Sentenza N. 442 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
16/12/1993
Data deposito/pubblicazione
16/12/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
02/12/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI;
legge 8 agosto 1992, n. 359 (rectius: art. 5- bis decreto legge 11
luglio 1992, n. 333 convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359)
(Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), promossi
con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 18 dicembre 1992 dalla Corte di Appello
di Roma nel procedimento civile vertente tra Veschi Elvira ed altri
ed il Comune di Roma iscritta al n. 132 del registro ordinanze 1993 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima
serie speciale, dell’anno 1993;
2) ordinanza emessa il 4 dicembre 1992 dalla Corte di Appello di
Palermo nel procedimento civile vertente tra Intravaia Giacomo ed il
Comune di Monreale iscritta al n. 180 del registro ordinanze 1993 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima
serie speciale, dell’anno 1993;
Visti gli atti di costituzione di Veschi Elvira ed altri, del
Comune di Roma, di Intravaia Giacomo, nonché gli atti di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 2 novembre 1993 il Giudice
relatore Renato Granata;
Uditi gli avvocati Bertolo Spallina per Intravaia Giacomo, Mauro
Croci per il Comune di Roma e l’Avvocato dello Stato Sergio La Porta
per il Presidente del Consiglio dei ministri;
avendo ceduto volontariamente ( ex art. 12 legge 22 ottobre 1971 n.
865), nell’ambito di una procedura espropriativa, un terreno al
Comune di Roma sulla base dell’indennità provvisoria con riserva di
conguaglio e non essendo più possibile tale conguaglio dopo la
dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge n. 385/71
cit. sui criteri indennitari provvisori, avevano chiesto che venisse
determinato il prezzo della cessione (ovvero l’indennità dovuta)
secondo il valore del bene in un libero mercato ( ex art. 39 legge n.
2359 del 1865) all’epoca della cessione – l’adita Corte d’appello di
Roma, ritenuto che ai proprietari cedenti dovesse riconoscersi il
diritto di ottenere l’equivalente del prezzo di mercato del bene
ceduto e considerato che nelle more del giudizio l’art. 5- bis della
legge 8 agosto 1992 n. 359 (rectius: art. 5- bis d.-l. 11 luglio 1992
n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992 n. 359) aveva introdotto
una nuova normativa in materia di determinazione della indennità di
espropriazione, immediatamente applicabile anche ai procedimenti in
corso – ha sollevato (con ordinanza del 18 dicembre 1992) questione
incidentale di legittimità costituzionale di tale norma sotto più
profili.
Ritiene innanzi tutto che il primo comma dell’art. 5- bis violi
l’art. 42, comma 3, Cost.; infatti, alla stregua del nuovo criterio
di determinazione dell’indennizzo espropriativo il valore venale
viene prima abbattuto della metà, atteso che il reddito dominicale
rivalutato è cosa trascurabile in termini monetari; l’importo così
calcolato viene poi ulteriormente ridotto del quaranta per cento, per
cui il privato espropriato potrà al massimo ottenere una indennità
che si aggira intorno ad un terzo del valore venale. Ma un
indennizzo, che comporta una falcidia pari a circa il settanta per
cento del valore venale del bene, non presenta quelle caratteristiche
di serio ristoro previste dalla giurisprudenza di questa Corte e che
rappresentano la soglia minima di costituzionalità prescritta dal
canone del citato terzo comma dell’art. 42 Cost.
La medesima disposizione (primo comma dell’art. 5- bis) poi viola
anche l’art. 3 Cost. (giacché il nuovo criterio di determinazione
dell’indennizzo espropriativo comporta un’ingiustificata disparità
di trattamento tra proprietari di aree edificabili assoggettati
all’espropriazione e quelli che invece non lo sono, atteso che solo i
primi, e non anche i secondi, subiscono la suddetta falcidia del 70%
del valore venale dell’area edificabile) e l’art. 53 Cost. (perché
l’espropriato è chiamato a concorrere alla spesa pubblica in misura
maggiore degli altri cittadini, ossia nella misura in cui
l’indennizzo risulta essere inferiore al valore effettivo del bene
espropriato, senza che tale maggior sacrificio sia minimamente
correlato alla sua capacità contributiva).
Ulteriori censure poi attengono ancora al primo comma dell’art. 5-bis in riferimento all’art. 3 Cost. sotto un duplice profilo. Da una
parte la nuova normativa, avendo confermato il criterio del valore
agricolo medio per le aree agricole con il richiamo del titolo II°
della legge 22 ottobre 1971 n. 865, viene a creare una disparità tra
le due diverse discipline espropriative dei suoli agricoli e dei
suoli edificatori: la prima più favorevole della seconda (il prezzo
della cessione può arrivare fino al 50% dell’indennità provvisoria
e – se la cessione è fatta dal proprietario che sia anche
coltivatore diretto – raggiungere addirittura il triplo). D’altra
parte si deduce la disparità di trattamento tra espropriazione e
occupazione espropriativa: l’una, pur rispettando per intero il
procedimento espropriativo, assicura al proprietario espropriato solo
un terzo del valore venale del suo bene; l’altra, ancorché priva del
decreto di esproprio o con un decreto di esproprio tardivo e quindi
inutile, è più favorevole per il proprietario che ha diritto al
risarcimento del danno in misura pari al valore venale del bene.
Inoltre la Corte rimettente censura il primo comma, ultima parte,
e secondo comma, dell’art. 5- bis in riferimento agli artt. 3, 24 e
113 Cost., sostenendo che vi è disparità di trattamento tra
espropriati che accettano la determinazione dell’indennità
effettuata in via definitiva ed espropriati che non accettano
siffatta liquidazione, in quanto la riduzione del 40% (prevista
dall’ultima parte del primo comma) agisce come deterrente ed appare
introdotta non tanto allo scopo di incentivare le cessioni volontarie
(che, secondo il disposto del secondo comma, sono esenti da tale
riduzione), quanto con il fine evidente di scoraggiare, o meglio di
punire, coloro che si rifiutano di consegnare l’immobile, comprimendo
così il diritto di agire in giudizio per l’accertamento dei propri
diritti.
La Corte rimettente censura poi il terzo comma dell’art. 5- bis in
riferimento agli artt. 42, comma 3, e 97 Cost . Tale disposizione,
nel prevedere che ai fini della edificabilità delle aree si debbano
considerare non solo le possibilità legali, ma anche quelle
effettive di edificazione, riferisce tale valutazione al momento
dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio. È però
possibile che, in ipotesi di modifica delle valutazioni urbanistiche
o nel caso in cui i vincoli non siano rispettati, il valore
commerciale del suolo al momento dell’esproprio risulti
progressivamente divaricato nel tempo rispetto a quello relativo alla
situazione originaria, divenuta inattuale, inadeguata od inapplicata.
Può quindi accadere (come nel caso di specie) che tra il momento
dell’apposizione del vincolo preordinato all’espropriazione e quello
dell’espropriazione intercorra un così rilevante lasso temporale,
che l’indennità finisce per non avere più come parametro il valore
di un’area edificabile, che pur pretende di compensare, bensì
un’area che al momento dell’imposizione del vincolo aveva una
destinazione agricola. In tal caso la perdita del bene espropriato
non è compensata da un serio ristoro che deve necessariamente e
direttamente collegarsi al valore economico attuale (e non già
pregresso) del bene stesso.
Inoltre sarebbe violato anche l’art. 97 Cost. perché verrebbe di
fatto premiata la lentezza e l’inefficienza dell’amministrazione, la
quale, in tal modo, avrebbe tutto da guadagnare nel divaricare al
massimo nel tempo i due momenti dell’imposizione del vincolo e
dell’espropriazione, atteso che al momento di espropriare e di pagare
la relativa indennità è evidentemente conveniente, per effetto del
meccanismo legislativo censurato, che i dati per la valutazione siano
i più remoti possibili.
Un’ultima censura riguarda il settimo comma dell’art. 5- bis nella
parte in cui prevede che la nuova determinazione dell’indennità di
espropriazione si applichi ai procedimenti ancora in corso; la
disposizione confligge con il principio di irretroattività della
legge sotto il profilo che non sussiste – secondo la Corte rimettente
– alcuna ragione giustificatrice della deroga a tale principio,
soprattutto se si considera che la normativa censurata è stata
introdotta dopo una inerzia del legislatore durata per oltre dieci
anni e che la stessa riveste il carattere della provvisorietà.
2. – Si sono costituiti Vesci Elvira e gli altri attori nel
giudizio a quo e, aderendo alle argomentazioni dell’ordinanza, hanno
chiesto la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma
impugnata.
La difesa delle parti private prospetta poi un’ulteriore questione
di costituzionalità per l’ipotesi in cui la Corte la sollevi
d’ufficio. Osserva che la nuova disciplina dell’indennizzo
espropriativo riveste il carattere della provvisorietà e,
conseguentemente, il cittadino che subisce l’espropriazione nella
vigenza di questo regime ha un trattamento deteriore rispetto a
quello riservato al cittadino che, invece, subirà l’espropriazione
quando sarà emanata l’annunciata disciplina organica. In tale
dichiarato carattere provvisorio della disciplina è necessariamente
implicita la diversità di trattamento tra situazioni assoggettate
alla disciplina provvisoria e quelle ricadenti nella disciplina
definitiva con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.
3. – Si è costituito anche il Comune di Roma sostenendo, anche
con successiva memoria, la non fondatezza della questione di
costituzionalità.
In particolare, quanto alla censura che attiene al terzo comma
dell’art. 5-bis, la difesa del Comune ritiene che la disposizione sia
da intendere nel senso che nella valutazione del bene si debba
prescindere dal vincolo preordinato allo esproprio con la conseguenza
che il valore (salvo poi attualizzarlo) deve essere ancorato proprio
al momento dell’apposizione del vincolo, ossia prescindendo da esso,
allo stato in cui i beni si trovavano precedentemente al vincolo
stesso.
Del pari infondata è la censura di incostituzionalità per
disparità di trattamento tra proprietari di aree edificabili e
proprietari di aree agricole per la diversità del presupposto che
giustifica una disciplina differenziata dell’indennizzo
espropriativo. Ugualmente non fondata – ha sostenuto la difesa del
Comune di Roma – è la censura sollevata dal giudice a quo con
riferimento all’art. 3 Cost., per presunta disparità di trattamento
tra chi viene espropriato (legittimamente) e chi invece soggiace alla
c.d. accessione invertita, trattandosi di situazioni radicalmente diverse che giustificano una disciplina differenziata.
4. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato chiedendo
che la questione sia dichiarata inammissibile od infondata.
Preliminarmente eccepisce l’irrilevanza della censura di
incostituzionalità relativa alla riduzione del 40% da applicare
all’ammontare dell’indennità risultante dalla media dei valori di
cui al primo comma dell’art. 5- bis giacché il trasferimento della
proprietà è avvenuto consensualmente mediante cessione, sicché
resta di conseguenza esclusa la riduzione del 40% della semisomma del
valore venale e del reddito dominicale.
Nel merito l’Avvocatura ritiene non fondate le censure di
costituzionalità.
In particolare non sono violati gli artt. 3 e 97 Cost. denunciati
sotto il profilo che il terzo comma dell’art. 5- bis stabilisce, agli
effetti dell’accertamento della natura edificatoria del terreno, di
avere riguardo al momento dell’apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio. Tale disposizione non significa, affatto, che la
valutazione del bene debba effettuarsi con riferimento alla data di
apposizione del vincolo espropriativo (anziché a quella del decreto
d’esproprio o, comunque, del trasferimento della proprietà). La
stima dell’immobile deve invece essere riferita alla data
dell’esproprio sicché cade la censura d’irrazionalità ex art. 3
Cost., mentre non è pertinente l’evocato parametro dell’art. 97
Cost.
Né è fondata la censura di disparità di trattamento tra
espropriazione di terreni agricoli ed espropriazione di aree
fabbricabili atteso che le maggiorazioni delle indennità e le
indennità aggiuntive previste per le espropriazioni di terreni
agricoli appartenenti a (o condotti da) coltivatori diretti stanno a
compensare la perdita (non della proprietà ma) della possibilità
d’esercizio della attività di (diretta) coltivazione del fondo.
Altresì neppure vi è disparità di trattamento tra
espropriazione ed occupazione appropriativa perché si tratta di
ipotesi radicalmente diverse.
Infine l’ultimo profilo della questione di costituzionalità
riferito al settimo comma dell’art. 5-bis, è irrilevante perché
riguarda i procedimenti espropriativi in corso alla data del 14
agosto 1992, e non è quindi operante nel giudizio principale nel
quale il procedimento si è interrotto con la cessione volontaria del
bene. Comunque è infondato atteso che non si verte in materia nella
quale operi il principio della irretroattività della legge ed è del
tutto ragionevole che il legislatore abbia accomunato nella
disciplina indennitaria tutte le ipotesi di non avvenuta
determinazione in via definitiva dell’indennità.
5. – In un giudizio avente ad oggetto la determinazione
dell’indennità di esproprio di due fabbricati siti all’interno del
perimetro urbano di Monreale (indennità comprensiva sia dei due
fabbricati stessi che del suolo su cui sorgevano e che aveva
indiscutibilmente destinazione edificatoria), la Corte d’appello di
Palermo, con ordinanza del 4 dicembre 1992, ha sollevato anch’essa
questione incidentale di legittimità costituzionale della medesima
norma. In particolare le censure investono rispettivamente il primo
comma dell’art. 5- bis (in riferimento sia all’art. 42, comma 3,
Cost., sotto il profilo dell’inadeguatezza del criterio di calcolo
dell’indennizzo espropriativo, sia all’art. 3 Cost., sotto il profilo
dell’irrazionale disparità di trattamento tra i proprietari di aree
edificabili assoggettati ad espropriazione ed i proprietari di aree
aventi le stesse caratteristiche e poste nella stessa zona, i quali
ultimi, a differenza dei primi, possono ottenere il valore di mercato
pieno); il secondo comma (in riferimento agli art. 24 Cost., sotto il
profilo che l’abbattimento del 40% della semisomma del valore venale
e del reddito domenicale) è lesivo del diritto di difesa (art. 24
Cost.) in quanto coarta il proprietario espropriato che non intenda
accettare la indennità offertagli, inducendolo, per evitare tale
sanzione, a non esercitare il suo diritto di difesa e a non proporre
l’opposizione alla stima); ed, infine, il sesto comma dell’art. 5-bis (in riferimento all’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’
irragionevole disparità di trattamento tra gli espropriati che hanno
accettato l’ indennità provvisoria convenendo la cessione volontaria
ovvero quelli la cui indennità sia divenuta non impugnabile o sia
stata definita con sentenza passata in giudicato prima dell’entrata
in vigore della legge di conversione, e gli altri proprietari
assoggettati allo stesso procedimento di espropriazione, la cui
opposizione alla stima non si sia ancora conclusa con sentenza
passata in giudicato e che quindi si vedranno applicare il nuovo meno
favorevole criterio di determinazione dell’indennità; ulteriore
disparità di trattamento vi sarebbe poi tra espropriati nei cui
confronti, al momento della sua entrata in vigore, è stato emesso il
decreto di espropriazione che ha comportato la perdita del diritto di
proprietà del bene espropriato, i quali non possono quindi più
convenire la cessione volontaria senza subire la riduzione del
quaranta per cento dell’importo determinato mediando tra il valore
venale e reddito dominicale rivalutato, e proprietari invece nei cui
confronti nello stesso procedimento non è stato ancora emesso il
decreto ablativo e che quindi accettando l’indennità offerta e
convenendo la cessione volontaria ben possono evitare la decurtazione
del 40% dell’ammontare della indennità di espropriazione).
6. – Si è costituito Intravaia Giacomo deducendo in punto di
fatto che con ordinanza n. 57 dell’8 giugno 1987 il Sindaco di
Monreale aveva pronunciato l’espropriazione dell’immobile di sua
proprietà. In via preliminare eccepiva poi l’irrilevanza della
questione di costituzionalità atteso che la normativa censurata
riguarda esclusivamente l’espropriazione delle aree fabbricabili e
non anche di quelle già edificate e che quindi non trova
applicazione nella specie trattandosi di espropriazione di
fabbricati.
Nel merito sostiene l’illegittimità costituzionale della norma
denunciata condividendo le argomentazioni dell’ordinanza del giudice
rimettente.
7. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
sostenendo pregiudizialmente l’ammissibilità, e quindi la rilevanza,
della questione di costituzionalità perché la norma censurata fa
corpo con l’art. 16 legge n. 865/71, il cui nono comma è da
considerare ancora vigente; sicché nell’espropriazione di aree
edificate l’indennità è rappresentata dalla somma del valore delle
costruzioni e del valore dell’area. Per quest’ultimo pertanto si pone
un problema di applicabilità della disposizione censurata.
Nel merito l’Avvocatura ritiene la questione infondata o
manifestamente infondata richiamando essenzialmente la sentenza n.
283 del 1993 di questa Corte.
riguardando la medesima disposizione di legge, sono strettamente
connessi ed impongono una trattazione unitaria delle censure di
incostituzionalità.
2. – Denunciata è la nuova disciplina dell’indennità di
espropriazione, introdotta dall’art. 5-bis, d.-l. 11 luglio 1992 n.
333, convertito nella legge 8 agosto 1992 n. 359 (Misure urgenti per
il risanamento della finanza pubblica); segnatamente le censure
afferiscono ai commi 1, 2, 3, 6, e 7, in riferimento agli artt. 3,
24, 42, comma 3, 97 e 113 Cost. sotto plurimi profili che vanno
esaminati distintamente.
3. – Un primo gruppo di censure riguarda il primo comma dell’art.
5- bis che ha modificato la determinazione dell’indennità di
espropriazione per le aree edificabili adottando il criterio del
sessanta per cento della semisomma del valore venale e del reddito
domenicale.
Lo scrutinio di tali censure, variamente articolate, come ora si
dirà, è rilevante in entrambi i giudizi a quibus come è di tutta
evidenza in riferimento alla controversia pendente innanzi alla Corte
d’appello di Roma (che ha ad oggetto, appunto, la determinazione
dell’indennizzo espropriativo); ma come deve ritenersi anche con
riferimento alla controversia pendente innanzi alla Corte d’appello
di Palermo, non essendo fondata l’eccezione di inammissibilità per
inapplicabilità della normativa censurata alla fattispecie
dell’espropriazione di aree già edificate, eccezione sollevata dalla
difesa della parte costituita. Ed infatti non vi è ragione di
discostarsi dalla premessa interpretativa del giudice rimettente, che
ritiene possibile una valutazione separata dell’area di sedime
(assoggettata alla nuova disciplina dettata dalla norma censurata) e
dei fabbricati (per i quali vale il criterio del valore venale), come
del resto prevede l’art. 16, comma 9, legge n. 865 del 1971 (secondo
cui, nel caso di espropriazione di aree già edificate, l’indennità
è determinata dal valore dell’area – all’epoca calcolato secondo i
criteri dettati dalla legge stessa – sommato a quello delle
costruzioni). La compatibilità di tale disposizione con la
sopravvenuta modifica del criterio di determinazione dell’indennizzo
espropriativo rappresenta questione interpretativa che, in mancanza
di un diritto vivente, è rimessa alla valutazione del giudice
rimettente, non implicando di per sé sola alcuna esigenza (neppure
ipotizzata) di adeguamento a parametri costituzionali.
3.1. – Passando alle singole censure che afferiscono al primo
comma dell’art. 5-bis, può innanzi tutto esaminarsi quella,
sollevata da entrambe le Corti d’appello rimettenti, secondo cui
l’indennizzo espropriativo, proprio perché determinato nella
semisomma del valore venale e del reddito dominicale, con un
ulteriore abbattimento del 40% (sì da essere pari a circa il 30% del
valore venale del bene espropriato), non presenterebbe le
caratteristiche del “serio ristoro”, che invece dovrebbe avere ex
art. 42, comma 3, Cost . La questione è già stata ritenuta non
fondata da questa Corte nella sentenza n. 283 del 1993 e
manifestamente infondata con ordinanza n. 414/93, sicché – non
essendo prospettati dai giudici a quibus profili nuovi o diversi – va
dichiarata manifestamente infondata.
3.2. – Altresì manifestamente infondate – per analoga ragione (in
quanto già ritenute non fondate dalla cit. sent. n. 283/93) – sono
le censure di incostituzionalità della medesima disposizione sia
sotto il profilo dell’assunta disparità di trattamento (art. 3
Cost.) tra proprietari di aree edificabili secondo che siano
assoggettati, o meno, all’espropriazione; sia sotto il profilo che
l’espropriato, proprio in ragione dell’inadeguatezza dell’indennizzo
espropriativo, è di fatto chiamato a concorrere alla spesa pubblica
in misura maggiore degli altri senza che tale maggior sacrificio
contributivo sia correlato alla sua capacità contributiva (art. 53
Cost.).
3.3. – Non è poi fondata la questione di legittimità
costituzionale (sempre del primo comma dell’art. 5- bis), sollevata
dalla sola Corte d’appello di Roma, sotto il profilo che la conferma
del criterio del valore agricolo medio per le aree agricole (con il
richiamo del titolo II della legge 22 ottobre 1971 n. 865, quale
operato dal quarto comma del medesimo art. 5- bis) comporta una
diversità tra la disciplina espropriativa dei suoli agricoli e
quella dei suoli edificatori, diversità che ridonda in disparità di
trattamento ex art. 3 Cost. essendo, per taluni aspetti, la prima
più favorevole della seconda (per la possibile maggiorazione del
prezzo della cessione, la quale peraltro non influisce sulla
determinazione dell’indennità definitiva, e per la previsione ex
art. 17 legge n. 865/71 cit. di un’indennità suppletiva per il
proprietario o per il terzo che siano coltivatori diretti). Si tratta
infatti di situazioni non comparabili perché mentre
nell’espropriazione delle aree nude edificabili viene in gioco
essenzialmente il diritto di proprietà, nell’espropriazione di aree
con destinazione agricola sono coinvolti anche altri interessi e
valori afferenti all’impresa agricola e al lavoro agricolo, valori
che il legislatore, nella sua discrezionalità, può ritenere che
richiedano una disciplina in parte più favorevole. La garanzia
costituzionale dell'”indennizzo” (art. 42, comma 3, Cost.) in caso di
espropriazione per motivi di interesse generale non implica che la
disciplina del criterio di calcolo dello stesso sia unica ed
assolutamente uniforme in tutte le ipotesi di espropriazione ben
potendo il legislatore modularla in relazione alla concorrente
esigenza di tutela di altri valori costituzionalmente protetti, quali
il diritto di iniziativa economica ed il diritto al lavoro (non senza
considerare che in ipotesi di aree agricole non viene normalmente in
rilievo quel plusvalore, tipico delle aree edificabili, rappresentato
dal riflesso del contesto urbanistico in cui si colloca l’area);
sicché per le aree agricole la normativa dell’indennizzo
espropriativo si atteggia a disciplina speciale (cfr. sent. n. 126
del 1988), inidonea a valere come tertium comparationis.
3.4. – Neppure è fondata la censura, mossa dalla sola Corte
d’appello di Roma, al primo comma dell’art. 5- bis per disparità di
trattamento (art. 3 Cost.) tra la fattispecie dell’espropriazione di
aree edificabili e quella dell’accessione invertita (o occupazione
espropriativa) sotto il profilo che la prima assicura al proprietario
espropriato solo una parte (circa un terzo) del valore venale del suo
bene; l’altra, pur mancando un legittimo decreto di esproprio, gli
assicura invece il risarcimento del danno in misura pari al valore
venale del bene. Le fattispecie a confronto sono infatti
assolutamente divaricate e non comparabili. Nella prima c’è un
procedimento espropriativo secundum legem (ossia nel rispetto dei
presupposti formali e sostanziali che rappresentano altrettante
garanzie per il proprietario espropriato) e quindi vengono in rilievo
le opzioni (discrezionali) del legislatore in ordine al criterio di
calcolo dell’indennità di espropriazione; la seconda ipotesi si
colloca fuori dai canoni di legalità (perché è la stessa
realizzazione dell’opera pubblica sull’area occupata, ma non
espropriata, ad impedire di fatto la retrocessione e a comportare
l’effetto traslativo della proprietà del suolo per accessione
all’opera stessa) e quindi ben può operare il diverso principio
secondo cui chi ha subito un danno per effetto di un’attività
illecita ha diritto ad un pieno ristoro. Per altro verso è
giustificato che l’ente espropriante, il quale non faccia ricorso ad
un legittimo procedimento espropriativo per acquisire l’area
edificabile, subisca conseguenze più gravose di quelle previste ove
invece sia rispettoso dei presupposti formali e sostanziali
prescritti dalla legge perché si determini l’effetto di ablazione
dell’area.
4. – Passando agli altri commi dell’art. 5-bis, deve ora
esaminarsi la censura se il secondo comma (letto in combinato
disposto con l’ultima parte del primo comma) sia costituzionalmente
legittimo – in riferimento agli artt. 3, 24, e 113 Cost. – sotto il
duplice profilo, da una parte, che il mancato abbattimento del 40%
dell’indennizzo espropriativo in caso di cessione volontaria comporta
disparità di trattamento tra espropriati che accettano la
determinazione dell’indennità effettuata in via definitiva ed
espropriati che non accettano siffatta liquidazione; dall’altra, che
tale riduzione agisce come deterrente dell’esercizio della facoltà
di agire in giudizio ed appare introdotta non tanto allo scopo di
incentivare le cessioni volontarie, quanto proprio con il fine di
scoraggiare le opposizioni alla stima con conseguente vulnerazione
del diritto di azione (artt. 24 e 113 Cost.).
4.1. – Tale censura, sollevata dalla Corte d’appello di Palermo in
un giudizio in cui (come dedotto dalla parte privata e non contestato
da altri) è già intervenuto il decreto di espropriazione, è
manifestamente inammissibile perché – come già ritenuto da questa
Corte, che in analoga fattispecie ha dichiarato la medesima questione
inammissibile (con sentenza n. 283/93) e, manifestamente
inammissibile (con ordinanza n. 414/93) – la disciplina della
cessione volontaria non può più trovare applicazione.
4.2. – L’analoga censura sollevata dalla Corte d’appello di Roma
è invece infondata. Infatti è in causa la posizione di soggetti che
hanno già aderito alla cessione volontaria dell’immobile e nei
confronti dei quali, quindi, non è configurabile alcuna disparità
di trattamento rispetto a chi può addivenire alla cessione per
evitare l’abbattimento del 40 % della semisomma del valore venale e
del reddito domenicale. Né il fatto che la cessione sia stata
perfezionata nel regime precedente la norma impugnata e con la
clausola “salvo conguaglio” esclude il cedente dal beneficio
dell’esonero dell’abbattimento suddetto al fine della determinazione
del conguaglio stesso. Ciò perché, da una parte, la ratio della
norma è proprio quella di privilegiare il (più rapido) strumento
consensuale (i.e. la cessione) per l’acquisizione dell’area rispetto
al (più macchinoso) strumento autoritativo (i.e. il decreto di
esproprio) e quindi di favorire il proprietario che opti per la prima
alternativa (finalità questa che non è contraddetta dalla riserva
del conguaglio); dall’altra, perché il generale carattere
retroattivo della nuova disciplina ( ex art. 5, commi 6 e 7) assicura
che anche la disposizione censurata, nella parte in cui prevede
l’esonero dall’abbattimento suddetto, trovi applicazione anche
rispetto alle cessioni “salvo conguaglio” stipulate prima
dell’entrata in vigore della legge stessa, applicazione che rileva
limitatamente alla quantificazione del conguaglio stesso.
5. – La Corte d’appello di Roma ha poi sollevato questione di
legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 42, comma 3,
e 97 Cost. – del terzo comma dell’art. 5- bis sul rilievo che la
valutazione delle possibilità legali e di fatto di edificazione
esistenti al momento dell’apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio, e non già al momento del decreto di esproprio,
comporterebbe che l’indennizzo può non essere adeguato ( ex art. 42,
comma 3, Cost.) perché è possibile che nell’intervallo di tempo tra
tali due momenti un’area a destinazione agricola acquisisca una
destinazione edificatoria che invece non viene presa in
considerazione; inoltre sarebbe di fatto premiata la lentezza e
l’inefficienza dell’amministrazione (art. 97 Cost.), la quale, in tal
modo, avrebbe tutto da guadagnare nel divaricare al massimo nel tempo
i due momenti dell’imposizione del vincolo e dell’espropriazione.
Il giudice rimettente parte da una interpretazione strettamente
letterale del dato legislativo; interpretazione secondo la quale, pur
dovendo la quantificazione dell’indennizzo farsi in base a valori
attuali, tuttavia la ricognizione della qualità dell’area (se
edificatoria o agricola) andrebbe, sempre ed in ogni caso,
retrodatata all’epoca dell’apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio, senza che possa mai rilevare un’attitudine
edificatoria successivamente acquisita de facto (per modifica della
situazione dei luoghi) ovvero in ipotesi anche de jure (per modifica
degli strumenti urbanistici).
Indubbiamente, alla stregua di tale interpretazione si verrebbe ad
introdurre, nella determinazione dell’indennizzo, un inammissibile
elemento di aleatorietà. Invero, soprattutto in caso di un ampio
intervallo di tempo tra l’apposizione del vincolo ed il decreto di
esproprio, potrebbe accadere che il proprietario di un’area ormai
divenuta edificabile sia indennizzato con il criterio valevole per le
aree agricole, pervenendosi così ad applicare un criterio di
quantificazione dell’indennizzo espropriativo inficiato da
astrattezza in quanto afferente ad una tipologia di aree diverse da
quella espropriata. Ed è invece costante affermazione di questa
Corte che la discrezionalità del legislatore nel fissare tale
criterio, in termini più o meno restrittivi, deve essere comunque
ancorata alle effettive caratteristiche del bene espropriato, in
quanto un criterio astratto (e tale sarebbe quello che – senza alcun
correttivo – tenesse conto delle pregresse, e non più attuali,
caratteristiche dell’area) è di per sé in contrasto con il precetto
del terzo comma dell’art. 43 Cost., il quale esige che
tendenzialmente l’indennizzo espropriativo sia quantificato tenendo
conto delle caratteristiche dell’area espropriata nel momento in cui
il proprietario ne è privato (salvo che – come ritenuto da questa
Corte nella sent. n. 160 del 1981 – ci sia un congegno correttivo –
che nella specie comunque manca – della distorsione conseguente alla
scissione temporale fra il momento dell’esproprio e quello della
determinazione dell’indennità espropriativa).
Ma la lettura offerta dal giudice rimettente non è l’unica
consentita dal testo legislativo, come esattamente sostiene
l’Avvocatura dello Stato che interpreta diversamente la disposizione
impugnata. È possibile infatti intendere quest’ultima nel senso che
il legislatore ha meramente voluto consacrare in norma il principio,
ormai consolidatosi da tempo nella giurisprudenza dopo iniziali
incertezze, secondo cui nella stima dell’area espropriata non si deve
tener conto del vincolo espropriativo, cioè si deve totalmente
prescindere da esso. E questa indifferenza del vincolo consente una
ricognizione della qualità (edificatoria, o meno) dell’area
espropriata pienamente aderente alle possibilità “legali e
effettive” di edificazione sussistenti al momento del verificarsi
della vicenda ablativa, con la conseguenza che, così interpretata la
norma, risulta infondata la censura mossa dalla Corte rimettente con
riferimento all’art. 42, comma 3, Cost. non sussistendo la lamentata
retrodatazione della qualificazione dell’area espropriata.
Né questa interpretazione adeguatrice – che si rende necessaria
in conformità del principio secondo cui in presenza di più letture
possibili della norma censurata è da privilegiare quella che le
attribuisce un significato non in contrasto con la Costituzione –
trova ostacoli nel disposto degli artt. 42 e 43 legge n. 2359 del
1865, secondo cui sono esclusi dal computo dell’indennizzo gli
incrementi di valore derivanti alla dichiarazione di pubblica
utilità nonché le costruzioni, le piantagioni e le migliorie
eseguite allo scopo di conseguire un’indennità maggiore. Tali norme
non implicano – come sembra invece ritenere la difesa del Comune –
che la valutazione dell’edificabilità, o meno, dell’area espropriata
debba farsi al momento dell’apposizione del vincolo; ma consentono
(semmai) di escludere unicamente gli incrementi connessi
all’esecuzione dell’opera di pubblica utilità o derivanti dalla
previsione dell’esecuzione stessa.
La correzione del presupposto interpretativo dal quale muove la
Corte rimettente rende conseguentemente non fondata la medesima
questione anche in riferimento all’art. 97 Cost.
6. – Le ultime due questioni di costituzionalità riguardano il
sesto ed il settimo comma e sono state sollevate rispettivamente
dalla Corte d’appello di Palermo e dalla Corte d’appello di Roma.
La prima Corte rimettente censura – in riferimento all’art. 3
Cost. – l’art. 5-bis, comma 6, per violazione del principio di
eguaglianza sotto il duplice profilo indicato in narrativa.
Il primo profilo di censura (disparità di trattamento tra
espropriati secondo che l’indennità di espropriazione sia divenuta,
o meno, incontestabile alla data di entrata in vigore della norma
censurata) è manifestamente infondato avendolo già ritenuto
infondato questa Corte con la sentenza n. 283/93 e manifestamente
infondato con ordinanza n. 414/93; né la Corte remittente allega
argomentazioni nuove e diverse da quelle già valutate da questa
Corte.
Anche il secondo profilo (disparità di trattamento tra
espropriati secondo che sia intervenuto, o meno, il decreto di
esproprio alla data di entrata in vigore della norma censurata) è
manifestamente infondato perché la Corte con pronuncia additiva
(sent. n. 283/93) ha già introdotto (ancorché nel secondo comma,
piuttosto che nel sesto, della disposizione oggetto di censura) la
norma di cui il giudice a quo lamenta la mancanza. Infatti il secondo
comma dell’art. 5- bis è stato dichiarato costituzionalmente
illegittimo nella parte in cui non prevede in favore dei soggetti
già espropriati al momento dell’entrata in vigore della legge n. 359
del 1992, e nei confronti dei quali la indennità di espropriazione
non sia ancora divenuta incontestabile, il diritto di accettare
l’indennità di cui al primo comma con esclusione della riduzione del
40%.
7. – La Corte d’appello di Roma ha poi censurato il settimo comma
dell’art. 5- bis – in riferimento all’art. 3 Cost. – perché
irragionevolmente la nuova disciplina dell’indennizzo espropriativo
si applica (con efficacia retroattiva) anche ai procedimenti (ed ai
relativi giudizi) in corso.
Va preliminarmente ribadito – con ciò disattendendo l’eccezione
di inammissibilità della questione sollevata dall’Avvocatura
sull'(implicito) presupposto che la disposizione censurata non
troverebbe applicazione per essere il procedimento espropriativo già
concluso – che l’art. 5- bis (così come ritiene la giurisprudenza
della Corte di cassazione) si applica (retroattivamente) anche ai
procedimenti giudiziari di opposizione alla stima dell’indennizzo
espropriativo, ancorché sia già intervenuto il decreto di
esproprio.
Nel merito la questione è manifestamente infondata avendola già
ritenuta infondata questa Corte con la più volte citata sentenza n.
283/93 e manifestamente infondata con ordinanza n. 414/93; né la
Corte remittente allega argomentazioni nuove e diverse da quelle già
valutate da questa Corte.
8. – Mette conto infine rilevare che non sussistono i presupposti
per sollevare d’ufficio la (ulteriore e diversa) questione di
legittimità costituzionale indicata dalla parte privata sotto il
profilo che, avendo la nuova disciplina dell’indennizzo espropriativo
carattere transitorio, vi sarebbe disparità di trattamento tra il
proprietario dell’area che subisce l’espropriazione nella vigenza
della norma censurata e quello che subirà l’espropriazione dopo che
sarà stata emanata l’annunciata disciplina organica; trattasi
infatti di questione che (oltre ad essere ipotetica) è priva del
necessario carattere di pregiudizialità rispetto al thema decidendum
devoluto dalle ordinanze di rimessione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi:
a) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 5- bis, comma 3,
decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, convertito nella legge 8 agosto
1992 n. 359 (Misure urgenti per il risanamento della finanza
pubblica), sollevata, in riferimento agli artt. 42, comma 3, e 97
della Costituzione, dalla Corte d’appello di Roma con l’ordinanza
indicata in epigrafe;
b) dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 5- bis, commi 1 e 2, decreto legge 11 luglio
1992 n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992 n. 359 (Misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica), sollevate, in
riferimento agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, dalla Corte
d’appello di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe;
c) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5- bis, comma 2, decreto legge
11 luglio 1992 n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992 n. 359
(Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica),
sollevata, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, dalla Corte
d’appello di Palermo con l’ordinanza indicata in epigrafe;
d) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 5- bis, commi 1, 6 e 7, decreto
legge 11 luglio 1992 n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992 n.
359 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica),
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 42, comma 3, e 53 della
Costituzione, dalle Corti d’appello di Roma e Palermo con le
ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 dicembre 1993.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: GRANATA
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 16 dicembre 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA