Sentenza N. 449 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
20/12/1993
Data deposito/pubblicazione
20/12/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
13/12/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI;
legislativa della Regione Toscana n. 53 del 1993, riapprovata il 18
maggio 1993 dal Consiglio regionale, avente per oggetto: “Indennità
di funzione dei dirigenti – L.R. n. 41 del 1990, art. 38”, promosso
con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 5
giugno 1993, depositato in cancelleria il 15 successivo ed iscritto
al n. 29 del registro ricorsi 1993;
Visto l’atto di costituzione della Regione Toscana;
Udito nell’udienza pubblica del 2 novembre 1993 il Giudice
relatore Vincenzo Caianiello;
Uditi l’Avvocato dello Stato Giorgio Zagari per il ricorrente, e
l’avv. Stefano Grassi per la Regione;
delibera legislativa della Regione Toscana dal titolo “Indennità di
funzione dei dirigenti – L.R. n. 41/90 art. 38”, riapprovata, con la
maggioranza qualificata di cui al quarto comma dell’art. 127 della
Costituzione, il 18 maggio 1993 nello stesso testo approvato il 3
dicembre 1991, a seguito del rinvio governativo.
Nel ricorso si riferisce che la delibera in esame, allo scopo di
fugare dubbi sulla effettiva natura della indennità di funzione, ne
definisce le caratteristiche (emolumento fisso, continuativo e
ordinario per l’attività dirigenziale) che rilevano ai fini della
quiescibilità e del trattamento di fine rapporto; così facendo,
però, la legge regionale: a) disciplinerebbe una materia non
compresa nell’art. 117 della Costituzione; b) farebbe rientrare nella
retribuzione annua contributiva la indennità in parola – che assorbe
o sostituisce o è corrisposta in compensazione di taluni istituti
incentivanti, quali la indennità di presenza e lo straordinario,
sicuramente esclusi dalla “retribuzione annua contributiva” – in
contrasto con l’art. 16, terzo comma, della legge 5 dicembre 1959, n.
1077, determinando altresì irrazionali trattamenti, fonti di
possibili rivendicazioni emulative da parte del personale non
dirigenziale; c) non avendo adottato la stessa scelta organizzativa
fatta dalla Regione Lombardia (e cioè quella di ridurre
drasticamente i dirigenti, in relazione alle effettive strutture
direzionali, prevedendone la cessazione del rapporto di impiego al
venir meno della funzione), ma avendo previsto la possibilità di
corrispondere l’indennità in parola anche ai dirigenti c.d. “senza
responsabilità” e non avendo disposto che il risultato negativo
della gestione dirigenziale comporti la cessazione del rapporto di
impiego, ma soltanto (implicitamente) l’assegnazione a funzioni di
minore responsabilità, avrebbe dettato una disciplinata irrazionale
e incompatibile con i connotati della fissità e della continuità,
in contrasto con l’art. 3 della Costituzione e con il principio di
buona amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione.
2. – Si è costituita in giudizio la Regione Toscana sostenendo
l’infondatezza del ricorso alla luce della sentenza n. 80 del 1993 di
questa Corte, e precisando che la delibera legislativa impugnata ha
distinto l’indennità di funzione in relazione alle singole
qualifiche dirigenziali ed ha determinato il coefficiente di calcolo
dell’indennità medesima sulla base del contenuto operativo della
qualifica considerata, così modellandone il concreto ammontare sulla
base dell’effettiva configurazione organizzatoria degli uffici
regionali.
Nel far ciò la delibera ha operato una triplice distinzione,
relativamente: a) alle indennità di funzione che costituiscono
“emolumenti fissi e continuativi dovuti in via ordinaria come
remunerazione dell’attività dirigenziale”, spettanti sia alle
qualifiche (prima e seconda) con responsabilità di unità operativa
complessa o di servizio o di ufficio (coeff. 0,6) sia a quelle “senza
responsabilità” (coeff. 0,1, secondo le previsioni dell’accordo
collettivo nazionale); b) alla indennità costituente “emolumento a
termine” per le funzioni di coordinamento di dipartimento o di
ufficio (coeff. 0,2); c) alla indennità che costituisce “emolumento
a carattere non continuativo”, riferita alle qualifiche dirigenziali
di cui all’art. 38, comma 8, della legge regionale n. 41 del 1990
(per progetti e programmi intersettoriali e interdipartimentali,
particolari attività di studio, ecc. – coeff. fino al massimo dello
0,2).
Si sarebbe così evitato di riconoscere in modo arbitrario un
emolumento indennitario fisso per attività di carattere non
continuativo, confermandosi invece il collegamento tra qualifica
dirigenziale e funzione dirigente che, secondo la ricordata sentenza
n. 80 del 1993, rappresenta la logica di fondo dell’accordo
nazionale. Inoltre, per la parte in cui l’indennità è riconosciuta
anche a qualifiche dirigenziali “senza responsabilità di servizio, o
con posizione di ricerca, di ufficio”, il criterio accolto dalla
regione sarebbe coerente con la disciplina nazionale che riconosce la
misura pari al coefficiente dello 0,1 per cento a favore di tutti i
dirigenti non preposti ad uffici.
Quanto poi agli effetti ulteriori di detta indennità, la Regione
richiama ancora la sentenza n. 80 del 1993, secondo cui, una volta
affermato il carattere fisso e continuativo dell’indennità di
funzione, “le conseguenze che possano derivarne agli effetti del
trattamento di quiescenza non limitano il potere della regione di
recepire l’accordo in modo da adeguare le previsioni di questo alle
proprie scelte organizzative”. In altri termini, la quiescibilità
dell’indennità di funzione non deriverebbe dalle norme regionali, ma
dalle stesse norme statali di cui la delibera legislativa impugnata
rappresenterebbe una “coerente e rispettosa attuazione”.
Quanto, infine, alla censura proposta in relazione alla violazione
del principio di eguaglianza e di quello del buon andamento, la
Regione sostiene che è logico e razionale che ciascuna regione
determini la misura dell’indennità di funzione spettante ai propri
dirigenti in relazione alle specifiche esigenze organizzative, ma
sempre nel rispetto dei criteri stabiliti dalla legge nazionale,
criteri che non possono essere sostituiti da una determinazione
autoritativa e generalizzata dell’emolumento indennitario, perché in
tal modo si verrebbe a realizzare una assimilazione retributiva
forzosa di situazioni funzionali non omogenee.
3. – In prossimità dell’udienza, la Presidenza del Consiglio dei
ministri ha depositato una memoria nella quale ribadisce le proprie
censure.
Presidente del Consiglio dei ministri la delibera legislativa della
Regione Toscana, avente ad oggetto la disciplina della indennità di
funzione dei dirigenti, per asserita violazione degli artt. 117, 3 e
97 della Costituzione.
Si sostiene nel ricorso che la delibera, attribuendo alla
indennità suddetta il carattere di emolumento fisso, continuativo ed
ordinario per la funzione dirigenziale: a) avrebbe inciso in modo
indiretto sul trattamento di quiescenza e su quello di fine rapporto,
disciplinando così una materia di spettanza dello Stato; b) avrebbe
reso possibile l’inclusione, nella retribuzione annua contributiva,
di una indennità “di carica” in contrasto, persino per la parte
relativa al coefficiente minimo 0,1, con l’art. 16, terzo comma,
della legge 5 dicembre 1959 n. 1077.
2. – Per chiarire i termini della questione è opportuno precisare
che la delibera legislativa impugnata definisce le caratteristiche
delle indennità di funzione dei dirigenti regionali contemplate
dall’art. 38 della legge regionale 9 aprile 1990 n. 41, che ha
recepito l’accordo nazionale di lavoro, approvato con d.P.R. 3 agosto
1990 n. 333. Quest’ultimo testo normativo prevede (art. 38, comma 3)
la corresponsione della indennità di funzione anche al personale
della prima qualifica dirigenziale che non sia preposto a direzione
di struttura o di staff.
La delibera impugnata – che si innesta nella disciplina dettata
dalla legge regionale n. 41 del 1990, la quale non prevede la
cessazione del rapporto di impiego come conseguenza negativa della
gestione, ma soltanto “la rimozione dalla funzione esercitata con
conseguente perdita della relativa indennità” (art. 39, comma 3) –
ha distinto l’indennità in parola, in relazione alle diverse
funzioni dirigenziali, tra indennità di funzione che costituiscono
“emolumenti fissi e continuativi dovuti in via ordinaria come
remunerazione dell’attività dirigenziale” (spettanti alle qualifiche
dirigenziali di cui alle lettere A, B, C e D dell’art. 38, comma 6,
della legge regionale n. 41 del 1990), indennità che costituisce
“emolumento a termine” (quella di cui all’art. 38, comma 6, lettera
E) e, infine, indennità costituente “emolumento a carattere non
continuativo” (art. 38, comma 8).
La linea seguita dalla Regione Toscana è diversa da quella della
legge della Regione Lombardia (che ha superato lo scrutinio di
costituzionalità con la sentenza di questa Corte n. 80 del 1993),
che aveva attribuito a tutti i dirigenti l’indennità di funzione
nella misura base dello 0,8 per cento dello stipendio, riducendo
però il numero di essi ai soli effettivi responsabili di strutture
direzionali, prevedendo la cessazione dal rapporto di impiego in caso
di risultato negativo della gestione e lasciando altresì per la
indennità predetta un margine di oscillazione dallo 0,8 all’1 per
cento dello stipendio per compensare l’eventuale espletamento di
compiti ritenuti più importanti, secondo i criteri forniti
dall’accordo nazionale (art. 38 del d.P.R. n. 333 del 1990).
3. – Tanto premesso, non può seguirsi la tesi sostenuta nel
ricorso secondo cui non sarebbero applicabili alla delibera
legislativa della Regione Toscana i principi enunciati nella
richiamata sentenza n. 80 del 1993 relativamente alla legge della
Regione Lombardia. Ciò, si sostiene nel ricorso, a causa della
diversità fra le due discipline ed in particolare della mancanza
nella legge della Toscana del ridimensionamento funzionale dei
dirigenti con il numero degli uffici e, quindi, della previsione
della cessazione del rapporto di impiego in caso di risultato
negativo della gestione.
Tale diversità, ad avviso della Corte, non determina un contrasto
con i parametri costituzionali invocati, perché alla base del
recepimento deve ravvisarsi anche per la Regione Toscana una scelta
in armonia con l’accordo nazionale, il quale non impone
necessariamente il ridimensionamento funzionale dei dirigenti con il
numero degli uffici. La qualificazione compiuta dalla delibera
legislativa impugnata – che, collegandosi alla precedente legge
regionale n. 41 del 1990, ha distinto tra indennità fissa e
continuativa, indennità a termine e indennità non continuativa – è
dunque coerente con i principi stabiliti dall’accordo che, ai fini
della corresponsione della indennità, suppone sotto questo profilo
soltanto l’effettivo svolgimento della funzione. I caratteri della
“fissità” e “continuità”, previsti dalla delibera impugnata per
certi tipi di indennità, restano perciò pur sempre legati alla
corrispondenza tra indennità e funzioni esercitate, nel senso cioè
che l’indennità è fissa e continuativa per tutto il tempo in cui
siano svolte le funzioni corrispondenti a quelle per le quali
l’indennità stessa è prevista in quella determinata misura. Ciò in
quanto la delibera impugnata, prevedendo che “la revoca della
indennità .., conseguente alla rimozione dalle corrispondenti
funzioni, è consentita nei soli casi previsti dalla legge”, conferma
o quanto meno non innova a quel che è stabilito nell’art. 39, comma
3, della legge regionale n. 41 del 1990, il quale stabilisce che “il
risultato negativo della gestione dei dirigenti, valutato con i
criteri indicati dalla vigente normativa, comporta la rimozione dalla
funzione esercitata con conseguente perdita della relativa
indennità”. Il che significa che l’indennità percepita in una certa
misura subisce una variazione in diminuzione se il dirigente rimosso
da un determinato ufficio viene assegnato ad altra funzione per la
quale è prevista una indennità minore; per converso è implicito
che l’assegnazione ad un ufficio per il quale è prevista una
indennità maggiore comporta ovviamente l’attribuzione di questa con
la contestuale perdita di quella minore, senza che ciò configuri,
come invece si sostiene nel ricorso, una incompatibilità “con i
connotati della fissità e continuità”, che vanno ovviamente intesi
in senso relativo in rapporto e per la durata dell’espletamento della
specifica funzione dirigenziale.
La coerenza della legislazione della Regione Toscana con i
principi dell’accordo nazionale è ravvisabile anche sotto
l’ulteriore profilo della prevista attribuzione di una indennità
pari al coefficiente 0,1 per taluni dirigenti non preposti “a
direzione di struttura o di staff”, il che corrisponde – come già
osservato – a quanto stabilito dall’art. 38, comma 3, dell’accordo
nazionale per i dirigenti della prima qualifica.
4. – Quanto alle conseguenze derivanti, per la legislazione della
Regione Toscana, dal risultato negativo della gestione del dirigente
e che si sostanziano, come già detto, nella assegnazione di quello a
funzioni di minore responsabilità – nonostante la diversità
rispetto alla scelta legislativa operata dalla Regione Lombardia, che
nel caso predetto dispone invece la cessazione del rapporto di
impiego – esse non impediscono la estensione, al caso in esame, delle
considerazioni svolte da questa Corte con la sentenza n. 80 del 1993.
Non è difatti condivisibile l’assunto del ricorrente, il quale
sostiene che tali considerazioni – secondo cui il carattere della
fissità e della continuatività della indennità dirigenziale non è
in contrasto con l’art. 117 della Costituzione, perché tale
qualificazione non incide di per sé sul regime del trattamento di
quiescenza di spettanza dello Stato – sarebbero valide soltanto nelle
ipotesi in cui “il risultato negativo della gestione” comporti, come
per la legge della Lombardia, la cessazione del rapporto di impiego e
non anche quando al risultato negativo consegua l’assegnazione a
funzioni di minore responsabilità, come per la Toscana.
Osserva la Corte che, invece, anche relativamente alla impugnata
delibera della Regione Toscana – che, come si è già rilevato, si
innesta in un sistema legislativo che non prevede la cessazione del
rapporto di impiego nel caso di risultato negativo della gestione –
debba valere il principio secondo cui, rispetto alle conseguenze
ulteriori legate alla natura degli emolumenti, “rimane comunque
integro il potere dello Stato di incidere per modificare, nel
rispetto dei principi costituzionali, il regime del trattamento di
quiescenza onde determinarne, come è sua spettanza, l’ambito, i
presupposti e l’estensione”. Diversamente da quanto sembra sostenersi
dal ricorrente, la sentenza n. 80 del 1993 non ha inteso certamente
affermare che l’integrità del potere dello Stato di disciplinare il
trattamento di quiescenza sia inscindibilmente legata all’automatismo
della cessazione del rapporto di impiego in caso di risultato
negativo della gestione dei dirigenti, ma solo precisare che tale
potere discende dal riparto attuale delle competenze fra Stato e
regioni, che non prevede alcuna possibilità per queste di incidere
su detti trattamenti. Il problema di costituzionalità – che, come
quello risolto con la sentenza n. 80 del 1993, riguarda
l’impossibilità per la legge regionale di incidere sul trattamento
di quiescenza – si sarebbe posto se la legge regionale avesse
disposto espressamente sulla “quiescibilità” degli emolumenti in
parola, innovando così in ordine a questo aspetto alla legge dello
Stato. Nella specie ciò non è avvenuto, essendosi anche la delibera
legislativa della Toscana limitata a qualificare il carattere delle
indennità dirigenziali in relazione al tipo di funzioni cui sono
collegate.
D’altronde, tenuto conto degli orientamenti non univoci della
giurisprudenza nella materia pensionistica, è da escludere nel
nostro ordinamento una automatica incidenza sul trattamento
pensionistico della attribuzione del carattere fisso e continuativo
ad alcuni emolumenti retributivi. Né mancherebbe d’altronde al
legislatore nazionale la possibilità di intervenire per chiarire
questi aspetti, qualora la giurisprudenza in materia pensionistica
dovesse consolidarsi nel senso dell’automatismo, facendo derivare
certi effetti sul trattamento di quiescenza dal modo con cui le leggi
regionali qualifichino gli emolumenti che esse hanno il potere di
disciplinare, un potere questo che non può non essere riconosciuto
alle regioni.
5. – La Presidenza del Consiglio sostiene, altresì, che, poiché
l’indennità dirigenziale assorbe quella di presenza ed è correlata
alla esclusione del personale dirigente dagli istituti incentivanti,
compreso il compenso per lavoro straordinario, (art. 38, comma 5, del
citato d.P.R. n. 333 del 1990), “sicuramente esclusi dalla
retribuzione annua contributiva”, la qualificazione data dalla legge
regionale a detta indennità comporterebbe per questa più favorevoli
caratteristiche, innescando rivendicazioni emulative, rispetto ai
trattamenti che essa assorbe, da parte del personale non
dirigenziale.
In proposito osserva la Corte che l’inclusione o meno nella
“retribuzione annua contributiva” della indennità in questione
discende dal già menzionato riparto delle competenze fra Stato e
regioni, e non dalla qualificazione che di essa dà la legge
regionale, e ciò è sufficiente a togliere ogni fondamento alla
censura.
6. – Inammissibile è infine il profilo secondo cui, essendo
l’indennità dirigenziale da includersi fra le indennità “di
carica”, si sarebbe determinata la inclusione “nella base
contributiva” della indennità de qua, persino per la parte relativa
al coefficiente minimo dello 0,1, in modo “poco coerente” con l’art.
16, comma terzo, della legge 5 dicembre 1959 n. 1077.
In proposito va rilevato che nello stesso ricorso si riconosce che
il “telegramma di rinvio”, uniformandosi alla circolare del Ministro
del tesoro (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 212 del 10
settembre 1991), avrebbe “tollerato” tale inclusione. E difatti nel
telegramma del 30 dicembre 1991, con il quale la Presidenza del
Consiglio dei ministri ha rinviato la delibera legislativa per il
riesame da parte del Consiglio regionale, si afferma la sua
illegittimità, sotto i profili poi riprodotti nel ricorso in questa
sede, solo relativamente alla indennità di misura superiore “al
livello minimo dello 0,1 attribuibile indipendentemente dalla
posizione funzionale specifica”. Ciò è sufficiente a determinare
l’inammissibilità della censura, non potendosi con il ricorso
proporre censure diverse (sentt. nn. 107 del 1983, 212 del 1976, 132
e 123 del 1975) e tanto meno in contrasto con il contenuto del rinvio
per riesame.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
della delibera legislativa della Regione Toscana n. 53 del 1993,
riapprovata dal Consiglio regionale il 18 maggio 1993 (“Indennità di
funzione dei dirigenti – L.R. n. 41 del 1990, art. 38”), sollevata,
in riferimento agli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione, dal
Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 1993.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: CAIANIELLO
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 20 dicembre 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA