Sentenza N. 443 del 1997
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1997
Data deposito/pubblicazione
30/12/1997
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/12/1997
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, prof.
Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI;
36 della legge 4 luglio 1967, n. 580 (Disciplina per la lavorazione e
commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e delle paste
alimentari), promossi con n. 3 ordinanze emesse il 15 giugno 1996 dal
pretore di Pordenone, rispettivamente iscritte ai nn. 960, 961 e 1145
del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica nn. 40 e 43, prima serie speciale, dell’anno 1996;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 21 maggio 1997 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
ordinanza-ingiunzione emessa nei confronti del legale rappresentante
di un pastificio, per avere prodotto e commercializzato pasta
alimentare secca, denominata “specialità gastronomica alle erbe
aromatiche”, contenente ingredienti non consentiti (aglio e
prezzemolo) dalle vigenti disposizioni di legge, il pretore di
Pordenone ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 41, primo
comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
degli artt. 28, 30, 31 e 36 della legge 4 luglio 1967, n. 580
(Disciplina per la lavorazione e commercio dei cereali, degli
sfarinati, del pane e delle paste alimentari).
Il giudice a quo muove da due premesse: la prima è costituita dal
rilievo che, a seguito della giurisprudenza della Corte di giustizia
delle Comunità europee, sulla base del principio di libera
circolazione delle merci, i divieti posti dagli articoli impugnati
non trovano più applicazione nei confronti degli importatori di
paste alimentari, ai quali quindi è consentito introdurre e
commercializzare, nel territorio italiano, paste secche prodotte
all’esteroutilizzando ingredienti non consentiti dalla legislazione
italiana, sempreché tali produzioni siano conformi alle leggi
nazionali e non contrastino con i divieti sanciti in generale, a
tutela della salute, dagli artt. 30 e 36 del trattato CEE. La
seconda si fonda sull’osservazione che la stessa legge n. 580 del
1967, all’art. 50, consente, previa autorizzazione dell’autorità
competente, la produzione di pasta avente requisiti diversi da quelli
prescritti dalla stessa legge, dal regolamento di esecuzione e dai
provvedimenti dell’autorità amministrativa, purché si tratti di
prodotti destinati all’esportazione e non nocivi alla salute umana.
Conseguentemente, sempre secondo il giudice a quo, la pasta, cui si
riferisce l’ordinanza-ingiunzione opposta, potrebbe essere senz’altro
legittimamente importata da uno degli Stati membri della Comunità
ovvero prodotta per l’esportazione, mentre non potrebbe essere
prodotta da un imprenditore italiano per il mercato interno. Di qui
il contrasto della normativa impugnata con l’art. 3 della
Costituzione, dal momento che risulterebbe evidente la irragionevole
disparità di trattamento:
a) tra produttori e importatori del medesimo prodotto, in quanto
i primi, se l’alimento è destinato al mercato interno, non
potrebbero produrre e commercializzare pasta contenente ingredienti
non consentiti, laddove l’importatore potrebbe invece introdurre e
vendere in Italia pasta con tali ingredienti;
b) tra produttori che destinino l’alimento al mercato interno e
produttori che invece lo destinino all’esportazione, i quali ultimi
potrebbero legittimamente commercializzare all’estero un tipo di
pasta contenente ingredienti non consentiti in Italia;
c) tra chi utilizzi alcuni ingredienti non autorizzati per
l’impasto e chi, viceversa, secondo quanto permesso dall’art. 3 del
d.m. 27 settembre 1967, emanato ai sensi dell’art. 30 della legge n.
580, destini gli stessi ingredienti alla preparazione del ripieno
della pasta.
Le medesime disposizioni, inoltre, sarebbero lesive, ad avviso del
remittente, dell’art. 41, primo comma, della Costituzione, dal
momento che le limitazioni all’utilizzazione di taluni ingredienti si
tradurrebbero in illegittimi limiti alla iniziativa economica dei
produttori italiani, la cui attività verrebbe ad essere
irragionevolmente compressa.
Quanto alla rilevanza, infine, il giudice a quo osserva che
l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle
disposizioni impugnate determinerebbe l’annullamento dell’ordinanza
oggetto di opposizione.
2. – Identica questione è stata sollevata dallo stesso pretore di
Pordenone in un altro giudizio di opposizione avverso
un’ordinanza-ingiunzione emessa in relazione alla commercializzazione
di pasta secca non conforme alla normativa vigente per la presenza di
aglio e prezzemolo nell’impasto.
3. – Un’altra questione, identica nelle argomentazioni, ma limitata
agli artt. 28, 30 e 36 della legge n. 580 del 1967, è stata
sollevata dallo stesso pretore di Pordenone nel corso di un giudizio
di opposizione avverso un’ordinanza-ingiunzione emessa per la
produzione e la commercializzazione di paste alimentari (denominate,
rispettivamente, Specialità al peperaglio, Specialità al nero di
seppia e Specialità del Chianti) contenenti ingredienti non
consentiti, quali l’aglio, il peperoncino, il nero di seppia e la
barbabietola.
4. – È intervenuto nei giudizi introdotti con la prima e con la
terza ordinanza il Presidente del Consiglio dei Ministri, con atti di
identico contenuto, sostenendo che la questione sarebbe priva di
fondamento, dal momento che le situazioni poste a raffronto dal
giudice a quo apparirebbero disomogenee, mentre il quadro normativo
sarebbe univoco nello stabilire che chiunque (italiano, comunitario o
straniero) produca pasta alimentare in Italia è obbligato a
utilizzare soltanto gli ingredienti consentiti dalla normativa
nazionale. L’Avvocatura osserva, infatti, che, per quanto riguarda la
prospettata disparità di trattamento tra produttori nazionali e
importatori, il trattamento riservato dalla legge italiana ai
produttori di pasta alimentare sarebbe esclusivamente collegato
all’ubicazione dello stabilimento di produzione, e che ciò
costituirebbe un dato rispetto al quale il fatto che nel mercato
italiano, in virtù dell’art. 30 del trattato CEE, debba circolare
pasta prodotta in altri Paesi apparirebbe del tutto irrilevante.
Analogamente, ad avviso dell’Avvocatura, non potrebbero essere
poste a raffronto la posizione del produttore per il mercato interno
e del produttore per l’esportazione, né l’operazione di preparazione
dell’impasto con quella di preparazione del ripieno. A quest’ultimo
proposito l’Avvocatura rileva, comunque, che la questione sarebbe
inammissibile, dal momento che la disciplina della preparazione del
ripieno è posta da un decreto ministeriale e non dalle disposizioni
impugnate.
Infondata, sarebbe, infine, sempre ad avviso dell’Avvocatura, la
dedotta violazione dell’art. 41, primo comma, della Costituzione,
posto che le disposizioni censurate mirerebbero a favorire la
qualità del prodotto e, quindi, la sua affermazione sui mercati con
beneficio dell’economia nazionale. Non si avrebbe, dunque, nel caso
di specie, una compressione dell’iniziativa economica, bensì una sua
regolamentazione ispirata al conseguimento di risultati economici
discrezionalmente valutati.
diverse ordinanze dal pretore di Pordenone, ha ad oggetto gli artt.
28, 30, 31 e 36 della legge 4 luglio 1967, n. 580, nella parte in cui
prescrivono che per la produzione industriale di paste alimentari
secche non possono essere utilizzati ingredienti diversi da quelli da
essi stessi indicati o autorizzati con il decreto del Ministro della
sanità previsto dall’art. 30.
Ad avviso del giudice a quo, tali disposizioni contrasterebbero con
gli artt. 3 e 41, primo comma, della Costituzione. Quanto all’art.
3, il remittente denuncia la disparità di trattamento tra i
produttori nazionali, ai quali viene imposto di produrre e vendere in
Italia pasta confezionata unicamente con gli ingredienti autorizzati,
e gli importatori, ai quali è consentito introdurre in Italia per la
vendita prodotti di altri Paesi comunitari realizzati, secondo le
regole del Paese di origine, con materie prime anche diverse. Eguale
disparità di trattamento sussisterebbe poi tra i produttori che
destinino l’alimento al mercato interno e quelli che, invece, lo
esportino, ai quali ultimi è consentito produrre per l’esportazione
nella Comunità prodotti realizzati, secondo le regole del Paese a
cui sono destinati, con materie prime anche diverse da quelle
autorizzate in Italia. Il giudice a quo rileva, infine, un’ulteriore
irragionevole discriminazione tra i produttori che utilizzino alcuni
ingredienti per il ripieno delle paste e quelli che gli stessi
ingredienti utilizzino per l’impasto, essendo la prima ipotesi
consentita e la seconda vietata dal decreto ministeriale di cui si è
detto.
Il remittente deduce anche la violazione dell’art. 41, primo comma,
della Costituzione, perché risulterebbe ingiustificatamente
compresso il diritto di iniziativa economica dei produttori
nazionali.
Poiché le ordinanze di rimessione hanno ad oggetto le medesime
disposizioni, i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi con
unica sentenza.
2. – Deve innanzitutto essere dichiarata l’inammissibilità, per
difetto di rilevanza, della questione concernente l’art. 28 della
legge n. 580 del 1967, dal momento che tale disposizione si limita a
prescrivere le caratteristiche di fabbricazione dei prodotti
denominati pasta di semola di grano duro e pasta di semolato di grano
duro, mentre nei giudizi a quibus non si pone un problema di
denominazione dei prodotti ai quali si riferiscono gli illeciti
amministrativi oggetto di contestazione, ma solo di presenza, in quei
prodotti, di ingredienti diversi da quelli autorizzati con decreto
del Ministro della sanità ai sensi dell’art. 30 della medesima
legge.
Inammissibile è, altresì, la questione relativa all’art. 31, in
quanto tale disposizione ha ad oggetto la produzione di pasta con
impiego di uova e ne prescrive le caratteristiche, mentre la
possibilità di utilizzare anche nella fabbricazione delle paste
all’uovo ingredienti diversi risulta disciplinata e sottoposta a
limitazioni dal precedente art. 30.
3. – Delle residue disposizioni censurate nelle ordinanze di
rimessione, solo all’art. 30 sono astrattamente ascrivibili i vizi
denunciati. Tale disposizione, invero, nel consentire la produzione
di paste speciali contenenti vari ingredienti alimentari,
subordinatamente all’autorizzazione del Ministro della sanità di
concerto con i Ministri per l’agricoltura e foreste (oggi Ministro
per le politiche agricole) e per l’industria, per il commercio e per
l’artigianato (primo comma, secondo periodo), prevede che nel decreto
siano stabilite le norme e le modalità per l’impiego e, nel caso,
per la produzione, il commercio e la conservazione; e stabilisce per
quest’ultima che, ove necessario, sia prescritta l’indicazione della
data di fabbricazione e della durata di conservabilità degli
ingredienti autorizzati (primo comma, ultima parte). L’art. 36
invece, prevedendo il divieto di vendere o di detenere per la vendita
pasta avente caratteristiche diverse da quelle stabilite nella stessa
legge, non assume, per la parte che rileva nel presente giudizio (in
cui si tratta di una fattispecie di impiego di ingredienti diversi da
quelli autorizzati), un rilievo autonomo, discendendo il suo
contenuto prescrittivo da quello di altre disposizioni tra le quali,
appunto, l’art. 30. Le censure che investono l’art. 36 devono,
pertanto, ritenersi assorbite in quelle concernenti l’art. 30, e in
questo senso devono essere ritenute prive di fondamento.
4. – Così individuato l’oggetto scrutinabile nel merito, la
questione è fondata.
Come già questa Corte ha riconosciuto, fin dalla sentenza n. 20
del 1980, la disciplina posta dalla legge 4 luglio 1967, n. 580, in
materia di produzione e di vendita di paste alimentari, ha lo scopo
di proteggere caratteristiche qualitative proprie della tradizione
nazionale ritenute dal legislatore meritevoli di essere
salvaguardate. La stessa materia è tuttavia assoggettata anche alle
qualificazioni del diritto comunitario, alla luce delle quali quella
finalità resta largamente frustrata. In assenza di regolamenti
comunitari o di direttive di armonizzazione delle diverse discipline
vigenti negli Stati membri, il principio operante in ambito europeo
è quello della libera circolazione delle merci (fissato dagli artt.
30 e seguenti del trattato istitutivo della Comunità europea). In
forza di tale principio, quale esso si è concretizzato nella
giurisprudenza della Corte di giustizia della comunità, non è
consentito ad uno Stato membro applicare una normativa nazionale che
limiti l’importazione di merci prodotte e messe in commercio secondo
le leggi dello Stato membro di provenienza. E così, in base al
diritto comunitario, lo Stato italiano, salvo che per le finalità di
cui ora si dirà, non può porre ostacoli a che in uno Stato membro
vengano prodotte e destinate al consumo in Italia paste alimentari
contenenti ingredienti diversi da quelli autorizzati dalla legge
nazionale ma consentiti dal diritto comunitario. Se questo è il
contesto nel quale le imprese nazionali sono chiamate ad operare, è
di tutta evidenza che ogni limitazione imposta dalla legislazione
nazionale alla fabbricazione e alla commercializzazione delle paste
alimentari nel territorio italiano, che non rinvenga nel trattato o,
più in generale, nel diritto comunitario il proprio fondamento
giustificativo, così da poter essere applicata egualitariamente nei
confronti di tutta la produzione commercializzata in Italia, si
risolve in uno svantaggio competitivo e, in ultima analisi, in una
vera e propria discriminazione in danno delle imprese nazionali.
Queste vengono ad essere per legge vincolate all’osservanza di regole
finalizzate alla salvaguardia delle tradizioni alimentari italiane,
laddove è consentito (o meglio, non può essere impedito)
all’impresa comunitaria destinare al mercato italiano prodotti aventi
caratteristiche difformi da quelle tradizionali.
Proprio in materia di interscambio comunitario di merci, deroghe al
principio di libera circolazione dei beni potrebbero in astratto
trovare nello stesso trattato il proprio titolo di legittimazione:
l’art. 36 giustifica, infatti, restrizioni all’importazione per
specificati motivi di interesse pubblico, tra i quali assumono
preminente rilievo, in materia di circolazione di prodotti
alimentari, la tutela della salute umana e, nell’interpretazione
della giurisprudenza comunitaria, la tutela dei consumatori.
Ma, nel nostro caso, in cui la stessa Corte di giustizia, nella
sentenza 14 luglio 1988 in causa 90/1986, Zoni, ha escluso che la
disciplina introdotta dalla legge n. 580 del 1967 sia necessaria per
rispondere ad esigenze imperative come la difesa dei consumatori o la
lealtà dei negozi commerciali o la tutela della salute pubblica, la
questione è se vincoli di protezione di tradizioni alimentari
possano essere legislativamente imposti dalle leggi nazionali anche
al di là di quanto giustificabile alla stregua del diritto
comunitario.
5. – Quello al quale si è ora accennato è il tema delle
cosiddette “discriminazioni a rovescio”: situazioni di disparità in
danno dei cittadini di uno Stato membro, o delle sue imprese, che si
verificano come effetto indiretto dell’applicazione del diritto
comunitario. Va chiarito che in questa sede non interessa accertare
quale sia il regime comunitario di simili discriminazioni, chiedersi
se ed entro quali limiti esse siano rilevanti e possano essere
denunciate di fronte agli organi della Comunità europea, come da
taluno si sostiene, o se restino ancor oggi, in quell’ordinamento,
del tutto irrilevanti come indurrebbe a ritenere un’analisi della
giurisprudenza della Corte di giustizia. È peraltro significativo
che proprio nella citata sentenza in causa Zoni, che riguarda
specificamente la legge della quale oggi si discute, si afferma che
“il diritto comunitario non esige che il legislatore abroghi la legge
per quanto attiene ai produttori di pasta stabiliti sul territorio
italiano”. Ed in effetti, risponde ad una ben nota visione dei
rapporti tra diritto comunitario e diritto interno ispirata alla
separazione dei due ordinamenti, comunitario e nazionale, della quale
la citata sentenza della Corte di giustizia non è la sola
espressione, che provvedimenti legislativi discriminatori in danno
delle imprese nazionali siano di regola irrilevanti nel diritto
comunitario. Salvaguardato il principio di libera circolazione delle
merci ed assicurata, nei rapporti tra Stati, l’attuazione del divieto
di restrizioni quantitative all’importazione o di misure di effetto
equivalente, gli Stati membri resterebbero liberi di adottare,
unilateralmente, una normativa che, senza toccare i prodotti
importati, tenda a migliorare la qualità della produzione nazionale
o a mantenerla conforme alle tradizioni alimentari interne, anche
oltre quanto necessario per assicurare la tutela della salute umana e
degli altri valori che, nel trattato, fungono da limite al principio
di libertà della circolazione delle merci. Un eventuale
atteggiamento di tolleranza nei confronti delle “discriminazioni a
rovescio” rientrerebbe, insomma, per il diritto comunitario, tra le
scelte consentite agli Stati membri, interamente rimesse alla loro
libera autodeterminazione di Stati sovrani.
Ma – si diceva – in questa sede non è il punto di vista
comunitario che interessa. Anche a voler ritenere che, nell’attuale
fase evolutiva del processo di integrazione europea, sia questo un
portato del rapporto di separazione che tuttora sussiste tra
ordinamento comunitario e ordinamento interno, è certo che
all’impatto con il nostro sistema giuridico, quello spazio di
sovranità che il diritto comunitario lascia libero allo Stato
italiano può non risolversi in pura autodeterminazione statale o in
mera libertà del legislatore nazionale, ma è destinato ad essere
riempito dai principii costituzionali e, nella materia di cui si
tratta, ad essere occupato dal congiunto operare del principio di
eguaglianza e della libertà di iniziativa economica, tutelati dagli
artt. 3 e 41 della Costituzione, che sono stati invocati a parametro
dal giudice remittente.
6. – La disparità di trattamento tra imprese nazionali e imprese
comunitarie, seppure è irrilevante per il diritto comunitario, non
lo è dunque per il diritto costituzionale italiano. Non potendo
essere da questo risolta mediante l’assoggettamento delle seconde ai
medesimi vincoli che gravano sulle prime, poiché vi osta il
principio comunitario di libera circolazione delle merci, la sola
alternativa praticabile dal legislatore – in assenza di altre ragioni
giustificatrici costituzionalmente fondate – è l’equiparazione della
disciplina della produzione delle imprese nazionali alle discipline
degli altri Stati membri nei quali non esistano vincoli alla
produzione e alla commercializzazione analoghi a quelli vigenti nel
nostro Paese.
In definitiva, in assenza di una regolamentazione uniforme in
ambito comunitario, il principio di non discriminazione tra imprese
che agiscono sullo stesso mercato in rapporto di concorrenza, opera,
nella diversità delle discipline nazionali, come istanza di
adeguamento del diritto interno ai principii stabiliti nel trattato
agli artt. 30 e seguenti; opera, quindi, nel senso di impedire che
le imprese nazionali siano gravate di oneri, vincoli e divieti che il
legislatore non potrebbe imporre alla produzione comunitaria: il che
equivale a dire che nel giudizio di eguaglianza affidato a questa
Corte non possono essere ignorati gli effetti discriminatori che
l’applicazione del diritto comunitario è suscettibile di provocare.
7. – Va infine chiarito che il vizio di legittimità costituzionale
investe immediatamente la legge e non potrebbe essere imputato
all’eventuale regolamento adottato ai sensi dell’art. 30 dal Ministro
della sanità, di concerto con il Ministro per l’agricoltura e
foreste (oggi Ministro per le politiche agricole) e con il Ministro
dell’industria. Ed invero, l’interpretazione letterale e sistematica
della legge 4 luglio 1967, n. 580, conduce alla univoca soluzione che
questa, non solo non ha recepito il divieto, imposto dagli artt. 3 e
41 della Costituzione, di discriminare la produzione nazionale delle
paste alimentari, ma lo ha del tutto ignorato, lasciando, sul punto,
ampia discrezionalità alla fonte regolamentare nel contesto di una
disciplina ispirata alla protezione delle tradizioni alimentari
nazionali. La stessa idea che l’utilizzazione di ingredienti
ulteriori, anche se leciti nella legislazione dei Paesi membri
dell’Unione, debba essere sottoposta a una autorizzazione nella quale
possono essere tutelati interessi diversi dall’igiene e dalla salute
umana o da altri valori cogenti per il trattato e per la Costituzione
italiana, rende la disposizione che tale autorizzazione prevede
senz’altro incompatibile con il principio costituzionale di non
discriminazione della produzione interna.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 30 della legge 4 luglio 1967, n. 580 (Disciplina per la
lavorazione e commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e
delle paste alimentari), nella parte in cui non prevede che alle
imprese aventi stabilimento in Italia è consentita, nella produzione
e nella commercializzazione di paste alimentari, l’utilizzazione di
ingredienti legittimamente impiegati, in base al diritto comunitario,
nel territorio della Comunità europea;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 36 della suindicata legge 4 luglio 1967, n. 580, sollevata
dal pretore di Pordenone, in riferimento agli artt. 3 e 41, primo
comma, della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe;
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 28 e 31 della suindicata legge 4 luglio 1967, n. 580,
sollevata dal pretore di Pordenone, in riferimento agli artt. 3 e 41,
primo comma, della Costituzione, con le ordinanze indicate in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.
Il cancelliere: Fruscella