Sentenza N. 45 del 1965
Corte Costituzionale
Data generale
09/06/1965
Data deposito/pubblicazione
09/06/1965
Data dell'udienza in cui è stato assunto
26/05/1965
GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO – Prof. ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA
JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO – Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott.
ANTONIO MANCA – Prof. ALDO SANDULLI – Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof.
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO, Giudici,
primo comma, del Codice civile, promossi con sei ordinanze emesse il 28
febbraio 1964 dal Pretore di Scalea in altrettanti procedimenti civili
vertenti tra Forestieri Rosina e Lomonaco Vittoria, Dito Francesco e
Orlando Giuseppe, Caroprese Rinaldo e Mancuso Vincenzo e Salvatore,
Biancardino Domenico e Barbarello Francesco, Rattacaso Biagio e Orlando
Giuseppe, Lazzari Luigino e Migliaccio Emma, iscritte ai nn. 95, 96,
97, 98, 99 e 100 del Registro ordinanze 1964 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 157 del 27 giugno 1964.
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Dito Francesco e
Lazzari Luigino;
udita nell’udienza pubblica del 7 aprile 1965 la relazione del
Giudice Francesco Paolo Bonifacio;
udito l’avv. Carlo Smuraglia, per Dito Francesco e Lazzari Luigino.
1. – Nel corso di sei procedimenti civili promossi, a seguito di
licenziamento, da altrettanti lavoratori contro i rispettivi datori di
lavoro ed aventi ad oggetto la condanna dei convenuti al pagamento di
indennità inerenti al rapporto di lavoro o conseguenti all’estinzione
di questo, il Pretore di Scalea con ordinanze emesse il 28 febbraio
1964 ha sollevato di ufficio la questione di legittimità
costituzionale del primo comma dell’art. 2118 del Codice civile, che
disciplina il recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Nelle ordinanze il Pretore ritiene che la norma denunziata sia in
contrasto col principio fondamentale del diritto al lavoro sancito nel
primo comma dell’art. 4 della Costituzione, la cui esatta portata deve
essere intesa e precisata in riferimento all’intero sistema delle
garanzie del lavoro e del lavoratore quale risulta configurato in varie
norme della Costituzione, ed in particolare: 1) nella solenne
enunciazione, contenuta nell’art. 1 comma primo, che consente di
individuare il tipo di reggimento instaurato attraverso la collocazione
del lavoro a fondamento dello stato repubblicano e determina il
criterio regolatore del sistema dei rapporti dei cittadini fra loro e
con lo Stato; 2) nella norma di cui all’art. 2, che vincola l’intero
ordinamento alla tutela dei diritti sociali, senza della quale
mancherebbe una effettiva garanzia della libertà e dell’indipendenza
della persona; 3) nell’art. 3, comma secondo, che contiene una norma
principio idonea a costituire la chiave di volta dell’interpretazione
di tutte le altre norme relative al lavoro, all’impresa ed alla
proprietà e segna una direttiva essenziale all’eliminazione di tutti
gli ostacoli che si frappongono all’inserimento dei lavoratori nello
Stato ed alla libera estrinsecazione della loro personalità, quali
sono rappresentati dalla sperequazione fra le classi, dalle
disuguaglianze nella distribuzione del reddito, dalle concentrazioni
oligarchiche del potere economico, 4) nelle norme degli artt. 35, 36,
37, 38, 39, 40, 41, 43 e 46, che sono tutte espressioni del sistema di
garanzia del lavoro, ed in particolare – fra queste – nell’art. 41 che,
nel riconoscere la libertà dell’iniziativa economica, ne stabilisce i
limiti nella rispondenza all’utilità sociale e nel divieto di lesione
dei diritti naturali di altri soggetti, utenti o lavoratori.
Secondo le ordinanze di remissione, se è esatto che il diritto al
lavoro non può essere configurato come un diritto soggettivo
all’occupazione nei confronti dello Stato o degli imprenditori, ciò
non esclude che per i rapporti di lavoro già costituiti si imponga
un’adeguata protezione del lavoratore nei confronti del datore di
lavoro, conformemente alla speciale posizione al primo conferita dalla
Costituzione, che è orientata – come fu affermato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 29 del 1960 verso un’energica
tutela degli interessi dei lavoratori. Visto in tale prospettiva, il
diritto al lavoro va assunto quale misura e limite del potere di
recesso dell’imprenditore e quale mezzo per ristabilire fra le parti
del contratto di lavoro a tempo indeterminato quella parità che allo
stato della legislazione è meramente formale.
Dopo aver osservato che la giurisprudenza ha costantemente esclusa
ogni possibilità di sindacato sul recesso esercitato dal datore di
lavoro e che la dottrina è profondamente divisa sugli effetti che la
norma costituzionale spiega su quella contenuta nell’art. 2118 del
Codice civile, il giudice a quo esprime l’avviso che l’art. 4 della
Costituzione comporta sicuramente la rottura della regolamentazione del
potere di recesso, quale questa fu concepita nell’ambito di un
ordinamento che, dietro l’apparenza altisonante della Carta del lavoro,
celava la realtà di un mondo di lavoratori respinto ai margini della
società statuale. La nuova norma costituzionale consentirebbe, invece,
di configurare il diritto del lavoratore alla conservazione del posto
e, quindi, l’ammissibilità di un sindacato giurisdizionale
sull’esercizio del potere di recesso: l’interpretazione dell’art. 4
della Costituzione data nella sentenza n. 3 del 1957 della Corte
costituzionale non escluderebbe che in quella norma, oltre l’impegno
del legislatore a creare le condizioni di lavoro per tutti i cittadini,
debba essere ravvisato anche lo strumento di difesa di quanti abbiano
già realizzato il diritto al lavoro.
Ricordato che gli accordi confederali – come ha constatato la Corte
costituzionale nella sentenza n. 7 del 1958 – dimostrano che è andata
sempre più affermandosi la tendenza delle fonti contrattuali
collettive all’introduzione del principio che il licenziamento deve
essere giustificato e non arbitrario, le ordinanze affermano che, in
mancanza di una interpretazione evolutiva dell’art. 2118 del Codice
civile, il problema della sopravvivenza dell’insindacabile ed
indiscriminato potere di recesso attribuito all’imprenditore può
essere risolto solo dalla Corte costituzionale.
Il giudice a quo, accertata la rilevanza della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 2118, primo comma, del Codice
civile, in riferimento all’art. 4, primo comma, della Costituzione, e
ritenutala non manifestamente infondata, ha conseguentemente sospeso i
giudizi ed ha rimesso gli atti a questa Corte.
2. – Le ordinanze, pronunziate in pubblica udienza, sono state
ritualmente notificate al Presidente del Consiglio dei Ministri,
comunicate al Presidente della Camera dei Deputati ed al Presidente del
Senato della Repubblica e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale, n. 157
del 27 giugno 1964.
3. – Nel presente giudizio non è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei Ministri. In data 9 luglio 1964 si sono costituiti i
signori Francesco Dito e Luigino Lazzari, rappresentati e difesi dagli
avvocati Aurelio Becca e Giuseppe Di Stefano. Nel relativo atto si
sostiene che la garanzia costituzionale del diritto al lavoro, sancita
fra i principi fondamentali della Costituzione, è del tutto
incompatibile con la norma denunziata, sicché potrebbe anche ritenersi
che il primo comma dell’art. 2118 del Codice civile sia stato abrogato
dalla sopravvenuta norma costituzionale.
L’incompatibilità fra norma denunziata e Costituzione si
evincerebbe altresì da tutte le garanzie di eguaglianza e di
partecipazione dei lavoratori all’indirizzo politico, giacché
l’effettivo esercizio dei diritti economici e politici non potrebbe non
aver per presupposti la garanzia di un posto di lavoro e l’esclusione
dell’arbitrio assoluto del datore di lavoro.
In data 26 marzo 1965 – fuori del termine massimo previsto
dall’art. 10 delle Norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte
costituzionale – le parti costituite hanno depositato una memoria
difensiva.
Nella pubblica udienza del 7 aprile 1965 la difesa ha ampiamente
sviluppato la tesi della illegittimità costituzionale della norma
impugnata.
1. – Le sei ordinanze del Pretore di Scalea, tutte di identico
contenuto, propongono la stessa questione di legittimità
costituzionale, e pertanto i relativi giudizi possono essere riuniti e
decisi con unica sentenza.
2. – Sebbene il giudice a quo faccia riferimento a numerose norme
costituzionali relative al lavoro o che sulla disciplina del lavoro
possano avere incidenza (artt. 1, 2, 3, 35-41, 43 e 46 della
Costituzione), la motivazione dei provvedimenti di rimessione rende
evidente che il richiamo a disposizioni diverse dall’art. 4 della
Costituzione è operato solo in funzione dell’interpretazione di
quest’ultimo.
L’oggetto del presente giudizio è da ritenere perciò circoscritto
al raffronto fra l’art. 2118, primo comma, del Codice civile e l’art.
4, primo comma, della Costituzione, e di conseguenza la Corte non può
portare il suo esame su altre questioni di legittimità della norma in
riferimento a precetti costituzionali diversi da quello di cui le
ordinanze assumono la violazione, ed in particolare sul problema –
ampiamente trattato, specialmente nella discussione orale, dalle parti
costituite – dei limiti che l’iniziativa privata incontra, ai sensi del
secondo comma dell’art. 41 della Costituzione, nel suo estrinsecarsi
attraverso l’autonomia contrattuale in materia di rapporto di lavoro a
tempo indeterminato.
3. – Nei descritti limiti e nei termini nei quali è stata
proposta, la questione non appare fondata.
Il Pretore di Scalea esprime l’avviso che l’inammissibilità di
ogni sindacato sull’esercizio del potere di recesso da parte del datore
di lavoro – conseguente alla disciplina dettata dall’art. 2118 del
Codice civile, così come questa è stata ed è interpretata dalla
costante giurisprudenza – non è conciliabile con la pretesa del
lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, che nell’art. 4
della Costituzione trova la sua fonte: dal che discenderebbe
l’illegittimità costituzionale della norma impugnata.
Ma la Corte ritiene che il denunziato contrasto non sussista.
Dal complessivo contesto del primo comma dell’art. 4 della
Costituzione – già altre volte interpretato da questa Corte (cfr.
sentenze n. 3 del 1957, n. 30 del 1958, n. 2 del 1960, n. 3 del 1961,
n. 105 del 1963) – si ricava che il diritto al lavoro, riconosciuto ad
ogni cittadino, è da considerare quale fondamentale diritto di
libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta e nel modo
di esercizio dell’attività lavorativa. A questa situazione giuridica
del cittadino – l’unica che trovi nella norma costituzionale in esame
il suo inderogabile fondamento – fa riscontro, per quanto riguarda lo
Stato, da una parte il divieto di creare o di lasciar sussistere
nell’ordinamento norme che pongano o consentano di porre limiti
discriminatori a tale libertà ovvero che direttamente o indirettamente
la rinneghino, dall’altra l’obbligo – il cui adempimento è ritenuto
dalla Costituzione essenziale all’effettiva realizzazione del descritto
diritto – di indirizzare l’attività di tutti i pubblici poteri, e
dello stesso legislatore, alla creazione di condizioni economiche,
sociali e giuridiche che consentano l’impiego di tutti i cittadini
idonei al lavoro.
Da siffatta interpretazione deriva che l’art. 4 della Costituzione,
come non garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di
un’occupazione (il che è reso evidente dal ricordato indirizzo
politico imposto allo Stato, giustificato dall’esistenza di una
situazione economica insufficiente al lavoro per tutti, e perciò da
modificare), così non garantisce il diritto alla conservazione del
lavoro, che nel primo dovrebbe trovare il suo logico e necessario
presupposto.
4. – Con ciò non si vuol dire che la disciplina dei licenziamenti
si muova su un piano del tutto diverso da quello proprio dell’art. 4
della Costituzione.
Se, infatti, è vero che l’indirizzo politico di progressiva
garanzia del diritto al lavoro, dettato nell’interesse di tutti i
cittadini, non comporta la immediata e già operante stabilità di
quelli di essi che siano già occupati, ciò non esclude, ma al
contrario esige che il legislatore nel quadro della politica prescritta
dalla norma costituzionale adegui, sulla base delle valutazioni di sua
competenza, la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato
al fine intimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e
circondi di doverose garanzie – particolarmente per quanto riguarda i
principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa,
immediatamente immessi nell’ordinamento giuridico con efficacia erga
omnes, e dei quali, perciò, i pubblici poteri devono tener conto anche
nell’interpretazione ed applicazione del diritto vigente – e di
opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a
licenziamenti.
Già in altra occasione (cfr. sentenza n. 7 del 1958) la Corte ha
rilevato che il potere illimitato del datore di lavoro di recedere dal
rapporto a tempo indeterminato non costituisce più un principio
generale del nostro ordinamento. Aspetto particolare di una disciplina
che, in quanto riguarda tutti i contratti di durata a tempo
indeterminato, non concede la dovuta rilevanza alla peculiare natura
del rapporto di lavoro ed alla posizione del lavoratore nell’impresa,
l’art. 2118 del Codice civile è stato progressivamente ristretto nella
sua sfera di efficacia sia da provvedimenti legislativi, i quali a
tutela di particolari interessi dei lavoratori hanno limitato o
temporaneamente precluso il potere di recesso del datore di lavoro
(cfr. da ultimo legge 9 gennaio 1963, n. 7), sia, soprattutto, da
anche recentissimi accordi sindacali. Questi ultimi dimostrano che le
condizioni economico-sociali del Paese consentono una nuova disciplina,
verso la quale l’evoluzione legislativa viene sollecitata anche da
raccomandazioni internazionali (cfr. 46 e 47 sessione della
Conferenza internazionale del lavoro).
5. – In questi limiti la Corte costituzionale giudica non fondata
la questione di legittimità costituzionale proposta dal Pretore di
Scalea.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riunisce i sei giudizi di cui in epigrafe;
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 2118, primo comma, del Codice
civile, in riferimento all’art. 4, primo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 maggio 1965.
GASPARE AMBROSINI – GIUSEPPE CASTELLI
AVOLIO – ANTONINO PAPALDO – NICOLA
JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO – BIAGIO
PETROCELLI – ANTONIO MANCA – ALDO
SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA – MICHELE
FRAGALI – COSTANTINO MORTATI –
GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO.