Sentenza N. 455 del 1994
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1994
Data deposito/pubblicazione
30/12/1994
Data dell'udienza in cui è stato assunto
15/12/1994
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Vincenzo
CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo
CHELI, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO;
procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 29 novembre 1993 dal Pretore di Padova
nel procedimento penale a carico di Jovanovic Valjko ed altri,
iscritta al n. 124 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale,
dell’anno 1994;
2) ordinanza emessa il 21 gennaio 1994 dal Pretore di Modica,
sezione distaccata di Ispica, nel procedimento penale a carico di
Moltisanti Corrado, iscritta al n. 203 del registro ordinanze 1994 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima
serie speciale, dell’anno 1994;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 26 ottobre 1994 il Giudice
relatore Ugo Spagnoli;
imputato di ricettazione, il Pretore di Padova, rilevato trattarsi
dello stesso procedimento nell’ambito del quale, all’esito di un
precedente dibattimento, esso magistrato aveva ritenuto la diversità
del fatto rispetto a quello contestato (furto aggravato), e aveva
pertanto, in applicazione dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen.,
ordinato la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 comma 2, cod.
proc. pen. “nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del
giudice che ha pronunciato l’ordinanza di trasmissione degli atti al
pubblico ministero ai sensi dell’art. 521, comma 2, c.p.p. a
partecipare al giudizio” (r.o. n. 124 del 1994).
L’organo remittente, precisato che l’art. 34 cod. proc. pen. non
contempla tale ipotesi tra le cause di incompatibilità del giudice,
ed escluso che ad essa possa adattarsi la previsione dell’art. 37,
comma 1, lettera b), del medesimo codice, concepita quale caso di
ricusazione (l’avere il giudice manifestato indebitamente il proprio
convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione), osserva che non
può nemmeno ritenersi appagante, nella predetta situazione
processuale, il ricorso all’istituto della astensione, attraverso
l’evocazione del motivo delle “gravi ragioni di convenienza” di cui
alla lettera h) del comma 1 dell’art. 36, non potendo essere rimessa
“alla discrezionalità del singolo magistrato la autovalutazione
della propria capacità professionale di non lasciarsi influenzare da
giudizi già espressi ritualmente”. È invece il legislatore,
prosegue il giudice a quo, a dover stabilire, ai fini della
salvaguardia del principio del giudice naturale, se in un caso come
quello in esame vi sia o meno incompatibilità a giudicare.
Al riguardo, osserva il pretore, la mancata inclusione della
predetta ipotesi tra i casi di incompatibilità individuati dall’art.
34, appare contrastante sia con il principio di parità di
trattamento normativo di situazioni simili sia con il diritto di
difesa.
E infatti, tenuto anche conto dell’espansione che ha
caratterizzato l’evoluzione dell’istituto a seguito di numerose
sentenze della Corte costituzionale, deve ritenersi in primo luogo,
secondo il remittente, che l’incompatibilità debba essere sancita in
ogni caso in cui l’attività del giudice si configuri come
oggettivamente sostitutiva del potere-dovere di iniziativa del
pubblico ministero, il che si verifica nel caso in esame, in quanto,
pronunciando l’ordinanza ex art. 521, comma 2, cod. proc. pen., il
giudice nella sostanza esercita i poteri spettanti in via ordinaria
al pubblico ministero in base agli artt. 516-518 cod. proc. pen.
Inoltre, la carente previsione normativa sarebbe in contrasto con
il principio per il quale l’incompatibilità è determinata da ogni
“valutazione di merito circa l’idoneità delle risultanze probatorie
(…) a fondare un giudizio di responsabilità degli imputati”, come
più volte affermato dalla Corte costituzionale, e ciò in quanto nel
caso di specie si sarebbe “in presenza di una previa valutazione di
responsabilità” compiuta dallo stesso giudice del dibattimento.
2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per
l’infondatezza della questione.
Secondo l’Avvocatura generale, le argomentazioni del remittente si
fondano su un’erronea applicazione dell’art. 521 cod. proc. pen.: in
realtà, come affermato dalla costante giurisprudenza della Corte di
cassazione, il “fatto diverso” che determina l’applicazione del comma
2 del citato articolo va inteso come “episodio della vita umana”, di
tal che la violazione del criterio di correlazione tra la sentenza e
la contestazione può verificarsi soltanto quando si operi una
“trasformazione o sostituzione delle condizioni che rappresentano gli
elementi costitutivi dell’addebito ( ..) in modo tale da determinare
incertezza sull’oggetto della imputazione” e “una sostanziale
violazione del diritto di difesa”. Nella specie, invece, osserva
ancora la difesa del Governo, non può dirsi essersi verificata una
modificazione del fatto, essendo la condotta della ricettazione
compresa in quella più ampia del furto, come specificamente ritenuto
più volte dalla medesima Corte di cassazione, sicché il pretore
avrebbe ben potuto e dovuto nel primo dibattimento riqualificare
correttamente il fatto, in applicazione dell’art. 521 comma 1,
pronunciando sentenza; e, non essendo ciò avvenuto, a maggior
ragione doveva egli nel nuovo dibattimento pronunciare sentenza, non
essendo concepibile ravvisare una situazione di incompatibilità nel
secondo dibattimento in relazione all’esercizio di un potere (quello
di pronunciare sentenza) che non determinava nessuna incompatibilità
nel primo.
3. – Dopo aver emesso, quale giudice per le indagini preliminari,
provvedimento di riapertura delle indagini ai sensi dell’art. 414
cod. proc. pen. relativamente all’ipotizzato reato di lesioni colpose
da infortunio sul lavoro con esiti di invalidità permanente, ed
essendo successivamente stato investito del giudizio dibattimentale
in ordine al predetto reato, il pretore di Modica, sezione distaccata
di Ispica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 76, 77, 25, 101 e
3 della Costituzione, questione di costituzionalità dell’art. 34
cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede l’incompatibilità
alla funzione di giudizio del giudice che abbia in precedenza emesso
il decreto di riapertura delle indagini di cui all’art. 414 cod.
proc. pen. (r.o. n. 203 del 1994).
Espone l’organo remittente che all’esito di indagini preliminari,
il pubblico ministero aveva in un primo momento richiesto
l’archiviazione del procedimento, ritenendo che i reati ipotizzati
(quello di lesioni colpose ed altre connesse fattispecie
contravvenzionali) fossero estinti in virtù dell’amnistia concessa
con il d.P.R. n. 75 del 1990. Dopo il provvedimento di archiviazione,
a seguito di istanza dell’I.N.A.I.L., il pubblico ministero
richiedeva, ed esso giudice autorizzava, la riapertura delle
indagini, dal cui espletamento si evidenziava che l’infortunato aveva
riportato lesioni personali guarite in sei mesi con esiti di
invalidità permanente, ipotesi criminosa esclusa dall’amnistia come
previsto dall’art. 3 del citato decreto presidenziale.
Essendo stata successivamente esercitata l’azione penale mediante
emissione di decreto di citazione a giudizio, il giudice a quo,
chiamato alla funzione dibattimentale, premesso che la fattispecie
non è contemplata tra le cause di incompatibilità di cui all’art.
34 cod. proc. pen., esprime l’avviso che tale omessa previsione
contrasti: a) con gli artt. 76 e 77 della Costituzione, in quanto, in
violazione della direttiva n. 81 (recte, n. 67) della legge-delega,
determina una commistione tra funzioni requirenti e giudicanti; b)
con gli artt. 25 e 101 della Costituzione, per il nocumento ai
princìpi di imparzialità e terzietà del giudice, avendo questo
già preso cognizione del fascicolo del pubblico ministero nella fase
delle indagini preliminari; c) con l’art. 3 della Costituzione, per
la disparità di trattamento rispetto ad analoghe fattispecie, specie
a seguito “dell’allargamento delle ipotesi di incompatibilità”
derivante da numerose sentenze della Corte costituzionale.
Sottolinea il remittente che, con il decreto emesso ai sensi
dell’art. 414 cod. proc. pen., il giudice per le indagini preliminari
non si limita a effettuare “una mera valutazione formale degli atti,
ma opera un vero e proprio esame di merito” (nel caso specifico,
essendosi apprezzata la potenzialità delle lesioni a produrre le
conseguenze invalidanti ostative all’applicazione dell’amnistia).
In definitiva, assume il pretore, la norma sottoposta a censura
consente al giudice del dibattimento non solo di conoscere
preventivamente, e fin dalla fase delle indagini preliminari, tutti
gli atti compiuti ai fini dell’accertamento del reato, ma anche di
dare impulso al procedimento di cui egli stesso sarà investito in
sede di giudizio.
4. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per
l’infondatezza della questione.
Osserva l’Avvocatura che, come desumibile proprio dalla
giurisprudenza costituzionale in materia, il mero dato della previa
conoscenza degli atti del fascicolo del pubblico ministero da parte
del giudice, rimarcato dal remittente, non è ragione sufficiente a
radicare l’incompatibilità al giudizio, essendo a tal fine
necessario che il giudice abbia effettuato una valutazione sul merito
della res judicanda. Ora, contrariamente a quanto affermato dal
giudice a quo, un tale presupposto, secondo la difesa del Governo,
non ricorre nella specie, in quanto l’autorizzazione del giudice per
le indagini preliminari alla riapertura delle indagini si sostanzia
in una valutazione meramente processuale, avente ad oggetto
esclusivamente la sussistenza dell’esigenza di nuove investigazioni,
come si ricava dalla lettera dell’art. 414 del codice.
procedura penale in relazione alla mancata previsione di ulteriori
casi di incompatibilità rispetto a quanto in detta norma stabilito.
I relativi giudizi vanno pertanto riuniti per essere decisi con
un’unica sentenza.
2. – Il pretore di Padova ritiene che l’art. 34, comma 2, cod.
proc. pen., “nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del
giudice che ha pronunciato l’ordinanza di trasmissione degli atti al
pubblico ministero ai sensi dell’art. 521, comma 2, c.p.p. a
partecipare al giudizio”, sia in contrasto con il “principio di
parità di trattamento normativo di situazioni simili, in assenza di
ragionevoli motivi che giustifichino la differenza di statuizioni” e
con il diritto di difesa.
3. – La questione è fondata.
Discende dalla giurisprudenza di questa Corte il principio secondo
cui deve affermarsi l’incompatibilità alla funzione di giudizio in
capo al giudice che abbia, in uno stadio anteriore del procedimento,
espresso una valutazione nel merito della stessa materia processuale
riguardante il medesimo incolpato; e ciò sia quando questo
apprezzamento sia stato compiuto nel momento conclusivo delle
indagini preliminari (sentenze nn. 496 del 1990; 401 e 502 del 1991;
453 del 1994) sia quando esso sia stato compiuto in un precedente
giudizio di cognizione, non potutosi definire con sentenza (sentenze
nn. 124, 186, 399 del 1992; 439 del 1993).
4. – Nel caso in esame, il precedente dibattimento, riguardante
una imputazione di furto, non si era potuto definire con sentenza
solo per la ritenuta diversità del fatto (ricettazione) apprezzata
dal giudice al termine dell’istruzione dibattimentale, valendo la
regola della correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza
espressa dall’art. 521 cod. proc. pen.
Non può esservi alcun dubbio, a prescindere dalla costruzione
teorica che si voglia dare all’istituto in esame, che il giudice,
quando accerta all’esito del dibattimento che “il fatto è diverso da
come descritto nel decreto che dispone il giudizio”, abbia compiuto
una penetrante delibazione del merito della regiudicanda, non
dissimile da quella che, in mancanza di una valutazione della
diversità del fatto, conduce alla definizione con sentenza del
giudizio di merito.
Un dibattimento “bis” riguardante il medesimo fatto storico e il
medesimo imputato non può, pertanto, non essere attribuito alla
cognizione di altro giudice, trattandosi della stessa ratio di tutela
della imparzialità e serenità di giudizio che informa la regola
posta dall’art. 34, comma 1, cod. proc. pen., affermativa della
incompatibilità del giudice che abbia pronunciato sentenza in un
precedente grado di giudizio relativamente al medesimo procedimento.
5. – Deve poi ritenersi non pertinente la considerazione, svolta
dall’Avvocatura generale dello Stato, per la quale, a seguire il
costante orientamento della Corte di cassazione, nella fattispecie
processuale in esame, trattandosi di modificazione dell’imputazione
da furto in ricettazione, si sarebbe concretata una valutazione non
della diversità del fatto ma della diversa definizione giuridica ad
esso riconducibile, sicché, essendo rispettato il canone della
corrispondenza tra l’imputazione e la decisione, il giudice avrebbe
dovuto pronunciare sentenza, dando semplicemente atto della
modificazione della rubrica (art. 521, comma 1, cod. proc. pen.).
Ai fini del presente giudizio di costituzionalità, ciò che conta
è, infatti, che il giudice chiamato al nuovo dibattimento sia lo
stesso che abbia già presieduto al primo giudizio, di talché, a
prescindere dall’eventuale errore di diritto dallo stesso commesso
nell’applicare la regola del comma 2 dell’art. 521 anziché quella
del comma 1 del medesimo articolo, egli si è comunque formato un
convincimento sul merito dell’azione penale, evenienza idonea, per
quello che si è detto, a configurare una sua incompatibilità a
nuovamente giudicare sul medesimo fatto.
6. – Poiché la norma impugnata non contempla fra i casi di
incompatibilità quello qui preso in esame, ed essendo applicabile
alla fattispecie, come detto, la medesima ratio che ha condotto
questa Corte all’accoglimento di precedenti questioni di
costituzionalità concernenti l’istituto, consegue che tale mancata
previsione determina una ingiustificata disparità di trattamento di
situazioni tra loro assimilabili, dovendosi ritenere in ciò
assorbito l’ulteriore profilo di costituzionalità evocato dal
giudice a quo.
L’art. 34 comma 2 cod. proc. pen. va pertanto dichiarato
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede
l’incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice che abbia,
all’esito di precedente dibattimento, riguardante il medesimo fatto
storico a carico del medesimo imputato, ordinato la trasmissione
degli atti al pubblico ministero a norma dell’art. 521, comma 2, cod.
proc. pen.
7. – Il medesimo art. 34, nella sua interezza, è stato poi
sottoposto a scrutinio di costituzionalità dal Pretore di Modica,
nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di
giudizio del giudice che abbia in precedenza emesso il decreto di
riapertura delle indagini di cui all’art. 414 cod. proc. pen.
Ad avviso del giudice a quo tale mancata previsione
contrasterebbe: con gli artt. 76 e 77 della Costituzione, in quanto,
in violazione della direttiva n. 81 (recte, n. 67) della legge-delega, si verrebbe a determinare una commistione tra funzioni
requirenti e giudicanti; con gli artt. 25 e 101 della Costituzione,
per il nocumento ai princìpi di imparzialità e terzietà del
giudice, derivante dal fatto che questo ha già preso cognizione del
fascicolo del pubblico ministero nella fase delle indagini
preliminari; con l’art. 3 della Costituzione, per la disparità di
trattamento rispetto ad analoghe fattispecie, specie a seguito
“dell’allargamento delle ipotesi di incompatibilità” derivante da
numerose sentenze della Corte costituzionale.
8. – La questione è infondata.
L’autorità remittente muove innanzi tutto dall’assunto secondo
cui, autorizzando la riapertura delle indagini dopo il decreto di
archiviazione, il giudice non si limita ad effettuare “una mera
valutazione formale degli atti, ma opera un vero e proprio esame di
merito”.
Senonché il “merito” esaminabile dal giudice in sede di decisione
sulla richiesta di autorizzazione alla riapertura delle indagini non
può che essere confinato nell’ambito delineato dall’art. 414 cod.
proc. pen., vale a dire quello dell’effettiva “esigenza di nuove
investigazioni”, il che è lungi dal corrispondere al “merito”
dell’azione penale, che è il solo posto a base delle varie decisioni
di questa Corte dalle quali è conseguito un ampliamento delle
ipotesi di incompatibilità ex art. 34.
Autorizzando la riapertura delle indagini, sulla base del
presupposto sopra precisato, il giudice, come nel caso dell’invito ad
espletare ulteriori indagini, già preso in esame da questa Corte
sempre in riferimento alla tematica della incompatibilità (ordinanza
n. 157 del 1993), si limita ad adottare una decisione di natura
meramente processuale, avente l’effetto di legittimare il pubblico
ministero ad una nuova fase investigativa, alla cui conclusione può
seguire sia l’esercizio dell’azione penale sia una nuova richiesta di
archiviazione.
9. – Né può avere rilievo la circostanza che il giudice per le
indagini preliminari chiamato poi alla funzione dibattimentale abbia
preso già cognizione degli atti del procedimento, in quanto, come
affermato dalla Corte sin dalla sentenza n. 502 del 1991, questa
conoscenza, qualora non sia accompagnata da una valutazione
contenutistica dei risultati delle indagini, non implica il
sostanziale “pregiudizio” su cui si fonda l’istituto della
incompatibilità.
10. – Le considerazioni sopra svolte conducono anche ad escludere
la fondatezza dell’ulteriore rilievo prospettato dal giudice
remittente, secondo cui, autorizzando la riapertura delle indagini,
il giudice per le indagini preliminari svolgerebbe nella sostanza una
funzione surrogatoria del pubblico ministero. Risulta infatti
evidente come il provvedimento autorizzatorio di cui si discute abbia
contenuto neutro rispetto all’esercizio dell’azione penale, che, come
si è accennato, è questione che può porsi solo in relazione alle
determinazioni che il pubblico ministero dovrà assumere al
compimento della nuova attività di indagine.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi:
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2,
del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede
l’incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice che abbia,
all’esito di precedente dibattimento, riguardante il medesimo fatto
storico a carico del medesimo imputato, ordinato la trasmissione
degli atti al pubblico ministero a norma dell’art. 521, comma 2, del
codice di procedura penale;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 34 del codice di procedura penale, sollevata, in
riferimento agli artt. 76, 77, 25, 101 e 3 della Costituzione, dal
pretore di Modica, sezione distaccata di Ispica, con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 1994.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: SPAGNOLI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1994.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA