Sentenza N. 449 del 1997
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1997
Data deposito/pubblicazione
30/12/1997
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/12/1997
Presidente: prof. Giuliano VASSALLI;
Giudici: prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
terza sezione penale, notificato il 31 ottobre 1996, depositato in
cancelleria il 21 novembre 1996, per conflitto di attribuzione sorto
a seguito della delibera della Camera dei deputati del 31 gennaio
1996, che ha affermato l’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68,
primo comma, della Costituzione, delle espressioni adoperate dall’on.
Umberto Bossi in un comizio elettorale a Milano il giorno 18 giugno
1993; ricorso iscritto al n. 29 del registro conflitti del 1996;
Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;
Udito nell’udienza pubblica del 30 settembre 1997 il giudice
relatore Giuliano Vassalli;
Udito l’avvocato Giuseppe Abbamonte per la Camera dei deputati.
ricorso per conflitto di attribuzione, depositato il 26 luglio 1996,
nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla
deliberazione adottata dall’Assemblea parlamentare il 31 gennaio
1996, con la quale è stata dichiarata l’insindacabilità, in quanto
espressione di opinioni formulate da un membro del Parlamento
nell’esercizio delle sue funzioni (art. 68, primo comma, della
Costituzione), delle frasi pronunciate dall’on. Umberto Bossi il 18
giugno 1993 in un comizio tenuto nel corso della campagna elettorale
per l’elezione del sindaco di Milano; frasi per le quali si procedeva
penalmente per il reato di diffamazione aggravata (art. 595, primo e
terzo comma, cod. pen.) a seguito di querela proposta dall’on.
Ferdinando Dalla Chiesa.
Nel corso del giudizio d’appello, avendo l’on. Bossi impugnato la
condanna inflitta dal pretore di Milano alla pena della multa ed al
risarcimento dei danni in favore del querelante costituitosi parte
civile, la Camera dei deputati, alla quale l’imputato apparteneva,
aveva deliberato che i fatti per i quali era in corso il procedimento
penale riguardavano l’espressione di opinioni formulate da un membro
del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni. A seguito di tale
decisione la parte civile aveva chiesto che il giudizio proseguisse,
contestando la legittimità dell’intervento parlamentare, che sarebbe
stato in contrasto con l’art. 68 della Costituzione, come modificato
dall’art. 1 della legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3. Il
pretore aveva dato comunicazione alla Camera dell’esistenza del
procedimento penale, ma questa aveva solo il valore di una
informativa, rimanendo consentito alla Camera di pronunciarsi sulla
insindacabilità delle opinioni espresse dal parlamentare solo se il
giudice non avesse già ritenuto l’eccezione di insindacabilità
manifestamente infondata.
Il procuratore generale presso la Corte d’appello aveva, invece,
chiesto l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non costituisce
reato, ai sensi degli artt. 129 e 530 cod. proc. pen., in quanto
spetta alla Camera valutare le condizioni dell’insindacabilità delle
opinioni espresse dai parlamentari, salvo il possibile controllo di
legittimità nella forma del conflitto davanti alla Corte
costituzionale. Richiamando la giurisprudenza costituzionale, in
particolare le sentenze n. 1150 del 1988 e n. 443 del 1993, il
pubblico ministero riteneva che il controllo di legittimità può
avere ad oggetto unicamente la sussistenza di eventuali vizi di
procedura, ovvero l’omessa od arbitraria valutazione dei presupposti
di insindacabilità. La delimitazione di tali presupposti non
potrebbe essere effettuata dall’autorità giudiziaria quando, come
nel caso in esame, si fosse pronunciata la Camera di appartenenza
dell’imputato, perché diversamente si verificherebbe una
inammissibile interferenza nelle prerogative parlamentari.
La Corte d’appello, ritenendo di non poter disapplicare
direttamente, come invece richiesto dalla parte civile, la
deliberazione parlamentare, ha sollevato conflitto di attribuzione
perché la Corte costituzionale stabilisca se le opinioni espresse
dall’on. Bossi nel comizio del 18 giugno 1993 costituiscano o meno
esercizio della funzione parlamentare.
La Corte d’appello ha presente che, secondo il giudizio della
Camera dei deputati, quale risulta dalla relazione della Giunta per
le autorizzazioni a procedere approvata dall’Assemblea il 31 gennaio
1996, le parole pronunciate dall’on. Bossi hanno una indissolubile
connessione con l’attività politica generale del parlamentare,
seppure esercitata in occasione delle elezioni per il rinnovo del
consiglio comunale di Milano. Tuttavia, ad avviso dello stesso
giudice, questa valutazione non risolverebbe il problema
dell’applicabilità o meno dell’insindacabilità parlamentare, che
può operare solo nei limiti posti dall’art. 68 della Costituzione ed
è diretta a garantire in ogni momento la libertà di ciascun
componente del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni.
L’immunità costituirebbe una eccezione al principio generale della
responsabilità individuale, ed in quanto tale dovrebbe essere
interpretata in senso restrittivo. L’art. 68 della Costituzione
introdurrebbe un ingiustificato privilegio non collegato al libero
esercizio delle funzioni parlamentari, se dilatato sino a comprendere
l’esercizio di diritti garantiti a tutti i cittadini. Difatti, se il
diritto dell’on. Bossi di manifestare liberamente il proprio
pensiero, illustrando tesi politiche generali fuori dal Parlamento,
fosse da inquadrare nell’art. 68, anziché nell’art. 21, della
Costituzione, la parte offesa dalle dichiarazioni rese rimarrebbe
priva della tutela che altrimenti le spetterebbe.
La Corte d’appello ritiene che il caso sottoposto al suo giudizio
costituisca l’occasione per un chiarimento in ordine ai limiti di
esercizio della potestà parlamentare e consenta di stabilire se
l’art. 68 della Costituzione sia applicabile, al di fuori
dell’attività parlamentare in senso stretto, alle sole opinioni
divulgative di attività parlamentari, quindi strettamente connesse
con queste o, invece, ad ogni manifestazione del pensiero di ciascun
parlamentare.
Il conflitto di attribuzione costituirebbe, dunque, il mezzo per
stabilire se le frasi dette dall’on. Bossi nel comizio elettorale
milanese costituiscono esercizio di attività connessa a quella
parlamentare, insindacabile ai sensi dell’art. 68 della Costituzione,
come ha ritenuto la Camera dei deputati, ovvero se siano espressione
politica non connessa all’esercizio di attività parlamentare, che
può essere sottoposta all’esame del giudice penale, così come
chiede la parte civile.
2. – Nella prima sommaria delibazione in camera di consiglio, il
conflitto di attribuzione è stato dichiarato ammissibile con
ordinanza n. 339 del 30 settembre-8 ottobre 1996, la quale ha
disposto che, a cura della Corte d’appello di Milano, il ricorso e
l’ordinanza venissero notificati alla Camera dei deputati entro
trenta giorni dalla comunicazione alla ricorrente, effettuata dalla
cancelleria l’8 ottobre 1996. La ricorrente ha provveduto alla
prescritta notificazione, effettuata il 31 ottobre, ed ha spedito gli
atti il 19 novembre a mezzo del servizio postale per il deposito alla
cancelleria della Corte, cui sono pervenuti il 21 novembre.
3. – Si è costituita in giudizio la Camera dei deputati, chiedendo
che il ricorso sia dichiarato inammissibile o infondato.
Nell’atto di costituzione, datato 16 novembre 1996, si ribadisce
nel merito del conflitto che i fatti per i quali è in corso il
procedimento penale a carico dell’on. Bossi riguardano l’espressione
di opinioni formulate da un membro del Parlamento nell’esercizio
delle sue funzioni. L’insindacabilità delle opinioni espresse dal
parlamentare costituirebbe un momento insopprimibile della libertà
della funzione, rimesso alla valutazione della Camera di
appartenenza, per superare la quale occorrerebbe dimostrare che la
condotta del parlamentare è manifestamente estranea al concetto di
opinione o di esercizio delle funzioni. Nell’esercizio del mandato
politico sarebbero da comprendere le opinioni espresse dai
parlamentari nel corso di un comizio tenuto durante una campagna
elettorale che ha indubbia rilevanza politica, perché così si
assicura la continuità del colloquio con l’elettorato del quale si
ha o si chiede la rappresentanza.
Ad avviso della Camera dei deputati, la Corte d’appello avrebbe
sostanzialmente sollevato un conflitto in ordine all’applicabilità o
meno dell’art. 21 della Costituzione, che, nella logica della
ricorrente, escluderebbe l’applicazione dell’art. 68 della
Costituzione e comporterebbe la responsabilità del parlamentare come
un comune cittadino che manifesta il proprio pensiero, con la
conseguenza che non vi sarebbe irresponsabilità nell’esercizio della
rappresentanza parlamentare. Questa prospettazione sarebbe erronea,
perché le due disposizioni costituzionali non sarebbero affatto
alternative, ma avrebbero applicazioni diverse. L’art. 21 garantisce
a tutti i cittadini un diritto di libertà civile, che si esercita
nell’ambito della convivenza sociale e che, per le sue modalità di
espressione, incontra i limiti dell’ordinamento generale. La libertà
del parlamentare nasce, invece, nel contesto dell’esercizio della
rappresentanza politica e per la gestione del mandato politico, che
comporta istituzionalmente il colloquio tra parlamentare e popolo,
cui appartiene la sovranità (art. 1 Cost.). La valutazione se vi
sia stato eccesso dal mandato è affidata alla Camera alla quale
appartiene il rappresentante e che concentra in se stessa la
rappresentanza dei mandanti. Spetterebbe, quindi, alla competenza
esclusiva della Camera accertare se il parlamentare abbia agito o
meno nell’esercizio delle sue funzioni. Tale potere sarebbe stato
più volte riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze
n. 1150 del 1988, n. 443 del 1993, n. 129 del 1996, n. 379 del
1996), alla luce della quale la valutazione operata dalla Camera dei
deputati, fondata su presupposti certamente non arbitrari, appare del
tutto legittima.
Il ricorso, nei termini in cui è proposto, ancor prima che
infondato sarebbe inammissibile, perché l’art. 21 e l’art. 68 della
Costituzione non pongono problemi alternativi e, una volta che la
Camera competente ha affermato che il parlamentare ha agito
nell’esercizio delle sue funzioni, non vi sarebbe spazio per
accertare se il medesimo abbia esercitato il suo diritto in base
all’art. 21 della Costituzione.
Se si dovesse ritenere illegittima la deliberazione della Camera si
restringerebbe l’insindacabilità alle sole opinioni espresse nelle
aule parlamentari, come era previsto dall’art. 51 dello Statuto
albertino, il cui ambito è stato invece ampliato dall’art. 68 della
Costituzione, che fa riferimento alle opinioni espresse ed ai voti
dati nell’esercizio delle funzioni parlamentari, e si negherebbe di
fatto il principio secondo cui le Camere sono giudici delle loro
prerogative, giacché esse non potrebbero più apprezzare la portata
della proiezione esterna del mandato parlamentare, ma dovrebbero
limitarsi a certificare l’avvenuta manifestazione delle opinioni nel
contesto di atti tipici.
4. – In una successiva memoria, depositata il 28 gennaio 1997, la
Camera dei deputati ha eccepito l’inammissibilità del conflitto per
essere stati depositati il ricorso e l’ordinanza che ne ha dichiarato
l’ammissibilità, con la prova della prescritta notifica, oltre il
termine di venti giorni stabilito dalla legge, essendo tali atti,
spediti a mezzo del servizio postale, pervenuti alla cancelleria
della Corte un giorno dopo la scadenza del termine. L’eccezione si
fonda sull’art. 25, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87,
richiamato dall’art. 37 della stessa legge, e sull’art 22 della
stessa legge che rinvia alle norme del regolamento per la procedura
innanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Quest’ultima
disposizione renderebbe applicabile anche l’art. 36, ultimo comma,
del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, che fissa il termine per depositare
l’originale del ricorso con la prova delle notificazioni e stabilisce
che il termine per il deposito del ricorso debba osservarsi a pena di
decadenza. A sostegno di questa conclusione la difesa della Camera
dei deputati richiama la giurisprudenza costituzionale (sentenza n.
87 del 1977) e chiede, appunto, una decisione di inammissibilità per
decadenza, data la perentorietà del termine.
Nel merito, se si dovesse ritenere infondata l’eccezione di
inammissibilità, la difesa della Camera allega “alcuni significativi
precedenti” costituiti da deliberazioni adottate dalla Camera dei
deputati nel corso della XII e XIII legislatura nei confronti di
deputati ritenuti non perseguibili, perché il loro comportamento
rientra nella previsione dell’art. 68, primo comma, della
Costituzione. Si tratta di numerose proposte in tal senso formulate
dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere, che riguardano nella
maggior parte casi di imputazioni per il reato di diffamazione.
Con successiva memoria, depositata in prossimità dell’udienza, la
difesa della Camera dei deputati ribadisce che la Corte d’appello di
Milano non ha rispettato il termine per il deposito del ricorso
notificato, insistendo per la dichiarazione di inammissibilità e
comunque per la improcedibilità del conflitto, non avendo la
ricorrente eseguito nei venti giorni prescritti gli adempimenti
previsti (artt. 37, 23, 25 e 26 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e
art. 26, terzo e quarto comma, delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale 16 marzo 1956).
L’inadempimento della parte attrice riguarderebbe un fondamentale
atto di impulso processuale, essenziale nel giudizio per conflitto di
attribuzione; giudizio al quale le parti possono rinunciare,
diversamente da quanto avviene in quelli di legittimità
costituzionale. I termini per gli adempimenti, che non possono essere
elastici, condizionano le modalità della procedura e l’inadempimento
della parte che ha promosso il conflitto farebbe mancare, con il non
tempestivo deposito del ricorso, una vera e propria istanza perché
si proceda al giudizio. Nel caso manchi il tempestivo deposito del
ricorso notificato, sarebbe perfino difficile cogliere le ragioni di
attualità del conflitto, che è requisito indefettibile di ogni
giudizio ad iniziativa di parte.
Nel merito la difesa della Camera ribadisce le ragioni a sostegno
della esclusiva competenza della Camera di appartenenza ad accertare
l’osservanza dei limiti entro i quali gli atti di esercizio del
mandato parlamentare devono essere contenuti ed allega gli atti della
Camera dai quali risulta effettivamente tale accertamento.
dalla Corte d’appello di Milano, investe la deliberazione, adottata
il 31 gennaio 1996, con la quale la Camera dei deputati, con
riferimento al procedimento penale nei confronti del deputato Umberto
Bossi (condannato in primo grado dal pretore di Milano per
diffamazione aggravata in danno dell’on. Ferdinando Dalla Chiesa), ha
ritenuto che “i fatti, per i quali è in corso il procedimento,
riguardano l’espressione di opinioni formulate da un membro del
Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni”, insindacabili ai sensi
dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.
La Corte d’appello ritiene che il fatto ascritto al deputato Bossi
non possa rientrare nell’area delle attività divulgative connesse
alle funzioni esercitate dal parlamentare, secondo la formula
contenuta nell’art. 2 del d.-l. 12 marzo 1996, n. 116, vigente
all’epoca della propria ordinanza (decreto-legge successivamente
decaduto a seguito di mancata conversione in legge), e ritiene che
l’art. 68, primo comma, della Costituzione non possa essere dilatato
fino a comprendere ogni attività politica del membro del Parlamento,
anche quelle che ricadono nella libera manifestazione del pensiero,
garantita dall’art. 21 della Costituzione ma non immune da
responsabilità verso i terzi. Le frasi ritenute dal giudice di
primo grado come diffamatorie, anche se pronunciate in un comizio nel
corso della campagna per l’elezione del sindaco di Milano, non
potrebbero essere ritenute coperte dalla insindacabilità, ma
dovrebbero essere viceversa considerate come pronunciate nel corso di
mera attività politica, non connessa all’esercizio delle funzioni in
relazione alle quali la Costituzione sancisce l’insindacabilità
delle opinioni espresse.
2. – Il ricorso, unitamente all’ordinanza n. 339 del 1996 che lo ha
dichiarato ammissibile, è stato ritualmente notificato, a cura della
Corte d’appello di Milano, alla Camera dei deputati in data 31
ottobre 1996.
La stessa ricorrente ha provveduto ad inviare a mezzo del servizio
postale il ricorso, con la prova della notificazione eseguita, per il
deposito alla cancelleria della Corte, alla quale è pervenuto il 21
novembre successivo.
3. – La Camera dei deputati, costituitasi tempestivamente in
giudizio, ha eccepito l’inammissibilità o improcedibilità del
conflitto, per essere stato depositato il ricorso dopo la scadenza
del termine di venti giorni stabilito dalla legge. L’eccezione si
fonda, da un lato, sugli artt. 25, secondo comma, e 37 della legge 11
marzo 1953, n. 87, da cui si evince che il deposito del ricorso per
conflitto di attribuzione, nella sua seconda fase, debba essere
effettuato, con la prova delle notificazioni eseguite, entro venti
giorni dall’ultima notificazione, e, dall’altro, sull’art. 22 della
stessa legge n. 87 del 1953, dove si stabilisce che nel procedimento
davanti alla Corte costituzionale si osservano, in quanto
applicabili, anche le norme del regolamento per la procedura innanzi
al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Attraverso questa
ultima previsione diventerebbe applicabile al conflitto di
attribuzione l’art. 36, ultimo comma, del r.d. 26 giugno 1924, n.
1054, che, dopo aver prescritto (nel penultimo comma) che il deposito
dell’originale del ricorso con la prova delle notificazioni e coi
documenti sui quali si fonda debba avvenire entro trenta giorni
successivi alle notificazioni medesime nella segreteria del Consiglio
di Stato, statuisce che i termini e i modi prescritti in questo
articolo per la notificazione e il deposito del ricorso debbono
osservarsi a pena di decadenza.
A sostegno di questa conclusione la difesa della Camera dei
deputati richiama la sentenza di questa Corte n. 87 del 1977 e
chiede, appunto, una decisione di inammissibilità o improcedibilità
per decadenza, data la perentorietà del termine.
In particolare l’inadempimento della ricorrente avrebbe fatto
mancare un fondamentale atto di impulso processuale, essenziale nel
conflitto di attribuzione, essendo questo rinunciabile, diversamente
da quanto avviene nei giudizi di legittimità costituzionale. Il
deposito, dopo che il conflitto è stato dichiarato ammissibile,
costituirebbe una vera e propria istanza di decisione, istanza che
potrebbe in ipotesi venire a mancare dopo la lettura delle
motivazioni sull’ammissibilità. Nel caso di un omesso tempestivo
deposito diventerebbe, inoltre, difficile cogliere le ragioni di
attualità del conflitto.
4. – L’eccezione preliminare, proposta dalla Camera dei deputati,
è fondata.
Il conflitto proposto non è stato ritualmente proseguito, con il
deposito presso la cancelleria della Corte, nei termini previsti, del
ricorso e dell’ordinanza che ne ha dichiarato l’ammissibilità,
tempestivamente notificati.
La particolare procedura che regola i conflitti di attribuzione tra
poteri dello Stato prevede due distinte fasi, rimesse all’iniziativa
della parte interessata. La prima è diretta alla delibazione
preliminare e sommaria dell’ammissibilità del ricorso, in quanto
destinato a sollevare un conflitto tra organi competenti a dichiarare
definitivamente la volontà del potere cui appartengono, per la
definizione della rispettiva sfera di attribuzioni determinata da
norme costituzionali. La seconda fase, destinata alla decisione nel
merito, oltre che al definitivo giudizio sulla ammissibilità del
conflitto, è egualmente rimessa all’iniziativa della parte, che ha
l’onere di provvedere nei termini previsti alla notificazione del
ricorso e dell’ordinanza che lo dichiara ammissibile, ed al
tempestivo deposito per il giudizio.
La giurisprudenza costituzionale ha già ritenuto che, data
l’autonomia delle due fasi, affinché si apra ritualmente la seconda
fase è necessario (art. 26, terzo comma, delle norme integrative per
i giudizi davanti alla Corte costituzionale) che il ricorrente
notifichi il ricorso e l’ordinanza di ammissibilità agli organi
interessati, ed entro venti giorni dall’ultima notificazione depositi
presso la cancelleria della Corte il ricorso stesso con la prova
delle notificazioni eseguite (sentenza n. 87 del 1977). Nell’attuale
regolamentazione si tratta di un adempimento necessario, che deve
essere compiuto nel termine previsto, giacché nello stesso termine
deve aver luogo la costituzione delle parti e dallo stesso termine
decorre la intera catena di ulteriori termini previsti per la
prosecuzione del giudizio (art. 26, quarto comma, delle norme
integrative).
A tale adempimento non ha provveduto la Corte d’appello di Milano,
non potendosi considerare equivalente al tempestivo deposito
l’affidamento nel termine dell’atto da depositare al servizio
postale, in mancanza di una regola generale o speciale, da applicare
a questo procedimento, in tal senso. Ne segue che non può procedersi
alla ulteriore fase del giudizio.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara improcedibile il conflitto di attribuzione tra poteri
dello Stato proposto dalla Corte d’appello di Milano nei confronti
della Camera dei deputati con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.
Il Presidente: Vassalli
Il redattore: Mirabelli
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.
Il cancelliere: Fruscella