Sentenza N. 443 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
16/12/1993
Data deposito/pubblicazione
16/12/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
02/12/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI;
civile notificato il 15 marzo 1993, depositato in cancelleria il 19
successivo, per conflitto di attribuzione sorto a seguito della
delibera del Senato della Repubblica del 6 maggio 1987, confermativa
della decisione della Giunta per le immunità parlamentari del 16
aprile 1987, con cui si stabilisce che le dichiarazioni del sen.
Raimondo Ricci nei confronti del sig. Nicola Falde ricadono nella
prerogativa della insindacabilità sancita dall’art. 68, primo comma,
della Costituzione, ed iscritto al n. 10 del registro conflitti 1993;
Visto l’atto di costituzione del Senato della Repubblica;
Udito nell’udienza pubblica del 5 ottobre 1993 il Giudice relatore
Vincenzo Caianiello;
Udito l’avv. Stefano Grassi per il Senato della Repubblica;
Roma ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Senato
della Repubblica, a norma dell’art. 134 della Costituzione e
dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
1.2. – Il Tribunale espone, in detta ordinanza, le premesse di
fatto del conflitto: con atto di citazione, notificato il 28 aprile
1986, il sig. Nicola Falde conveniva in giudizio il senatore Raimondo
Ricci e la casa editrice Marsilio editori S.p.a. per chiedere il
risarcimento dei danni a lui derivati da alcune affermazioni
pronunciate dal senatore Ricci – quale relatore in un convegno
dibattito organizzato a Venezia l’11 e il 12 dicembre 1983 dal
Comune, sul tema “I poteri occulti nella Repubblica: mafia, camorra,
P2, stragi impunite” – e riportate nel volume, che pubblicava gli
atti del convegno, “I poteri occulti dello Stato”, edito dalla
Marsilio; le affermazioni delle quali l’attore riteneva il carattere
“diffamatorio e calunnioso” consistevano nei riferimenti ad una
pretesa partecipazione del sig. Falde ad attività politico-eversiva
posta in essere dalla loggia massonica P2, attività estrinsecatasi
da un lato nella nomina del predetto, da parte dei vertici della P2,
nell’ambito del c.d. “progetto per la stampa”, a direttore del
settimanale O.P. di Mino Pecorelli, dall’altro nella cooperazione
alla costituzione del Nuovo Partito Popolare, nell’intento di creare
una nuova formazione politica da contrapporre alla Democrazia
Cristiana.
Costituitosi in giudizio, il senatore Raimondo Ricci chiedeva il
rigetto della domanda, facendo rilevare che il contenuto del volume
citato riproduceva fedelmente la relazione da lui svolta nel convegno
di Venezia, al quale egli era stato invitato nella sua qualità di
parlamentare e specificamente di vice-presidente della Commissione
parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2; e poiché la
relazione riproduceva, a sua volta, atti e documenti acquisiti dalla
Commissione d’inchiesta, ne derivava la copertura della guarentigia
dell’insindacabilità delle opinioni da lui espresse, a norma
dell’art. 68, primo comma, della Costituzione. Su tali basi il
convenuto formulava eccezione di improponibilità della domanda di
risarcimento avanzata nei suoi confronti.
Costituitasi la società editrice Marsilio, e autorizzata altresì
la chiamata in giudizio del Comune di Venezia, a sua volta
costituitosi, all’udienza dell’8 maggio 1987 il senatore Ricci
depositava copia della delibera del Senato in data 6 maggio 1987 con
la quale l’Assemblea confermava e recepiva la decisione del 16 aprile
1987 della giunta per le immunità parlamentari, che aveva statuito,
all’unanimità, che i fatti per i quali era stata proposta l’azione
civile di danno nei confronti del parlamentare ricadevano nella
prerogativa dell’insindacabilità sancita dall’art. 68, primo comma,
della Costituzione.
1.3. – Ciò premesso, il Tribunale richiama nell’ordinanza gli
enunciati della sentenza n. 1150 del 1988 della Corte costituzionale,
ed in particolare l’affermazione per cui l’art. 68, primo comma,
della Costituzione attribuisce alla Camera di appartenenza il potere
di valutare la condotta addebitata a un proprio membro, con
l’effetto, qualora la condotta stessa sia qualificata come ricompresa
nell’esercizio delle funzioni parlamentari, di inibire, in ordine ad
essa, una difforme pronuncia giudiziale di responsabilità.
Applicato tale principio al caso di specie, ne seguirebbe –
osserva il Tribunale – che, poiché la delibera del Senato riguarda
espressamente fatti dedotti in giudizio, l’organo giudiziario
dovrebbe statuire l’improponibilità della domanda proposta nei
confronti del senatore Ricci.
Tuttavia, aggiunge il Tribunale, la stessa Corte costituzionale,
nella richiamata sentenza, ha – in ragione della delicatezza della
materia, involgente diritti inviolabili quali quelli all’onore e alla
reputazione dell’individuo – chiarito che il potere valutativo delle
Camere “non è arbitrario o soggetto soltanto ad una regola interna
di self-restraint”, ma deve essere correttamente esercitato;
pertanto, il giudice civile che, investito di una causa di
risarcimento danni promossa da una persona lesa da dichiarazioni
asseritamente diffamatorie fatte da un parlamentare, reputi che la
delibera della Camera di appartenenza – che afferma
l’insindacabilità ex art. 68 della Costituzione – sia il risultato
di un esercizio illegittimo (o di “cattivo uso”) del potere di
valutazione, ha la possibilità di provocare il controllo della Corte
costituzionale, sollevando davanti a questa conflitto di
attribuzione, “al fine di contestare l’altrui potere come in concreto
esercitato; ciò sia per vizi in procedendo che per omessa o erronea
valutazione dei presupposti di volta in volta richiesti per il valido
esercizio di esso”.
1.4. – In applicazione di questi enunciati, dunque, il Tribunale
sottopone all’esame della Corte, attraverso lo strumento del
conflitto, la delibera del Senato più volte richiamata, onde
verificare se nel caso di specie il potere dell’organo sia stato
correttamente esercitato. All’uopo sostiene che:
a) la partecipazione ad un convegno non può farsi rientrare
tra i compiti istituzionali del parlamentare, e dunque detta
partecipazione non può essere avvenuta, in concreto, che a titolo
personale; la qualità di vice-presidente della Commissione di
inchiesta, anche se annunciata nella presentazione del convegno, non
è, dal punto di vista funzionale, la veste nella quale il senatore
Ricci aveva letto la sua relazione;
b) il Senato ha optato per una lettura eccessivamente estensiva
della disposizione costituzionale di garanzia, desumendo, in
definitiva, dalla affermazione di identità tra i contenuti degli
atti della Commissione di inchiesta e le dichiarazioni espresse nel
convegno, una conseguenza che non sarebbe stato legittimo trarre. Ad
avviso del Tribunale, nel caso in argomento v’è una “mera
riscontrabilità tra le affermazioni fatte in sede extra parlamentare
ed atti e documenti parlamentari”: ciò, sia perché gli atti non
provengono dall’autore della relazione al convegno, ma da soggetto
diverso, ossia l’organo collegiale – Commissione di inchiesta; sia
perché i documenti di cui si parla sono semplicemente “acquisiti”
agli atti della Commissione e non possono essere definiti
tecnicamente come atti parlamentari; sia infine perché né gli atti
né i documenti contengono comunque “opinioni” espresse dall’autore
della relazione (e delle quali questa possa perciò dirsi
riproduttiva);
c) il Senato, con la delibera, non si sarebbe infine limitato
ad effettuare un esame di carattere funzionale, ma, affermando la
già detta corrispondenza tra le opinioni espresse nella relazione e
gli atti e i documenti della Commissione parlamentare d’inchiesta
avrebbe finito per esprimere un proprio giudizio sulla inesistenza
del carattere diffamatorio delle affermazioni contenute nel libro e
quindi si sarebbe sostanzialmente pronunciato sul merito della
domanda giudiziale proposta dinanzi al Tribunale.
1.5. – Sospeso pertanto il giudizio in corso, il Tribunale ha
sollevato conflitto di attribuzione “in ordine al corretto uso del
potere di decidere sulla imperseguibilità stabilita dall’art. 68,
primo comma, della Costituzione così come esercitato dal Senato
della Repubblica con la delibera adottata il 6 maggio 1987 in
riferimento al giudizio civile incardinato davanti al Tribunale di
Roma da Nicola Falde nei confronti del senatore Raimondo Ricci”
(così il dispositivo dell’ordinanza).
2. – Il ricorso per conflitto di attribuzione, depositato presso
questa Corte in data 8 agosto 1992, è stato dichiarato ammissibile,
in via di delibazione preliminare, a norma dell’art. 37, terzo e
quarto comma, della legge n. 87 del 1953, con l’ordinanza n. 68
dell’8 febbraio 1993, ed è stato successivamente notificato, nel
termine assegnato, al Senato della Repubblica.
3.1. – Si è costituito nel relativo giudizio dinanzi a questa
Corte, in forza di delibera del 25 febbraio 1993, il Senato della
Repubblica.
3.2. – La difesa del Senato eccepisce l’inammissibilità e
altresì sostiene l’infondatezza, sotto ogni profilo, del conflitto
proposto, con deduzioni formulate nell’atto di costituzione ed
ulteriormente sviluppate in una memoria depositata in prossimità
dell’udienza.
3.3. – La difesa del Senato eccepisce in primo luogo
l’inammissibilità del conflitto, giacché il Tribunale ricorrente
non lamenta né vizi in procedendo né l’omessa od erronea
valutazione dei presupposti richiesti per il valido esercizio del
potere di valutazione della condotta del parlamentare ai fini
dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, bensì si limita a
chiedere una ulteriore valutazione, da parte della Corte, della
correttezza dell’interpretazione dell’art. 68 della Costituzione
adottata dal Senato nel caso concreto; il ricorrente Tribunale non
denuncia dunque profili di arbitrarietà o irragionevolezza
dell’esercizio del potere da parte del Senato, bensì dissente sul
merito della scelta effettuata dall’organo parlamentare nel dare, nel
caso specifico, concreta portata alla prerogativa dell’art. 68, primo
comma, della Costituzione; il che non è consentito, poiché la Corte
costituzionale non può spingersi sino a censurare le valutazioni –
corrette sul piano logico e procedimentale – svolte dal Parlamento
nell’esercizio della sua autonomia.
3.4. – Nel merito, il patrocinio del Senato sottolinea in primo
luogo che l’iter procedimentale seguito dall’organo parlamentare è
pienamente regolare, e che la relazione della giunta è stata
approvata all’unanimità, senza che si siano registrati interventi
contrari o critici; né del resto il Tribunale civile formula alcuna
contestazione sotto il profilo del procedimento.
3.5. – La difesa del Senato ripercorre quindi l’itinerario
argomentativo svolto dalla giunta per le immunità nel riscontrare la
sostanziale identità tra i fatti esposti dal senatore Ricci a
Venezia e quelli riportati negli atti e documenti della Commissione
parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2, dai quali le
dichiarazioni del parlamentare hanno tratto origine.
La giunta del Senato ha da un lato verificato che il senatore
Ricci si era limitato a ripetere a Venezia fatti ed espressioni
tratti da documenti già acquisiti dalla Commissione di inchiesta, da
considerare atti e documenti parlamentari a tutti gli effetti;
dall’altro, ha evidenziato che l’intervento del senatore al convegno
veneziano era stato tenuto nella sua qualità di vicepresidente della
Commissione parlamentare di inchiesta, in epoca di ultimazione dei
lavori di quest’ultima, e ne ha desunto l’applicazione del
consolidato criterio secondo il quale la diffusione di opinioni
tratte da atti parlamentari è insindacabile, giusta l’art. 68, primo
comma, della Costituzione.
Va dunque ribadito, per la difesa del Senato, che il riscontro di
identità tra dichiarazioni e atti parlamentari effettuato dalla
giunta, poi confermato nella discussione in Assemblea, si è svolto
entro i limiti tracciati dalla previsione costituzionale, in funzione
della – sola – dimostrazione della riconducibilità della relazione
veneziana del senatore Ricci all’ambito dell’esercizio della funzione
parlamentare.
3.6. – Il patrocinio del Senato affronta poi il merito
dell’affermazione in concreto dell’insindacabilità delle
dichiarazioni del senatore Ricci, osservando come, per ritenerne la
piena correttezza, non sia affatto necessario fare riferimento alla
tesi più estensiva, sostenuta talora in dottrina e giurisprudenza,
che include nell’area applicativa dell’insindacabilità attività non
tipiche della funzione parlamentare ma genericamente ricollegate
all’agire politico del parlamentare. Nella vicenda del senatore
Ricci, infatti, si è in presenza di una ipotesi che rientra
nell’ambito della prerogativa costituzionale anche a voler seguire un
orientamento critico nei confronti della richiamata dottrina.
Il Senato, in definitiva, ha optato per l’interpretazione “intermedia” per cui i membri del Parlamento non possono essere perseguiti
per opinioni espresse nell’esercizio parlamentare – ma con rilevanza
extraparlamentare – delle loro funzioni di deputato o senatore e non
di politico come tale; in questo caso, la rilevanza extraparlamentare
è rappresentata dalla diffusione all’esterno di opinioni espresse
durante i lavori parlamentari, diffusione che avviene non solo
secondo le tradizionali forme di pubblicità previste nei regolamenti
parlamentari ma anche attraverso la ripetizione o riproduzione a
mezzo di veicoli di pubblicità più diffusa; il che si raccorda con
il principio costituzionale di pubblicità delle sedute (art. 64
della Costituzione) e con l’obbligo giuridico-morale del parlamentare
di rappresentare, e quindi informare, la Nazione (art. 67 della
Costituzione).
Il Senato conclude, sul punto, deducendo la inesattezza
dell’affermazione del Tribunale civile secondo cui “la partecipazione
ad un convegno non rientra tra i compiti istituzionali del
parlamentare” e dunque detta partecipazione sarebbe avvenuta a titolo
personale: è al contrario da ritenere che anche l’attività svolta
fuori del palazzo parlamentare con lo scopo di diffondere i risultati
dell’attività – parlamentare – compiuta, e in stretta connessione
con questa, costituisca esercizio delle funzioni.
3.7. – Nessun dubbio, per il Senato, si può poi nutrire sulla
qualificazione dell’attività di una Commissione di inchiesta come
attività parlamentare in senso proprio; a tale riguardo sono
richiamate precedenti decisioni della Corte, ed in particolare la
sentenza n. 231 del 1975, osservandosi più specificamente che
rientra nella discrezionale valutazione delle Camere stabilire di
volta in volta il coefficiente di segretezza dei lavori dell’organo
di inchiesta, in rapporto alle finalità peculiari della Commissione
istituita. Nel caso in argomento l’inchiesta sulla loggia massonica
P2 apparteneva al genere di inchieste politiche nelle quali, salva la
segretezza di attività acquisitive, non v’è ragione di limitare la
pubblicità dei risultati dell’inchiesta; la stessa legge istitutiva
– n. 527 del 1981 – prevedeva all’art. 6 che la Commissione potesse
di volta in volta stabilire quali sedute fossero pubbliche e quali
documenti potessero essere pubblicati nel corso dei lavori.
La finalità dell’inchiesta, strumentale al potere di indagine e
informazione del Parlamento, connotava l’inchiesta medesima nel senso
della pubblicità e diffusività presso la pubblica opinione; l’art.
68, primo comma, della Costituzione non poteva perciò non applicarsi
rispetto all’attività del vicepresidente della Commissione che
diffondeva informazioni sui risultati acquisiti dall’organo di
inchiesta.
3.8. – Ulteriore profilo affrontato dalla difesa del Senato
concerne l’affermazione del Tribunale civile secondo la quale i
documenti e gli atti acquisiti dalla Commissione parlamentare di
inchiesta non sarebbero qualificabili come “opinioni espresse e voti
dati” ex art. 68, primo comma, della Costituzione.
Osserva in contrario il Senato che il concetto di atto
parlamentare non può non riferirsi a tutti gli atti inseriti nei
procedimenti parlamentari, e dunque, oltre agli atti pubblicati dalle
Camere per dar conto dei propri lavori, e ai documenti eventuali del
lavoro delle Camere, altresì agli atti con i quali si delibera di
acquisire determinati documenti: sia l’attività di acquisizione sia
il risultato di essa rientrano nell’esercizio della funzione del
Parlamento.
3.9. – Il patrocinio del Senato si sofferma, da ultimo, sul punto
dell’ordinanza del Tribunale in cui il ricorrente ritiene che, con la
delibera in contestazione, il Senato avrebbe finito per esprimere un
giudizio sulla esistenza della diffamazione, giudizio ad esso
Tribunale spettante.
La difesa del Senato rileva che, per questo aspetto, il ricorrente
non denuncia una invasione di competenza bensì esprime un dubbio
(una “perplessità”, come si esprime la stessa ordinanza) sulla
correttezza della valutazione operata dal Senato. Anche per questo
profilo, il Senato osserva che il conflitto è in sostanza diretto a
censurare il modo di esercizio del potere ad esso costituzionalmente
attribuito e non già a lamentare una menomazione delle attribuzioni
del giudice ricorrente.
La difesa del Senato ricorda che non è sufficiente il mero
rilievo di un vizio di legittimità di un atto o comportamento per
configurare un conflitto di attribuzione, e che occorre pertanto una
interferenza o lesione di competenza quale portato della asserita
illegittimità, ed altresì che, su questa stessa linea, la Corte
costituzionale ha ripetutamente affermato di non poter sindacare i
limiti interni alla sfera di competenza di un organo (e cioè, il
modo di esercizio di una funzione) bensì solo i presupposti relativi
alla titolarità del potere; questo orientamento, si aggiunge, non è
smentito dalla sentenza n. 1150 del 1988, nella quale si è solo
escluso che il potere della Camera di appartenenza di valutare la
condotta dei propri membri ai sensi dell’art. 68, primo comma, della
Costituzione possa essere esercitato in modo arbitrario o
irragionevole: la decisione citata ha dunque individuato nella
“ragionevolezza” il parametro della verifica del rispetto dei limiti
esterni del potere, giacché un uso irragionevole di questo potere
trasformerebbe la prerogativa – costituzionalmente valida e coerente
con l’assetto complessivo dei poteri – in ingiustificato privilegio.
Il vizio in cui si ricadrebbe in tali evenienze sarebbe analogo al
c.d. eccesso di potere legislativo: l’insindacabilità verrebbe usata
per fini diversi da quelli previsti nella Costituzione.
Ma gli indici rivelatori di quel vizio, coincidente in definitiva
con un difetto di ragionevolezza, possono, in situazioni quali quella
oggetto del conflitto, essere riscontrati dalla Corte solo fuori
dell’ambito delle scelte del Parlamento, e sono perciò limitati ai
casi di illogicità, arbitrarietà o contraddittorietà
dell’apprezzamento effettuato dall’organo parlamentare, ovvero
allorché vi sia manifesta incongruenza tra il mezzo e lo scopo o vi
sia il perseguimento di una finalità diversa da quella stabilita
dalla Costituzione.
Questi limiti del sindacato costituzionale, deduce il Senato,
debbono essere rigorosamente rispettati, poiché altrimenti il
conflitto si trasformerebbe in un giudizio costituzionale di
chiusura, che trasformerebbe il ruolo della Corte in quello di
revisore della mera legittimità degli atti di ogni altro organo e
potere costituzionale. E poiché i richiamati vizi non sono
sussistenti nella fattispecie, il Senato conclude per una
declaratoria di inammissibilità ovvero di infondatezza del
conflitto.
confronti del senatore Raimondo Ricci per ottenere il risarcimento
dei danni in relazione ad alcune affermazioni da questi pronunciate
nel convegno svoltosi a Venezia l’11 e 12 dicembre 1983 sul tema “I
poteri occulti della Repubblica” e ritenute dall’attore diffamatorie
nei suoi confronti, veniva depositata la delibera del Senato della
Repubblica del 6 maggio 1987 in cui si statuiva che i fatti per i
quali era stata proposta l’azione civile di danno nei confronti del
parlamentare ricadevano nella prerogativa dell’insindacabilità,
sancita dall’art. 68, primo comma, della Costituzione.
In relazione a tale delibera, che determina l’improponibilità
della domanda giudiziale, il Tribunale adito ha sollevato conflitto
di attribuzione a norma dell’art. 134 della Costituzione e dell’art.
37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ritenendo che talune delle
affermazioni in essa contenute richiedano una verifica da parte di
questa Corte sotto i seguenti profili:
a) la delibera afferma che il Senatore Ricci era intervenuto al
convegno “in qualità di vicepresidente della Commissione
parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2”. Ad avviso del
Tribunale la partecipazione ad un convegno non può farsi rientrare
tra i compiti istituzionali del parlamentare bensì deve ritenersi
avvenuta a titolo personale. La qualità di vice-presidente della
Commissione di inchiesta, anche se annunciata nella presentazione del
Convegno, non è, dal punto di vista della funzione parlamentare, la
veste nella quale il Senatore Ricci ha letto la sua relazione, a meno
di non voler ricomprendere in detta funzione “tutte le attività
politiche del parlamentare”, una nozione questa che il Tribunale
dichiara di respingere, ritenendola eccessivamente estensiva perché
la prerogativa prevista dal primo comma dell’art. 68 della
Costituzione fa riferimento alle attività “tipiche” del
parlamentare;
b) la sostanziale identità, asserita nella delibera del
Senato, tra i fatti esposti nel convegno e “quelli riportati negli
atti e documenti della Commissione di inchiesta sulla loggia
massonica P2 dai quali le affermazioni del senatore Ricci furono
desunte, .. al di là della verifica della fondatezza di tale
assunto” darebbe luogo, secondo il Tribunale ricorrente, ad una
lettura eccessivamente estensiva della disposizione costituzionale di
garanzia. Si tratta difatti di una “mera riscontrabilità tra le
affermazioni fatte in sede extra-parlamentare ed atti e documenti
parlamentari” e non di una corrispondenza tra opinioni espresse in
Parlamento e quelle esposte nel convegno e ciò, sia perché gli
“atti” cui il parlamentare si era riferito non provenivano
dall’autore della relazione al convegno ma da soggetto diverso, cioè
l’organo collegiale (commissione di inchiesta); sia perché i
documenti di cui si era parlato erano semplicemente “acquisiti” agli
atti della Commissione e non potevano perciò essere definiti “atti
parlamentari” in senso proprio; sia, infine, perché tali atti e
documenti non contenevano comunque “opinioni” espresse dall’autore
della relazione;
c) il Senato non si sarebbe limitato ad effettuare un esame di
carattere funzionale, ma, affermando la già detta rispondenza tra le
opinioni espresse nella relazione al convegno e gli atti e documenti
della Commissione, avrebbe finito, secondo il Tribunale, per
esprimere un proprio giudizio sulla inesistenza del carattere
diffamatorio delle affermazioni contenute e quindi si sarebbe
sostanzialmente pronunciato sul merito della domanda giudiziale.
2. – Il Senato della Repubblica, costituitosi in giudizio, ha in
via preliminare eccepito l’inammissibilità del conflitto, sostenendo
che il Tribunale civile tenderebbe in sostanza ad un sindacato sulle
valutazioni contenute nella delibera contestata, non consentito in
sede di conflitto di attribuzioni, non potendo la Corte
costituzionale spingersi a giudicare nel merito delle valutazioni
compiute dal Senato nella sua autonomia.
In relazione a tale eccezione occorre ricordare che questa Corte,
con la sentenza n. 1150 del 1988, ha già dichiarato, in altra
analoga vicenda, che spetta alla Camera di appartenenza del
parlamentare di valutare le condizioni dell’insindacabilità, ai
sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, in quanto le
prerogative parlamentari non possono non implicare un potere
dell’organo a tutela del quale sono disposte.Tale potere valutativo,
come è precisato in detta sentenza, non è tuttavia illimitato non
potendo essere né arbitrario, né soggetto soltanto ad una regola
interna di self-restraint, essendo soggetto ad un controllo di
legittimità, operante appunto con lo strumento del conflitto di
attribuzione, dinanzi all’organo di garanzia costituzionale,
circoscritto ai vizi che incidono, comprimendola, sulla sfera di
attribuzioni dell’autorità giudiziaria. Il conflitto non si
configura però nei termini di una vindicatio potestatis – dato che
il potere di valutazione del Parlamento non è contestabile in
astratto – bensì come contestazione di quel potere in concreto, per
vizi del procedimento oppure per omessa o erronea valutazione dei
presupposti di volta in volta richiesti per il suo valido esercizio.
Muovendo da queste proposizioni, l’eccezione di inammissibilità
deve essere disattesa per quel che concerne i profili indicati nel
punto precedente sub a) e sub b), perché con essi il Tribunale
contesta che sussistano in concreto i presupposti per una
dichiarazione di insindacabilità ai sensi del primo comma dell’art.
68 della Costituzione. L’eccezione va invece condivisa relativamente
al profilo indicato sub c), in quanto il Tribunale – nel richiedere a
questa Corte di verificare se il Senato, nell’affermare la
corrispondenza tra opinioni espresse nella relazione svolta ad un
convegno e gli atti e documenti della Commissione di inchiesta
parlamentare, abbia finito per esprimere un proprio giudizio sulla
non esistenza del carattere diffamatorio, pronunciandosi nel merito
della domanda giudiziale – non denuncia un vizio in procedendo, né
contesta che sussistano i presupposti in concreto per la
dichiarazione di insindacabilità ex art. 68, primo comma, della
Costituzione, bensì chiede che questa Corte compia una valutazione,
nel merito, diversa da quella compiuta dal Senato. Il profilo non
può perciò essere preso in considerazione in sede di conflitto di
attribuzione nel quale, come si è detto, è possibile solo
verificare se ai fini dell’esercizio in concreto del potere che ha
condotto alla dichiarazione di insindacabilità, a seguito della quale
è sorto il conflitto, da parte della Camera di appartenenza, sia
stato seguito un procedimento corretto oppure se mancassero i
presupposti di detta dichiarazione – tra i quali essenziale quello
del collegamento delle opinioni espresse con la funzione parlamentare
– o se tali presupposti siano stati arbitrariamente valutati.
3. – Per quel che riguarda il profilo indicato sub a), il Tribunale
civile contesta che la partecipazione del senatore Ricci al convegno
anzidetto potesse costituire presupposto per la dichiarazione di
insindacabilità, in quanto detta partecipazione doveva considerarsi
come avvenuta a titolo personale non potendo questa condizione
reputarsi superata dalla qualifica, rivestita dal parlamentare, di
vice-presidente della Commissione di inchiesta, ancorché annunciata
nella presentazione del convegno.
Nei limiti dei concetti dell’arbitrarietà e della plausibilità
in cui può esplicarsi una verifica esterna, come quella propria
della Corte sulla sussistenza dei presupposti (esercizio delle
funzioni) e sulle valutazioni di merito che le Camere compiono circa
l’insindacabilità ex art. 68, primo comma, della Costituzione, delle
opinioni espresse dai parlamentari, non possono ritenersi arbitrarie
le conclusioni cui nel caso di specie il Senato è pervenuto con
l’affermare la sussistenza del presupposto costituito dall’esercizio
della funzione parlamentare. Tali conclusioni risultano formulate
previa valutazione del complesso delle circostanze in cui le opinioni
del senatore Ricci sono state espresse, essendosi tenuto conto dello
stretto collegamento con la anzidetta specifica qualificazione
rivestita dal parlamentare, in quanto egli si era riferito a quel che
era a sua conoscenza per aver partecipato ai lavori della Commissione
di inchiesta. Un aspetto, questo, che risulterà ancora più evidente
dalle considerazioni che verranno subito di seguito esposte in
relazione all’esame del profilo indicato sub b).
4. – Svolgendo questo profilo il Tribunale civile contesta
l’affermazione del Senato circa la sostanziale identità fra i fatti
esposti dal senatore Ricci nel convegno e “quelli riportati negli
atti e documenti della Commissione di inchiesta sulla loggia
massonica P2 dai quali le affermazioni del senatore Ricci furono
desunte”.
In proposito il Tribunale osserva che “a prescindere dalla
verifica della fondatezza di tale assunto” (una affermazione,
questa, che, essendo rimasta nel vago – perché non accompagnata da
alcuna esplicazione da parte del Tribunale stesso – non può essere
in ogni caso presa in considerazione da questa Corte) esso
condurrebbe ad una estensione del presupposto della insindacabilità
che non troverebbe riscontro nella formulazione letterale dell’art.
68, primo comma, della Costituzione. Se talvolta, soggiunge il
Tribunale, si è ritenuto da parte del giudice ordinario di far
rientrare nella funzione parlamentare, coperta dalla prerogativa
dell’insindacabilità, la riproduzione all’esterno di interpellanze o
interrogazioni, ben diverso sarebbe il caso di specie dove si è in
presenza non della riproduzione esterna di opinioni espresse nella
sede propria bensì di “una mera riscontrabilità” delle affermazioni
fatte in sede extraparlamentare con relazioni, atti e documenti
acquisiti dalla Commissione di inchiesta, di atti cioè neppure
“tecnicamente da definirsi come atti parlamentari”.
Osserva al riguardo la Corte che in sede di verifica esterna sulla
valutazione compiuta dal Senato circa la sussistenza del presupposto
della insindacabilità, non appare arbitrario, ma anzi plausibile che
si sia ritenuto tale presupposto sussistente relativamente al caso in
cui il parlamentare aveva riferito all’esterno della Commissione, in
un convegno pubblico, fatti e circostanze di cui era venuto a
conoscenza nell’esercizio delle sue funzioni, ed aveva nel contempo
manifestato i punti di vista ed i convincimenti che avevano ispirato
o cui avrebbe inteso in prosieguo ispirare sull’argomento il proprio
comportamento in sede parlamentare.
D’altro canto non è messa in dubbio, da alcuna delle parti in
conflitto, la pubblicità che assiste gli atti e i documenti dai
quali il senatore Ricci ha tratto i contenuti dell’informazione resa
al convegno.
Né per delimitare tale presupposto possono essere assunti a
parametro gli orientamenti giurisprudenziali seguiti dal giudice
ordinario e ai quali fa riferimento l’ordinanza del Tribunale civile.
Una volta che, come questa Corte ha affermato (sentenza n. 1150 del
1988 cit.), la prerogativa dell’art. 68, primo comma, della
Costituzione riconosce alle Camere il potere di valutare le
condizioni dell’insindacabilità, potendo e dovendo sul punto, specie
se il parlamentare la eccepisca in giudizio, pronunciarsi il giudice
ordinario ove manchi ogni pronuncia della Camera di appartenenza del
parlamentare, nel caso che quest’ ultima si pronunci le sue
valutazioni non possono certo essere condizionate dai criteri
elaborati da organi della giurisdizione. Pertanto, quando, come nella
specie, la Camera di appartenenza abbia esercitato in concreto il
relativo potere, soggetto esclusivamente al sindacato di questa Corte
e soltanto nei limiti anzidetti, deve considerarsi come inammissibile
ingerenza nella prerogativa parlamentare il pretendere di
sovrapporre, ai criteri seguiti dalla Camera stessa, quelli suggeriti
da orientamenti giurisprudenziali dell’ordine giudiziario, dato che
è proprio nei confronti di questo che è posta dall’art. 68 della
Costituzione la prerogativa dell’insindacabilità a tutela dell’
indipendenza del Parlamento.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara che spetta al Senato della Repubblica affermare
l’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della
Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Ricci – convenuto
per il risarcimento del danno in un procedimento civile – nel
convegno di Venezia in data 11 e 12 dicembre 1983 sul tema “I poteri
occulti nella Repubblica: mafia, camorra, P2, stragi impunite”, e
riprodotte nel volume che ha pubblicato gli Atti del Convegno.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 dicembre 1993.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: CAIANIELLO
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 16 dicembre 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA