Sentenza N. 447 del 1998
Corte Costituzionale
Data generale
28/12/1998
Data deposito/pubblicazione
28/12/1998
Data dell'udienza in cui è stato assunto
15/12/1998
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI;
nel testo introdotto dall’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234,
promossi con ordinanze emesse il 7 agosto 1997 dal giudice per le
indagini preliminari presso il tribunale di Bolzano, iscritta al n.
683 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 1997; il 5
gennaio 1998 dal tribunale di Firenze, iscritta al n. 365 del
registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 1998;
Visto l’atto di costituzione di Bracciali Renzo nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 27 ottobre 1998 il giudice relatore
Valerio Onida;
Udito l’avvocato Giovanni Flora per Bracciali Renzo e l’Avvocato
dello Stato Paolo di Tarsia di Belmonte per il Presidente del
Consiglio dei Ministri.
Corte il 17 settembre 1997 (r.o. n. 683 del 1997), il giudice per le
indagini preliminari presso il tribunale di Bolzano ha sollevato
d’ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento
agli artt. 3, primo e secondo comma, 79 e 97, primo comma, della
Costituzione, dell’art. 323 del codice penale (Abuso d’ufficio), come
sostituito dall’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica
dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e
degli artt. 289, 416, 555 del codice di procedura penale).
Dopo avere accennato al caso concreto posto al suo esame, nel quale
il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione per infondatezza
della notizia di reato, e la parte offesa ha proposto opposizione, il
giudice a quo che ritiene emergano “ipotesi di prepotenza del potere
di fronte all’inerme cittadino”, si pone il problema di come i fatti
dovessero configurarsi in forza dell’art. 323 cod. pen. quale vigente
all’epoca dei medesimi, e come debbano essere configurati alla luce
del nuovo testo dell’art. 323. Il remittente ricorda l’evoluzione
legislativa che ha portato dapprima alla riforma dei reati contro la
pubblica amministrazione realizzata con la legge 26 aprile 1990, n.
86, e in questo ambito alla riformulazione della norma sull’abuso
d’ufficio. In proposito, ritenendo infondati i dubbi di legittimità
costituzionale che erano stati sollevati sul testo dell’art. 323 cod.
pen. come recato dalla legge n. 86 del 1990, sostiene che sarebbe
stato vano cercare di precisare meglio le condotte criminose
costituenti abuso, e che lo Stato ha il dovere di punire penalmente
le condotte di abuso più gravi tra le quali il “favoritismo”: del
resto la figura del reato a condotta libera sarebbe ben nota al
nostro codice penale.
Aggiunge il giudice a quo che dopo la riforma del 1990 il reato di
abuso d’ufficio si era venuto configurando, ad opera della dottrina e
della giurisprudenza, in modo chiaro ed organico: elemento chiave del
reato sarebbe stata la strumentalizzazione dell’ufficio in vista di
un risultato ingiusto, con una indistricabile connessione tra
l’elemento soggettivo e quello oggettivo del reato. Per aversi abuso
non occorreva che si fosse in presenza di un atto illegittimo, e
nemmeno necessariamente di un atto amministrativo, mentre
l'”ingiustizia” doveva connotare il risultato dell’atto. Si
richiedeva il dolo specifico consistente nel fine di avvantaggiare o
di danneggiare altri: ma, osserva il remittente, in genere vi è una
tale commistione tra elemento soggettivo ed elemento oggettivo che si
finiva inevitabilmente per ravvisare il dolo in ogni caso in cui i
rapporti fra funzionario e soggetto favorito o danneggiato rendono
evidente il comportamento abusivo. Questo sistema, che il remittente
qualifica “coerente e razionale”, sarebbe stato profondamente
alterato dal nuovo testo dell’art. 323 recato dall’art. 1 della legge
n. 234 del 1997, secondo il quale si ha abuso solo se il pubblico
ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio agisce in violazione di
norme di legge o di regolamento o omette di astenersi nei casi
prescritti, e solo se l’azione procura intenzionalmente un ingiusto
vantaggio patrimoniale allo stesso agente o ad altri o arreca ad
altri un danno ingiusto.
In tal modo, ad avviso del remittente, si consentirebbe il
favoritismo realizzato senza violazione di specifiche norme
imperative, si lascerebbe impunita l’omessa astensione in presenza di
un interesse di persone con le quali l’agente abbia un rapporto
diverso da quello del prossimo congiunto, e si escluderebbe il reato
in assenza di un vantaggio patrimoniale o di un danno effettivamente
procurati e non solo perseguiti. Onde la norma legittimerebbe, oltre
al favoritismo, anche la prepotenza burocratica, il potere esercitato
senza il rispetto delle leggi.
Il nuovo testo dell’art. 323 contrasterebbe però, in primo luogo,
con l’art. 3, primo comma, della Costituzione, in quanto situazioni
di eguale gravità, altrettanto socialmente riprovevoli,
riceverebbero diverso trattamento sulla base dell’irrazionale
criterio della sussistenza o meno di una violazione di legge,
assicurandosi impunità alle condotte subdole e agli atti illeciti
posti in essere per interposta persona con scambi di favori.
Contrasterebbe, ancora, con lo stesso art. 3, primo comma, in
quanto la norma, che lascerebbe impuniti favoritismi e prepotenze,
diverrebbe strumento di disuguaglianza fra i cittadini.
In terzo luogo, sarebbe violato l’art. 3, secondo comma, della
Costituzione, perché il legislatore sarebbe “venuto meno al dovere
di rimuovere gli ostacoli che si possono frapporre alla libertà ed
eguaglianza dei cittadini”. In quarto luogo, la disposizione
denunciata contrasterebbe con l’art. 79 della Costituzione, che
prevede l’approvazione a maggioranza di due terzi delle leggi di
amnistia e di indulto: di fronte alla difficoltà di ottenere una
maggioranza qualificata, il Parlamento avrebbe fatto ricorso
“all’escamotage dell’abolitio criminis”, procedimento sulla cui
legittimità sarebbe lecito sollevare qualche dubbio.
Infine sarebbe violato l’art. 97, primo comma, della Costituzione,
in quanto il buon andamento e l’imparzialità della pubblica
amministrazione non potrebbero essere assicurati da una norma che
consenta favoritismi e prepotenze dei funzionari e dei pubblici
amministratori, e impedisca di indagare sugli ingiusti vantaggi che
sarebbero il sintomo visibile più evidente della corruzione. La
questione sollevata sarebbe, ad avviso del remittente, rilevante in
quanto, secondo la norma anteriore (di cui quindi il giudice a quo
postula l’applicabilità in caso di accoglimento della questione), e
secondo i principi affermatisi nel suo vigore, nella specie
sussisterebbero sufficienti elementi di prova per disporre la
fissazione dell’udienza di discussione per il rinvio degli atti al
pubblico ministero e l’elevazione della imputazione a carico degli
indagati; secondo la norma sopravvenuta, invece, il reato di abuso
d’ufficio non sarebbe più configurabile, e dunque si dovrebbe
accogliere la richiesta di archiviazione.
2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
L’interveniente osserva che il giudice a quo muove alla nuova
formulazione dell’art. 323 critiche di ordine politico-criminale,
ponendo in discussione scelte istituzionalmente rimesse alla
discrezionalità del legislatore, salvo il caso di manifesta
irragionevolezza. La limitazione dell’ambito della fattispecie
dell’abuso ai casi di violazione di norme costituirebbe una tipica
scelta discrezionale, per nulla irragionevole, e risponderebbe alla
logica di una migliore definizione dei confini dell’illecito penale,
escludendo le condotte meno significative sul piano oggettivo e,
dall’altro lato, quelle la cui identificazione postulerebbe un
sindacato del giudice sui “motivi” dell’azione amministrativa, e in
particolare gli atti viziati da eccesso di potere.
Le censure fondate sugli articoli 79 e 97 della Costituzione
sarebbero poi del tutto inconsistenti: la prima, perché il profilo
di illegittimità ipotizzato inficerebbe, se fosse realmente
sussistente, ogni norma che rechi una parziale o totale abolitio
criminis; la seconda, perché i principi costituzionali di buon
andamento e imparzialità non comportano che qualunque condotta con
essi contrastante debba essere colpita con sanzioni penali, ben
potendo il legislatore ritenere sufficienti sanzioni di altra natura.
3. – Con ordinanza emessa il 5 gennaio 1998, pervenuta a questa
Corte l’11 maggio 1998 (r.o. n. 365 del 1998), il tribunale di
Firenze ha a sua volta sollevato d’ufficio questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 97 della
Costituzione, dell’art. 323 cod. pen. così come modificato
dall’art. 1 della legge n. 234 del 1997. Osserva il tribunale di
essere chiamato, a seguito di istanza dell’imputato, a valutare se il
fatto a questi addebitato non sia più previsto dalla legge come
reato a seguito della modifica del testo dell’art. 323 cod. pen., e
cioè se l’imputazione ascritta contenga la descrizione di fatti che
integrino gli elementi strutturali indicati nel vigente art. 323 o in
altre norme penali.
Il remittente considera che con l’art. 1 della legge n. 234 del
1997 il reato di abuso d’ufficio è stato trasformato da reato di
pura condotta in reato di evento, richiedendosi il conseguimento del
vantaggio ingiusto; si è richiesto che il vantaggio sia di natura
patrimoniale; si sono individuate le condotte costituenti l’abuso in
quelle che violino norme legislative o regolamentari ovvero nella
mancata astensione nei casi prescritti; si è qualificato il dolo con
l’avverbio “intenzionalmente”, che sembra escludere la rilevanza del
dolo diretto, richiedendosi la sussistenza del solo dolo c.d.
intenzionale.
Secondo il remittente, pertanto, la condotta consistente nel porre
in essere un atto “formalmente legittimo”, ma “accompagnato e
determinato da accordi con terzi in contrasto con la normativa
vigente in materia di scelta del contraente da parte della pubblica
amministrazione”, non sarebbe più sanzionata penalmente, benché
essa “violi in sostanza tutte le norme in materia di scelta del
contraente, solo all’apparenza osservate”: onde, applicando la norma
vigente, l’imputato dovrebbe essere prosciolto.
Tuttavia il tribunale ritiene che la suddetta “lettura
interpretativa della norma”, che escluderebbe “dall’area di rilevanza
penale i comportamenti soltanto all’apparenza osservanti le norme
amministrative, ma in realtà elusivi o in contrasto con le norme
medesime”, la esporrebbe al sospetto di illegittimità
costituzionale, per contrasto, da un lato, con l’art. 3 della
Costituzione, in quanto, a differenza delle condotte di violazione
palese di norme, condotte elusive o in frode alla legge, di natura
ben più grave e maggiormente pericolose per gli interessi tutelati
dalla norma penale, sarebbero esenti da pena, dandosi con ciò una
diversa disciplina a situazioni analoghe, non solo ingiustificata, ma
in contrasto con l’art. 97 della Costituzione; dall’altro lato vi
sarebbe anche violazione diretta di detto art. 97, in quanto il buon
andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione non
sarebbero assicurati da una norma che escluda dalla sanzione
“comportamenti frodatori, attuati soltanto nell’apparente osservanza
delle norme amministrative”.
4. – È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata, e
riportandosi alle argomentazioni dell’atto di intervento depositato
nel giudizio instaurato con l’ordinanza del giudice per le indagini
preliminari presso il tribunale di Bolzano, di cui sopra, al n. 2.
5. – Si è costituito nel giudizio l’imputato nel giudizio a quo
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile ovvero
infondata.
Nella memoria depositata in vista dell’udienza, la parte privata
sostiene che la questione sarebbe inammissibile, anzitutto, in quanto
il remittente chiederebbe in sostanza alla Corte di formulare un
giudizio di merito sulle scelte del legislatore penale, e una
pronuncia il cui risultato finale dovrebbe essere quello di
assoggettare a sanzione penale condotte diverse ed ulteriori rispetto
a quelle che il legislatore del 1997 ha ritenuto di dover
incriminare: una sentenza, dunque, che, sostituendosi al legislatore,
crei una nuova fattispecie penale in luogo di quella ritenuta
incostituzionale.
Un secondo profilo di inammissibilità deriverebbe dal fatto che,
anche volendo ritenere che l’eventuale dichiarazione di
illegittimità costituzionale possa, nella sostanza, far rivivere la
precedente norma, si perverrebbe in tal modo a rendere incriminabili
condotte che il Parlamento non ha ritenuto tali, rendendo una
pronuncia in malam partem con efficacia “reincriminatrice”, in
violazione dell’intima essenza del principio di riserva di legge in
materia di reati e di pene di cui all’art. 25 della Costituzione.
Invasioni della sfera di competenza legislativa potrebbero
ammettersi, in base al controllo di ragionevolezza, solo quando si
risolvano in pronunce in bonam partem criterio questo cui la Corte
costituzionale si sarebbe sempre attenuta, ribadendolo anche nella
sentenza n. 329 del 1997. Tale conclusione sarebbe rafforzata dalla
considerazione che la Costituzione, a parte la prescrizione del
penultimo comma dell’art. 13 che impone di punire ogni violenza
fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà,
non contiene alcuna norma da cui possa desumersi l’obbligo del
legislatore di tutelare un bene giuridico mediante la minaccia di
sanzione penale. Anzi, dalla Costituzione emergerebbero indicazioni
nel senso della scelta della sanzione penale come extrema ratio. Il
principio di tassatività, desumibile dagli artt. 25 e 13 della
Costituzione, esigerebbe che la tutela penale riguardi tipi di
condotte ben delimitati, non estensibili per analogia: tipi, nella
specie, scelti dal legislatore. La questione, ad avviso della parte,
è comunque infondata. La scelta legislativa del 1997, lungi
dall’essere irragionevole o arbitraria, avrebbe perseguito
apprezzabili scopi di tutela: in primo luogo, il legislatore avrebbe
cercato di rendere la figura dell’abuso d’ufficio più conforme al
principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale,
procedendo ad una delimitazione della condotta penalmente rilevante.
In secondo luogo, sarebbe stata individuata come punibile la sola
violazione di norme di legge o di regolamento al fine di eliminare
qualsiasi interferenza del potere giudiziario nell’attività di
esclusiva competenza della pubblica amministrazione. La riprova che
si è trattato di una scelta meditata e ragionevole sarebbe data dal
dibattito parlamentare che condusse ad escludere dal contesto della
nuova previsione l’eccesso di potere: lo scopo perseguito sarebbe
stato quello di delimitare il confine tra l’indagine sul
comportamento criminoso e il sindacato sul merito amministrativo e
politico delle scelte, proprio per tutelare il valore costituzionale
del buon andamento della pubblica amministrazione. Un ulteriore
profilo di ragionevolezza della scelta emergerebbe dallo scopo
perseguito di riservare la sanzione penale, come extrema ratio ai
fatti più gravi, quali gli abusi connotati da violazioni legislative
e regolamentari, nell’ambito di una giustificata graduazione degli
interventi repressivi.
essere decisi con unica pronunzia.
2. – La questione sollevata riguarda il nuovo testo dell’art. 323
del codice penale (Abuso d’ufficio), quale risulta dall’art. 1 della
legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’art. 323 del codice
penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli artt. 289, 416, 555
del codice di procedura penale). Tale nuovo testo, limitando la
punibilità alle condotte di abuso commesse in violazione di norme di
legge o di regolamento o in violazione di obblighi di astensione, che
procurino intenzionalmente ingiusti vantaggi patrimoniali all’agente
o a terzi, ovvero rechino intenzionalmente ingiusto danno ad altri,
lascerebbe sguarnite di sanzione penale condotte altrettanto o più
gravemente riprovevoli dal punto di vista sociale, e lesive dei
principi di imparzialità e buon andamento della pubblica
amministrazione. In tal modo si realizzerebbero una disparità di
trattamento di situazioni analoghe, sulla base di elementi distintivi
irrazionali, ed una disuguaglianza fra i cittadini, con violazione
dell’art. 3, primo comma, nonché – secondo il giudice di Bolzano –
dell’art. 3, secondo comma, della Costituzione; e sarebbe violato
altresì l’art. 97 della Costituzione.
Ad avviso del giudice per le indagini preliminari presso il
tribunale di Bolzano, inoltre, sarebbe violato l’art. 79 della
Costituzione, in quanto il legislatore avrebbe, in sostanza,
realizzato un’amnistia mascherata, senza i presupposti di ordine
procedimentale richiesti dalla norma costituzionale.
3. – La questione, sotto i profili dell’art. 3 e dell’art. 97 della
Costituzione, è inammissibile.
Le censure mosse dai remittenti sono volte a lamentare che il
legislatore, nel ridefinire la fattispecie dell’abuso d’ufficio, lo
abbia fatto in senso restrittivo, escludendo dalla medesima condotte
che, a loro giudizio, avrebbero invece richiesto di essere,
parimenti, sanzionate penalmente. Gli stessi remittenti non indicano
l’esistenza di una norma costituzionale suscettibile di costituire
essa stessa la base legale dell’incriminazione di tali condotte, e
che possa dunque ritenersi direttamente violata dalla scelta del
legislatore. Si limitano, da un lato, a lamentare una mera differenza
di trattamento, che sarebbe di per sé ingiustificata, fra le
condotte rese non più punibili e quelle per le quali permane invece
la punibilità (senza prospettare una ipotetica discriminazione fra i
cittadini operata sulla base di fattori vietati dall’art. 3, primo
comma, della Costituzione); dall’altro lato, a sostenere che i
principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento della
pubblica amministrazione non sarebbero adeguatamente tutelati a causa
della esclusione di taluni tipi di condotte dalla fattispecie di
reato.
Ma nessuna di queste prospettazioni può valere a fondare una
questione di legittimità costituzionale relativamente ad una norma
incriminatrice, che si assuma troppo restrittiva nella individuazione
delle condotte punite, in vista di una pronuncia di questa Corte che
ne estenda la portata.
È principio essenziale in campo penale, e garanzia fondamentale
per la persona, che non si possa addebitare a titolo di reato alcuna
condotta diversa ed ulteriore rispetto a quelle in tal senso
esplicitamente qualificate da una legge in vigore al momento della
commissione del fatto (art. 25, secondo comma, della Costituzione).
Solo il legislatore, dunque, può, nel rispetto dei principi della
Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione
penale, e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena,
nonché stabilire qualità e quantità delle relative pene edittali.
È il principio nullum crimen, nulla poena sine lege, a cui si
riconducono sia la riserva di legge vigente in materia penale, sia il
principio di determinatezza delle fattispecie penali (non potendosi
lasciare che la individuazione della condotta incriminata dipenda da
valutazioni discrezionali del giudice, e quindi non sia prevedibile
da parte del destinatario della legge penale: cfr. sentenza n. 364
del 1988), sia il divieto di applicazione analogica delle norme
incriminatrici. Al di fuori dei confini delle fattispecie di reato,
come definiti dalla legge, riprende vigore il generale divieto di
incriminazione, anche là dove siano configurabili altre ipotesi di
illecito e di responsabilità non sanzionate penalmente.
Discende da ciò – secondo quanto costantemente affermato nella
giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte, sentenze n. 226
del 1983, n. 49 del 1985, n. 411 del 1995; ordinanze n. 288 del 1996,
n. 355 del 1997) – che l’eventuale addebito al legislatore di avere
omesso di sanzionare penalmente determinate condotte, in ipotesi
socialmente riprovevoli o dannose, o anche illecite sotto altro
profilo, ovvero di avere troppo restrittivamente definito le
fattispecie incriminatrici, lasciandone fuori condotte siffatte, non
può, in linea di principio, tradursi in una censura di legittimità
costituzionale della legge, e tanto meno in una richiesta di
“addizione” alla medesima mediante una pronuncia di questa Corte.
Né vale invocare, in contrario, l’ipotetico pregiudizio che
potrebbe discendere a beni costituzionalmente tutelati, quali, nella
specie, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica
amministrazione (peraltro evocati dall’art. 97 della Costituzione in
relazione alla organizzazione dei pubblici uffici). Le esigenze
costituzionali di tutela non si esauriscono infatti nella (eventuale)
tutela penale, ben potendo invece essere soddisfatte con diverse
forme di precetti e di sanzioni (cfr. sentenza n. 317 del 1996); ché
anzi l’incriminazione costituisce una extrema ratio (cfr. sentenze n.
487 del 1989, n. 282 del 1990, n. 317 del 1996), cui il legislatore
ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga
necessario per l’assenza o la insufficienza o la inadeguatezza di
altri mezzi di tutela.
Per gli stessi motivi, non può, in linea di principio, tradursi in
una questione di legittimità costituzionale della norma
incriminatrice il rilievo che altre condotte, diverse da quelle
individuate come fatti di reato dal legislatore, avrebbero dovuto
essere a loro volta incriminate per ragioni di parità di trattamento
di situazioni omogenee, o in nome di esigenze di ragionevolezza o di
armonia dell’ordinamento. La mancanza della base legale –
costituzionalmente necessaria – dell’incriminazione, cioè della
scelta legislativa di considerare certe condotte come penalmente
perseguibili, preclude radicalmente la possibilità di prospettare
una estensione ad esse delle fattispecie incriminatrici attraverso
una pronuncia di illegittimità costituzionale.
4. – La questione è invece manifestamente infondata sotto il
profilo – prospettato dal solo giudice per le indagini preliminari
presso il tribunale di Bolzano – della asserita violazione dell’art.
79 della Costituzione, perché il legislatore avrebbe mascherato
sotto le spoglie di una parziale abolitio criminis una sostanziale
amnistia, non deliberata secondo le regole costituzionali.
L’art. 1 della legge n. 234 del 1997 ha ridefinito in senso più
restrittivo la fattispecie dell’abuso d’ufficio, tenendo anche conto
dei dubbi di insufficiente determinatezza che venivano sollevati
sulla fattispecie descritta nel testo previgente: e lo ha fatto in
via stabile, non già in vista di una eccezionale cancellazione di
reati già commessi in un determinato periodo di tempo. Siffatta
scelta non ha nulla a che fare con una amnistia, mascherata o meno:
onde non vi è luogo per lamentare una violazione dell’art. 79 della
Costituzione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi:
a) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 323 del codice penale (Abuso d’ufficio),
come sostituito dall’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234
(Modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso
d’ufficio, e degli artt. 289, 416, 555 del codice di procedura
penale), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della
Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso il
tribunale di Bolzano e dal tribunale di Firenze con le ordinanze in
epigrafe;
b) dichiara la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 323 del codice penale (Abuso
d’ufficio), come sostituito dall’art. 1 della predetta legge n. 234
del 1997, sollevata, in riferimento all’art. 79 della Costituzione,
dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di
Bolzano con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 1998.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Onida
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 28 dicembre 1998.
Il direttore della cancelleria: Di Paola