Sentenza N. 446 del 1997
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1997
Data deposito/pubblicazione
30/12/1997
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/12/1997
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale
MARINI;
del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 14
novembre 1996 dalla Corte d’appello di Bologna, iscritta al n. 134
del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 1997;
Udito nella camera di consiglio del 15 ottobre 1997 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
per riparazione di ingiusta detenzione, con ordinanza in data 14
novembre 1996, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, primo
e quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 315, comma 1, del codice di procedura
penale, nella parte in cui prevede che la domanda di riparazione per
l’ingiusta detenzione deve essere proposta, a pena
d’inammissibilità, entro diciotto mesi dal giorno in cui il
provvedimento di archiviazione è stato pronunciato, anziché dalla
notifica di detto provvedimento all’interessato, che abbia subito
custodia cautelare, ovvero dalla conoscenza effettiva
dell’archiviazione comunque da costui diversamente acquisita.
Il remittente premette che la questione deve ritenersi senz’altro
rilevante, in quanto la domanda di equa riparazione è stata proposta
nel giudizio a quo oltre il termine di diciotto mesi dalla pronuncia
del provvedimento di archiviazione.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice
a quo rileva che, ai sensi dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen.,
chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto
non sussiste, per non avere commesso il fatto, perché il fatto non
costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha
diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita,
qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa
grave. Lo stesso diritto, a norma del comma 2 del medesimo art. 314,
spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel
corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando
con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che
ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che
sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt.
273 e 280.
Tali disposizioni si applicano, alle medesime condizioni, a favore
delle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di
archiviazione (art. 314, comma 3) e, tuttavia – osserva il remittente
– il sistema normativo vigente non prevede alcun adempimento inteso a
portare a conoscenza dell’interessato né la pronuncia del
provvedimento di archiviazione, né altri atti che a quella pronuncia
preludano.
In questo quadro, secondo la Corte d’appello di Bologna, l’art.
315, comma 1, cod. proc. pen. solo in apparenza regolerebbe in
maniera eguale casi che di eguale trattamento necessiterebbero, dal
momento che l’interessato è posto in grado di conoscere l’esistenza
soltanto dei provvedimenti pronunciati nei suoi confronti nella forma
della sentenza – attraverso il sistema delle notifiche previsto a
pena di nullità nell’ambito dei relativi processi – e non anche del
provvedimento di archiviazione.
La disposizione censurata determinerebbe, inoltre, una irrazionale
compressione del diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione
per chi sia stato destinatario di un provvedimento di archiviazione,
poiché in questo caso “il diritto alla riparazione nasce, e il
termine per il suo esercizio inizia a decorrere, ad insaputa
dell’interessato”.
costituzionale dell’art. 315, comma 1, del codice di procedura
penale, nella parte in cui prevede che la domanda per la riparazione
per l’ingiusta detenzione deve essere proposta, a pena di
inammissibilità, entro diciotto mesi dal giorno in cui il
provvedimento di archiviazione è stato pronunciato, anziché dalla
notifica di detto provvedimento all’interessato, che abbia sofferto
custodia cautelare, ovvero dalla conoscenza effettiva
dell’archiviazione da lui comunque acquisita.
Secondo il giudice a quo, la disposizione censurata contrasterebbe
con l’art. 3 della Costituzione, per il trattamento deteriore
riservato a chi proponga domanda di riparazione a seguito di
pronuncia di provvedimento di archiviazione, rispetto a chi avanzi la
medesima domanda a seguito di sentenza di proscioglimento o di
condanna divenuta irrevocabile, o di sentenza di non luogo a
procedere divenuta inoppugnabile, poiché solo in queste ultime
ipotesi, attraverso le notifiche, l’interessato sarebbe posto in
grado di conoscere tempestivamente il momento in cui inizia a
decorrere il termine per la proposizione di detta domanda.
Alla base delle argomentazioni del remittente sta la constatazione
che il sistema normativo vigente non prevede alcun adempimento inteso
a portare a conoscenza dell’interessato né la pronuncia del
provvedimento di archiviazione, né altri atti che a quella pronuncia
preludono. Di conseguenza, secondo il giudice a quo, l’art. 315,
comma 1, del codice di procedura penale, contrasterebbe anche con
l’art. 24, primo e quarto comma, della Costituzione, per
l’irrazionale compressione che, in caso di archiviazione, subirebbe
il diritto all’equa riparazione, in quanto tale diritto sorgerebbe (e
il termine per il suo esercizio inizierebbe a decorrere) “ad insaputa
dell’interessato”.
2. – La questione è fondata.
La disciplina vigente crea la disparità di trattamento censurata
dal giudice a quo, in una materia in cui vengono in considerazione il
principio di riparazione dell’errore giudiziario insieme al diritto
fondamentale alla tutela giurisdizionale.
Nonostante che la decorrenza e la durata del termine per il
promovimento dell’azione siano regolate in maniera apparentemente
eguale per tutte le situazioni previste dall’art. 315, comma 1, cod.
proc. pen., queste risultano tra loro diverse proprio in relazione
alle differenti opportunità che l’ordinamento offre all’interessato
di conoscere con tempestività il momento in cui il diritto all’equa
riparazione è sorto ed è azionabile.
Nelle ipotesi in cui il diritto nasce a seguito di una sentenza
irrevocabile di proscioglimento o di condanna, o a seguito di una
sentenza inoppugnabile di non luogo a procedere, l’interessato, come
rileva il giudice remittente, è a conoscenza delle diverse fasi del
processo attraverso le quali si perviene alla irrevocabilità o alla
inoppugnabilità della decisione: dapprima è avvertito dell’udienza
preliminare, se vi è stata richiesta di rinvio a giudizio, ovvero
della data dell’udienza dibattimentale a seguito del decreto che
dispone il giudizio, o del decreto di giudizio immediato; la sentenza
viene pubblicata e, se vi è contumacia, notificata; quindi dei
successivi gradi di giudizio, delle relative sentenze e delle
eventuali ordinanze di inammissibilità dei mezzi di gravame
proposti, egli ha notizia grazie al sistema delle notifiche, la cui
regolarità è garantita all’imputato dalle sanzioni di nullità
previste dal codice di procedura. La diligenza che si richiede in
questi casi all’interessato è davvero minima: per conoscere il
momento in cui il suo diritto alla riparazione sorge, gli è
sufficiente, se non vuole essere presente al momento della
pubblicazione della sentenza, prestare attenzione alle notifiche e
agli avvisi che via via riceve durante il processo. Non così nel
caso di provvedimento di archiviazione: il diritto all’equa
riparazione sorge e il termine per la proposizione della relativa
domanda inizia a decorrere all’insaputa del titolare; per lui nessun
mezzo appresta l’ordinamento per favorire la conoscenza del
provvedimento.
3. – Il principio secondo il quale, una volta stabilito un termine
di decadenza, l’interessato deve essere posto in condizione di
conoscerne la decorrenza iniziale senza l’imposizione di oneri
eccedenti la normale diligenza è stato affermato più volte dalla
giurisprudenza di questa Corte (cfr. sentenze nn. 185 del 1988, 134
del 1985, 14 del 1977, 255 del 1974 e 159 del 1971). Si trattava, è
vero, di fattispecie in cui il termine di decadenza, sostanziale o
processuale, era più breve di quello previsto dall’art. 315, comma
1, del codice di procedura penale. Ma in questo caso ulteriori e
decisivi argomenti inducono a valutare con maggior rigore una vicenda
in cui nessuna agevolazione è data all’interessato ai fini della
conoscenza che è affidata esclusivamente al suo impegno personale.
È risolutiva, per dimostrare l’assenza di un ragionevole
fondamento della disparità di trattamento ora evidenziata, la
considerazione delle peculiarità della fattispecie, che la
differenziano profondamente dalle altre, pure astrattamente
comparabili, sulle quali questa Corte si è in passato pronunciata in
materia di congruità di termini stabiliti a pena di inammissibilità
e di doveri di diligenza delle parti; peculiarità che fanno apparire
manifestamente irrazionale, in relazione ad essa, il fatto che il
legislatore abbia mancato di apprestare un qualche ausilio idoneo a
favorire la conoscenza tempestiva del provvedimento da parte
dell’interessato ed abbia scelto in proposito di gravare quest’ultimo
di ogni onere. Ne è risultata in effetti una distribuzione a senso
unico degli oneri processuali, che non si addice all’insieme dei
valori coinvolti nella vicenda della ingiusta detenzione e
all’equilibrato e coerente bilanciamento che essa richiede.
Il solo fatto che operi nel nostro ordinamento, come innovazione
introdotta nel 1988, l’istituto regolato dagli artt. 314 e ss. del
codice di procedura penale dimostra indubbiamente che, nella visione
del legislatore, al rapporto tra cittadini e Stato in relazione
all’esercizio della giurisdizione penale cautelare, per la quale sono
essenziali poteri coercitivi incidenti sulla libertà personale, non
sono estranei momenti di solidarietà. Infatti, l’esborso a cui lo
Stato è tenuto per ingiusta detenzione, nella ormai consolidata
elaborazione della giurisprudenza dei giudici comuni, si configura
non come risarcimento del danno derivante da un fatto illecito
ascrivibile ad alcuno a titolo di dolo o di colpa o anche
subiettivamente non imputabile, ma come misura riparatoria e
riequilibratrice, e in parte compensatrice della ineliminabile
componente di alea per la persona, propria della giurisdizione penale
cautelare. La riparazione dell’ingiusta detenzione è dunque dotata
di un fondamento squisitamente solidaristico: in presenza di una
lesione della libertà personale rivelatasi comunque ingiusta con
accertamento ex post, la legge, in considerazione della qualità del
bene offeso, ha riguardo unicamente alla oggettività della lesione
stessa.
4. – Se questa è la natura dell’istituto, la previsione della
notificazione del provvedimento di archiviazione – in assenza di
qualsiasi avviso che preannunci l’eventualità di un simile epilogo
del procedimento – non solo si addice al suo inequivoco significato
solidaristico ma è da ritenere, in una ideale gerarchia degli atti
di riparazione, il primo fra quelli ai quali lo Stato è tenuto nei
confronti di chi, innocente, abbia subìto ingiusta detenzione; primo
e, si aggiunga, indefettibile alla luce del canone di ragionevolezza,
anche in considerazione della tenuità degli oneri organizzativi che
la notificazione comporta per l’amministrazione della giustizia, al
raffronto con il ben più gravoso impegno che rappresenta per il
cittadino l’attività di informazione e di ricerca della notizia. Il
rimettere dunque interamente all’interessato l’onere di iniziativa
finalizzata alla conoscenza del provvedimento di archiviazione altera
profondamente la fisionomia dell’istituto, suona come odioso aggravio
della situazione di ingiustizia che si è determinata, e rende oscura
e contraddittoria la complessiva ratio della disciplina: da un lato,
questa suscita l’idea di uno Stato che di fronte a ingiuste
compressioni della libertà personale ispira la sua azione a principi
di solidarietà, che lo inducono a concepire, nell’alveo scavato
dall’art. 24, quarto comma, della Costituzione, una riparazione in
assenza di fatti illeciti o di responsabilità imputabili ad alcuno;
dall’altro, evoca l’immagine opposta: uno Stato così dimentico delle
vicissitudini della libertà personale dei cittadini che non avverte
neppure l’esigenza di dar notizia ad essi del fatto che la
coercizione subi’ta a causa dell’esercizio della giurisdizione penale
cautelare si è appalesata obiettivamente ingiusta.
Tanto più irragionevole appare l’omissione se si considera che
essa riguarda proprio il provvedimento di archiviazione che,
nell’elencazione dell’art. 315, rappresenta l’ipotesi nella quale
più evidente risulta l’ingiustizia della detenzione e più manifesta
l’esigenza di rendere noto all’interessato l’esito favorevole del
procedimento. Negli altri casi previsti dal citato art. 315 cod.
proc. pen. (sentenza di proscioglimento o di condanna divenuta
irrevocabile; sentenza di non luogo a procedere divenuta
inoppugnabile), infatti, il sacrificio imposto alla libertà
personale è comunque connesso all’esercizio dell’azione penale che
si presume essere intervenuto; per di più l’interessato, come detto,
ha più facilmente modo di conoscere, attraverso le notificazioni
previste in relazione a un processo poi definito, il momento iniziale
della decorrenza del termine stabilito per l’esperimento dell’azione
riparatoria. Nel caso del provvedimento di archiviazione, invece, né
vi è stato esperimento dell’azione penale, né è prevista
notificazione della decisione di non esercitarla, con la conseguenza
che chi ha subìto detenzione viene lasciato completamente all’oscuro
dell’esistenza dell’atto che ne determina l’oggettiva ingiustizia,
con l’onere, irragionevole in questo contesto, di scoprirlo da solo;
quasi che nei confronti della libertà personale dei cittadini lo
Stato, resosi attivo per comprimerla, possa rimanere passivo ed
inerte quando si tratti di rendere più agevolmente esperibili rimedi
riparatori o compensativi nei casi in cui quella libertà sia stata
ingiustamente offesa.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 315, comma 1,
del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che il
termine per proporre la domanda di riparazione decorre dalla
pronuncia del provvedimento di archiviazione, anziché dal giorno in
cui, ricorrendo le condizioni previste dall’art. 314, comma 3, del
codice di procedura penale, è stata effettuata la notificazione del
provvedimento di archiviazione alla persona nei cui confronti detto
provvedimento è stato pronunciato.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.
Il cancelliere: Fruscella