 – che
ha introdotto nell’ordinamento un criterio ermeneutico di valenza
decisiva in virtù della portata generale delle sue previsioni, che
sono ostative quanto all’operatività di ogni onere di documentazione
attinente al requisito in esame. Tuttavia non sembra che la vis
abrogans dell’art. 10 della legge n. 15 del 1968 abbia un’efficacia
espansiva in grado di sovrapporsi di per sé sola alla disposizione
oggi denunciata alla Corte, così da aver determinato sin da allora
la cessazione della sua vigenza, anche perché il detto art. 10 si
riferisce esclusivamente all’onere di produrre il certificato di
buona condotta, non, quindi, al requisito da dimostrare.
Del resto, la giurisprudenza amministrativa in tema di
autorizzazioni di polizia, pur attenta a rimarcare in base a criteri
di lodevole permissività relativamente all’onere della prova il
requisito della buona condotta, ha continuato a riconoscere alla
pubblica amministrazione un ampio potere valutativo in presenza di
dati sfavorevoli quanto al comportamento dell’interessato; così
venendo a gravare quest’ultimo dell’onere di rimuovere l’effetto
preclusivo conseguente alla verifica compiuta dall’autorità
amministrativa. E se è vero che resterebbe preclusa la possibilità
che il potere discrezionale dell’amministrazione trasmodi in arbitrio
non soltanto esaminando la progressiva evoluzione giurisprudenziale e
dottrinale che ha svincolato la nozione di buona condotta dalle
incrostazioni socio-politiche caratterizzanti il sistema
precostituzionale, tentando di storicizzarne la portata, è anche
vero che si è trattato, di frequente, di un’operazione
interpretativa priva di risultati favorevoli in concreto, rimanendo
demandato ai soli titolari della potestas decidendi il compito di
determinare il contenuto dei presupposti e imponendosi così
all’interessato una prova talora diabolica volta a contrastarne la
forza cogente.
D’altra parte, non pare decisiva la considerazione (contenuta
nelle deduzioni dell’Avvocatura Generale dello Stato) che comunque un
provvedimento amministrativo di diniego di autorizzazione resterebbe
assoggettato al controllo giurisdizionale i cui contenuti sono stati
elaborati dalla giurisprudenza secondo precise regole ermeneutiche. E
ciò, sia perché l’immanenza di un onere probatorio volto a
contestare una situazione non fondata su criteri prestabiliti rischia
talora di impedire al privato un controllo effettivo sulla
motivazione sia perché resisterebbe comunque l’irragionevole
struttura di un sistema in cui, pur in presenza di un onere
probatorio in taluni casi impossibile da adempiere, l’unica
potenzialità per la realizzazione della sua pretesa rimarrebbe, per
l’interessato, l’accesso alla via giurisdizionale.
La presenza di un indirizzo giurisprudenziale amministrativo nel
senso di un controllo giurisdizionale sulle determinazioni
dell’amministrazione non può, quindi, esimere da una pronuncia
d’illegittimità. La fattispecie portata ora all’esame della Corte
sta univocamente a dimostrarlo con il richiamo da parte del giudice a
quo alla legittimità del diniego ed all’esigenza che sia il privato
a dover dimostrare la sua buona condotta.
Non immuta, infatti, il giudizio negativo sulla legittimità
dell’art. 11, secondo comma, ultima parte, del testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza, la circostanza che, anche alla stregua
del valore interpretativo da assegnarsi in questa materia all’art. 10
della legge n. 15 del 1968, l’onere della prova gravi
sull’interessato soltanto allorché sussista un dato negativo
accertato dalla pubblica amministrazione, perché pure in tale
ipotesi, non essendo predeterminati né i canoni cui la pubblica
autorità deve uniformarsi né gli schemi attraverso i quali il
privato è posto in condizione di ribaltare la detta valutazione,
sussiste sempre, per un verso, un’ampia possibilità di abuso
dell’organo decidente, solo in parte ovviabile attraverso l’accesso
alla giurisdizione e, per altro verso, la necessità per il privato
di addurre elementi dimostrativi in grado di superare il giudizio
negativo formulato nei suoi confronti e di cui non sempre è posto in
condizione di disporre.
Con il che risulta evidente che se pure la lettura dell’art. 11,
secondo comma, ultima parte, del testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza deve essere – come è riscontrabile in una giurisprudenza
amministrativa così costante da ritenere vero e proprio diritto
vivente – l’onere probatorio è posto a carico del privato soltanto
in presenza di elementi accertati dall’amministrazione, l’adempimento
di un tale onere può rivelarsi, e concretamente spesso si rivela, di
difficile realizzazione, lasciando conseguentemente esposto
l’interessato all’arbitrio della pubblica autorità, non potendo egli
disporre di elementi da contrapporre alla valutazione negativa; donde
la persistenza, ancora, di una situazione giuridica non in grado di
potersi concretizzare o destinata ad essere posta nel nulla
nonostante la presenza e la persistenza di posizioni di
legittimazione.
7. – I limiti segnati dal giudizio sulla rilevanza – il venire,
cioè, qui in considerazione, non soltanto un’autorizzazione di
polizia, ma un atto permissivo dotato di specifica valenza
teleologica quale è quello concernente l’uso delle armi – non
rappresenta un dato ostativo alla individuazione di quegli aspetti di
irrazionalità che si sono ora denunciati. Occorre infatti rilevare
che – come ha già avuto occasione di statuire questa Corte (sentenza
n. 24 del 1981), sia pure ai soli fini dell’ammissibilità del
quesito referendario volto a conseguire l’abrogazione della norma che
abilita al porto d’armi – la “facoltà” conferita al prefetto
dall’art. 42, terzo comma (unico comma rimasto in vigore, dopo che il
primo ed il secondo comma sono stati abrogati dall’art. 4, nono
comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110), “di concedere, in caso di
dimostrato bisogno, licenza di portare rivoltelle o pistole”
costituisce “una deroga al divieto sancito dall’art. 699 del codice
penale e dall’art. 4, primo comma, della legge n. 110 del 1975”.
Tutto ciò, del resto, in una linea pressoché conforme alla
giurisprudenza del Consiglio di Stato, attenta a rimarcare come il
porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando,
invece, eccezione al normale divieto di portare le armi e che può
divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle
quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il “buon uso”
delle armi stesse; in modo tale – così è testualmente detto in
alcune decisioni – da scagionare dubbi o perplessità sotto il
profilo dell’ordine pubblico e della tranquilla convivenza della
collettività, dovendo essere garantita anche l’intera, restante
massa dei consociati sull’assenza di pregiudizi (di qualsiasi genere)
per la loro incolumità.
Dalla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi
criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo
dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al
controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con
riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a
rimuovere ostacoli a situazioni giuridiche soggettive di cui sono
titolari i richiedenti. Ed una univoca conferma pare scaturire dalle
progressive restrizioni che, sul piano normativo, non solo hanno
introdotto innovazioni di grande rigore nella disciplina del porto
illegale di armi (legge 2 ottobre 1967, n. 895; legge 14 ottobre
1974, n. 497; legge 18 aprile 1975, n. 110; legge 21 febbraio 1990,
n. 86, nonché decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito dalla
legge 7 agosto 1992, n. 356, con modificazioni), ma anche quanto ai
requisiti soggettivi per il rilascio di licenze in materia di armi
(si vedano, ad esempio, gli artt. 8, 9 della già ricordata legge n.
110 del 1975).
In tale ottica la formula adottata dalla norma denunciata e che è
peraltro da accostare all’ulteriore potere negativo nei confronti di
chi non dia affidamento nell’uso delle armi, viene a rivestire una
sua precisa collocazione precettiva cui fa da riscontro
l’assegnazione all’autorità amministrativa di margini di
accertamento e di verifica particolarmente ampi. Al contempo, la
nozione di “buona condotta” assume una valenza più determinata anche
se non proprio puntuale sul piano dei valori giuridici da tutelare.
Il diretto collegamento al pericolo per l’ordine e la sicurezza
pubblica che l’uso delle armi di per sé comporta, infatti, non può
inficiare la natura dell’interesse che è alla base della pretesa,
con la conseguenza che neppure qui si è in condizione di precludere
che la discrezionalità della amministrazione non trasmodi in
arbitrio per l’assoluta atipicità dei criteri che, per quanto
“storicizzati”, sorreggono la nozione di buona condotta e che,
dunque, non escludono che il legislatore abbia creato una presunzione
di cattiva condotta, imponendo all’interessato una sorta di probatio
diabolica rispetto ad un concetto che, operante nel meta-giuridico,
finirebbe per attribuire – come assume il giudice a quo – ai soli
titolari della potestas decidendi il compito di determinarne il
contenuto.
8. – Ferma l’ampia discrezionalità del prefetto nell’assentire o
meno alla richiesta di porto d’armi, la verifica quanto al legittimo
esercizio di tale potere, per quanto sindacabile dal giudice
amministrativo, sia in relazione ai presupposti alla base
dell’accertamento sia alle modalità di esso sia, infine, al suo
contenuto, resta, dunque, ampiamente condizionata da quelle zone di
indeterminatezza – talora al confine con il merito – che si sono
prima individuate.
E se è pur vero che il costante indirizzo interpretativo della
giurisprudenza amministrativa ha individuato precisi canoni cui
riferire la legittimità del diniego (e non solo qualora vengano
addebitati, in relazione a pregresse condanne non assolutamente
preclusive, fatti penalmente rilevanti), tutto ciò va contemperato
con l’ulteriore condizione, che può divenire ostativa
all’autorizzazione al porto delle armi, relativa ai casi nei quali il
diniego si fondi su concreti elementi che, pur non tradottisi in una
condanna o nell’inizio di un procedimento penale, siano rivelatori di
una condotta per di più sintomatica di una possibilità di abuso
delle armi. Con il che appare rafforzata la censura di irrazionalità
di un regime della prova della buona condotta che contempli come
ulteriore garanzia per l’interesse specifico in questione una
valutazione che finisce per assegnare alla buona condotta un ruolo
marginale, nonostante la complementarità talora individuata dalla
giurisprudenza nelle due espressioni: buona condotta e affidamento di
non abusare dell’arma.
D’altro canto, se è pur vero che è dal diniego che deve
scaturire la motivazione del mancato assenso, con possibilità per
l’interessato di contestare in sede giurisdizionale il provvedimento
fondato su inesistenti presupposti di fatto ovvero su erronee
valutazioni che comprovino l’esercizio di un potere discrezionale in
base a canoni manifestamente illogici o irrazionali, si è già visto
come un tale presidio non appare esauriente rispetto a situazioni in
cui al privato – proprio per la genericità e la variabilità dei
contenuti del precetto – resta inibita l’allegazione di un fatto
dimostrativo capace di neutralizzare il giudizio formulato dalla
pubblica autorità.
Certo, dovrà considerarsi illegittimo quel provvedimento negativo
che ometta di indicare le circostanze di fatto ritenute preclusive
ovvero si limiti ad indicare le dette circostanze senza procedere
alle dovute valutazioni o, ancora, non provveda a considerare il
valore significativo di fatti sopravvenuti favorevoli
all’interessato, secondo un indirizzo che ha di recente trovato eco
anche nella giurisprudenza di questa Corte, quando si è ribadito
(ordinanza n. 272 del 1992, avente ad oggetto le violazioni
disciplinari delle guardie particolari giurate, in una materia
direttamente coinvolgente anche l’art. 138 del testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza) il dovere di motivazione dei
provvedimenti di revoca (e, quindi, di ogni provvedimento avente
effetti sfavorevoli per l’interessato), “necessaria” ai fini di
“consentire al giudice amministrativo la verifica sulla legittimità
del provvedimento stesso”: un principio, del resto, riaffermato in
via generale dall’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Ma ciò che nella normativa in esame è carente è appunto la
sicura percorribilità di tale controllo, non essendo comunque
consentito all’interessato contestare in via giurisdizionale né i
presupposti né le valutazioni compiute dall’autorità
amministrativa. Con conseguente incidenza anche quanto al principio
di imparzialità perché le verifiche compiute dall’amministrazione
non sempre possono restare ancorate a precisi criteri interpretativi
e quindi con il rischio che esse – come paventa il giudice a quo –
rimangano affidate alle opinioni personali dei titolari della
potestas decidendi.
L’art. 11, secondo comma, del regio decreto 18 giugno 1931, n.
773, nella parte in cui prescrive che le autorizzazioni di polizia
possono essere negate a chi non può provare la sua buona condotta
deve, dunque, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo per
contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, così restando
assorbita la questione riferita all’ulteriore parametro evocato dal
giudice a quo.
9. – In applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n.
87, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 43,
secondo comma, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, nella parte
in cui, ripetendo la prescrizione contenuta nella norma denunciata,
pone a carico dell’interessato l’onere di provare la sua buona
condotta.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, secondo
comma, ultima parte, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza), nella parte in cui pone a
carico dell’interessato l’onere di provare la sua buona condotta;
Dichiara, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953,
n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 43, secondo comma,
del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza), nella parte in cui pone a carico
dell’interessato l’onere di provare la sua buona condotta.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 dicembre 1993.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: VASSALLI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 16 dicembre 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA