Sentenza N. 458 del 1989
Corte Costituzionale
Data generale
27/07/1989
Data deposito/pubblicazione
27/07/1989
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/07/1989
Presidente: dott. Francesco SAJA;
Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo
CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
Renato DELL’ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo
CAIANIELLO,
avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
comma, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17 (Misure per il
contenimento del costo del lavoro e per favorire l’occupazione),
convertito, con modificazioni, nella legge 25 marzo 1983, n. 79,
promosso con ordinanza emessa il 10 ottobre 1988 dal Pretore di
Modena nel procedimento civile vertente tra Galloni Mara e
l’I.N.P.S., iscritta al n. 204 del registro ordinanze 1989 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima
serie speciale, dell’anno 1989;
Visto l’atto di costituzione dell’I.N.P.S. nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 4 luglio 1989 il Giudice relatore
Ugo Spagnoli;
Uditi l’avv. Giacomo Giordano per l’I.N.P.S. e l’Avvocato dello
Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri;
– pensionata della gestione speciale dell’assicurazione per
l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti degli artigiani – e
I.N.P.S., il Pretore di Modena, con ordinanza 10 ottobre 1988 (r.o.
n. 204/1989), ha sollevato questione di legittimità costituzionale,
in riferimento agli artt. 3, primo comma, 31, primo comma e 38,
secondo comma, Cost., dell’art. 5, quarto comma, del decreto-legge 29
gennaio 1983, n. 17 (convertito, con modificazioni, nella legge 25
marzo 1983, n. 79), poiché non attribuisce anche ai titolari di
pensioni I.V.S., a carico delle gestioni speciali dei coltivatori
diretti mezzadri e coloni, artigiani ed esercenti attività
commerciali, o quanto meno ai pensionati ex artigiani, la
maggiorazione degli assegni familiari stabilita dal secondo comma a
vantaggio dei titolari di pensione I.V.S. a carico del fondo
lavoratori dipendenti, nonché di gestioni obbligatorie di previdenza
sostitutive, integrative o esonerative.
Ad avviso del Pretore, tale mancata attribuzione introdurrebbe una
ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento tra i
lavoratori autonomi in quiescenza e i pensionati già lavoratori
dipendenti, attesa l’omogeneità delle relative situazioni personali
– in entrambi i casi trattandosi di lavoratori non più in attività
per ragioni di età o di salute, ovvero di superstiti di lavoratori
deceduti – ciò tanto più a seguito dell’avvenuta parificazione –
quanto alla misura – delle maggiorazioni pensionistiche per carichi
familiari, spettanti ai primi, agli assegni familiari, spettanti ai
secondi (art. 4 del decreto-legge n. 314 del 1980, convertito nella
legge n. 440 del 1980), nonché a fronte della identità di
disciplina delle due categorie quanto alla conservazione del diritto
al trattamento per carichi familiari in relazione al reddito
familiare (art. 20 della legge n. 730 del 1983). Né ad escludere la
violazione, sotto questo profilo, del principio costituzionale di
eguaglianza potrebbe invocarsi la differente natura dell’attività
svolta prima del pensionamento, divenuta irrilevante a seguito di
quest’ultimo.
La disposizione impugnata, in secondo luogo, sarebbe in contrasto
con l’art. 38, secondo comma, Cost., posto a garanzia di qualsiasi
trattamento pensionistico – in ciascuna delle sue componenti,
compresa la maggiorazione per i familiari a carico – senza
distinzione alcuna tra lavoratori autonomi e lavoratori subordinati.
Tale disposizione costituzionale, pur consentendo al legislatore di
determinare differentemente l’ammontare dei vari trattamenti
pensionistici, gli impedirebbe però di introdurre differenziazioni
in relazione a presupposti identici: ciò è quanto avverrebbe nella
specie, in cui l’insufficienza dell’importo erogato a titolo di
assegni familiari darebbe luogo ad un adeguamento in senso
maggiorativo soltanto a favore di alcune categorie di pensionati, con
esclusione di altre pure vertenti nella identica situazione di
bisogno.
In terzo luogo, sia gli assegni familiari sia le maggiorazioni
pensionistiche per carichi di famiglia, costituirebbero, allo stesso
modo, provvidenze economiche intese ad agevolare l’adempimento dei
compiti familiari di cui all’art. 31 Cost.: di conseguenza il
legislatore, pur nella sua ampia facoltà di scelta, non potrebbe
nell’attribuire tali provvidenze, discriminare arbitrariamente tra
famiglia e famiglia.
2. – Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituito l’I.N.P.S.,
eccependo preliminarmente l’irrilevanza della questione, perché
basata sull’erroneo presupposto che i pensionati già lavoratori
autonomi siano titolari di un diritto agli assegni familiari (onde la
pretesa della correlativa maggiorazione): viceversa essi avrebbero
diritto alle maggiorazioni di pensione per carichi di famiglia,
atteso che queste ultime sarebbero state sostituite dagli assegni
familiari soltanto per i pensionati del Fondo lavoratori dipendenti,
così come espressamente disposto dall’art. 4 del decreto-legge n. 30
del 1974, convertito nella legge n. 114 del 1974.
Tali maggiorazioni peraltro, nonostante il livellamento del loro
importo alla misura degli assegni familiari, avrebbero natura diversa
da questi ultimi, rimanendo pur sempre, nella concezione del
legislatore, una parte del trattamento pensionistico (così Cass.,
sez. lav., n. 3663 del 1986).
In subordine, l’I.N.P.S. deduce l’infondatezza della questione,
negando la pretesa omogeneità tra la situazione dei lavoratori
autonomi e quella dei lavoratori dipendenti in quiescenza.
Richiama a tal fine la sentenza n. 31 del 1986 di questa Corte a
tenore della quale – sia per la diversa qualità del rapporto di
lavoro dei lavoratori dipendenti e dei lavoratori autonomi, che
godono di un reddito e non di una retribuzione fissa, sia per la
diversa posizione economica e sociale degli stessi, sia infine per la
differente disciplina delle contribuzioni previdenziali previste per
gli uni e per gli altri – il legislatore ben potrebbe, nei limiti
della ragionevolezza, fissare in maniera differenziata l’entità
delle rispettive prestazioni previdenziali ed assistenziali, in
conseguenza di una differente valutazione delle esigenze di vita
delle due categorie.
E ciò è, a parere dell’I.N.P.S., quanto esso avrebbe fatto
dettando la disposizione impugnata, poiché, nell’escludere i
lavoratori autonomi in pensione dal beneficio, avrebbe tenuto conto
della più cospicua rilevanza economica, anche in funzione del
pensionamento, del reddito da lavoro autonomo rispetto a quella da
lavoro dipendente, ancorato a misure fisse.
La diversa natura dell’attività svolta, infine, caratterizzerebbe
differentemente anche le famiglie dei pensionati, con ciò escludendo
anche la fondatezza della censura relativa all’art. 31 Cost.
3. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, per il tramite dell’Avvocatura Generale dello Stato,
eccependo innanzi tutto l’inammissibilità di sentenze additive quale
quella auspicata dal giudice a quo.
Nel merito, conclude per l’infondatezza della questione, rilevando
che i sistemi previdenziali, avendo una loro autonoma individualità,
non sarebbero tra loro comparabili (Corte cost., n. 108 del 1989) e
che comunque, nella specie, il censurato differente trattamento tra
pensionati sarebbe giustificato, attesa la differente natura delle
attività – e del correlativo regime (di lavoro, fiscale, ecc.) –
svolte prima del pensionamento. Di contro la tesi del giudice a quo,
che giudica irrilevante tale diversità e fa leva esclusivamente
sulla identica posizione di titolari di pensione dei soggetti messi a
confronto, perverrebbe a negare in assoluto ogni possibilità di
diversificazione per qualsiasi categoria di soggetti, con un
singolare “appiattimento” di situazioni differenti nei presupposti,
vietata proprio dall’art. 3 Cost.
4. – In prossimità dell’udienza l’I.N.P.S. ha prodotto una
memoria illustrativa, osservando che i lavoratori autonomi sarebbero
totalmente estranei alla normativa impugnata. La prevista
maggiorazione degli assegni familiari infatti – come emergerebbe
dalla Relazione al disegno di legge di conversione del decreto-legge
n. 17 del 1983 – costituirebbe attuazione di uno dei punti del c.d.
“accordo Scotti” per il contenimento del costo del lavoro, siglato
dai rappresentanti del Governo, dei datori di lavoro e dei lavoratori
dipendenti, e sarebbero intese a compensare questi ultimi dei
sacrifici ad essi contestualmente imposti, operando una
redistribuzione dei redditi a favore delle famiglie più bisognose
dei lavoratori medesimi e dei pensionati. La finalità e la ratio
della legge dunque non consentirebbero alcuna possibilità di
estensione della previsione ai pensionati da lavoro autonomo, i quali
– oltre a non percepire gli assegni familiari a carico dei fattori
economici della produzione (le maggiorazioni pensionistiche essendo a
carico delle rispettive Gestioni speciali), non sono stati, né
avrebbero potuto essere parti del suddetto “Accordo”, per difetto di
ogni logico presupposto.
nella legge 25 marzo 1983, n. 79) – che reca misure per il
contenimento del costo del lavoro e per favorire l’occupazione –
prevede – al comma secondo – che a decorrere dal periodo di paga in
corso al 1° luglio 1983 ai lavoratori dipendenti è corrisposta una
maggiorazione degli assegni familiari esclusivamente per i figli ed
equiparati (ai sensi dell’art. 38 del d.P.R. 26 aprile 1957, n. 818)
a carico – di età inferiore ai diciotto anni compiuti – in misura
modulata in relazione al reddito familiare ed al numero dei figli (ed
equiparati) minori secondo la tabella allegata allo stesso
decreto-legge. Al quarto comma, il predetto art. 5 statuisce che “la
stessa maggiorazione spetta altresì ai titolari delle pensioni
dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la
vecchiaia ed i superstiti del Fondo pensioni lavoratori dipendenti,
nonché ai titolari di pensioni erogate dalle gestioni obbligatorie
di previdenza sostitutive o integrative dell’assicurazione generale
obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei
lavoratori dipendenti o che ne comportino l’esclusione o l’esonero”.
Detto quarto comma è stato impugnato dal Pretore di Modena che
dubita della sua legittimità costituzionale perché non attribuisce
la maggiorazione degli assegni familiari oltre che ai titolari di
pensione, già lavoratori dipendenti, anche ai titolari delle
pensioni a carico delle gestioni speciali per l’assicurazione
obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, dei
coltivatori diretti, mezzadri, coloni, artigiani ed esercenti
attività commerciali o quanto meno ai titolari delle pensioni
erogate dalla sola gestione speciale per l’assicurazione obbligatoria
degli artigiani (gestione alla quale fa riferimento la pensione del
ricorrente nel giudizio a quo).
Tale mancata attribuzione introdurrebbe una ingiustificata
discriminazione in danno di tali ultimi soggetti, e delle loro
famiglie, nonostante l’identica posizione di tutti i titolari di
pensione di invalidità, vecchiaia e superstiti, e nonostante la loro
medesima condizione di bisogno in relazione al sostentamento del
carico familiare: di qui la censura di violazione degli artt. 3,
primo comma, 38, secondo comma e 31, primo comma, Cost.
2. – La questione non è fondata.
La considerazione da parte del legislatore – sotto il profilo
previdenziale – del “carico di famiglia” gravante sui pensionati, ha
condotto, almeno a partire dal decreto-legge 2 marzo 1974, n. 30
(convertito nella legge 16 aprile 1974, n. 114), come di recente ha
riconosciuto anche la Corte di cassazione, alla previsione di regimi,
trattamenti ed istituti diversi a seconda che i soggetti con famiglia
a carico siano titolari di pensioni amministrate dal Fondo pensioni
lavoratori dipendenti o dalle gestioni speciali dei lavoratori
autonomi.
Il predetto provvedimento (art. 4) ha infatti attribuito soltanto
ai primi – in luogo della quota di maggiorazione della pensione prima
percepita – gli assegni familiari di cui al testo unico approvato con
d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797 e successive modificazioni; a favore
dei titolari di pensioni già lavoratori autonomi ha invece
espressamente mantenuto le dette quote di maggiorazione, limitandosi
a fissarne un tetto minimo (art. 4- bis). Per effetto di tali
disposizioni la tutela dei familiari dei titolari di pensione da
lavoro dipendente ha cessato così di essere soddisfatta attraverso
un aumento dell’importo del trattamento pensionistico, per essere
attuata con una prestazione previdenziale specifica, disciplinata in
modo organico e differenziata comunque dalla maggiorazione della
pensione. Pur perseguendo infatti, rispetto a tale maggiorazione,
analoghe finalità, gli assegni familiari non costituiscono più una
parte della pensione, sono erogati da un ente diverso da quello che
corrisponde i trattamenti pensionistici, mentre è diverso il sistema
delle relative contribuzioni.
Tale divaricazione tra il nuovo trattamento per carichi di
famiglia dei pensionati da lavoro dipendente e quello conservato ai
pensionati da lavoro autonomo non è peraltro venuta meno a seguito
dell’entrata in vigore dell’art. 4 del decreto-legge 14 luglio 1980,
n. 314 (convertito in legge 8 agosto 1980, n. 440): tale disposizione
infatti si è limitata espressamente a disporre una equiparazione
della sola misura dei trattamenti dovuti ai secondi rispetto a quelli
goduti dai primi, e non ha inciso sulla struttura né sulle modalità
dei trattamenti medesimi; struttura e modalità che, peraltro, sono
rimaste impregiudicate anche a seguito della fissazione di un tetto
massimo comune per il loro godimento (art. 20 della legge 27 dicembre
1983, n. 730). Ulteriori e rilevanti divaricazioni sono intervenute
con provvedimenti successivi: e ciò non solo con il decreto-legge 29
gennaio 1983, n. 17, contenente la norma impugnata, ma soprattutto
con il decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69, convertito nella legge 13
maggio 1988, n. 153. Quest’ultimo infatti – sulla scorta degli
indirizzi già limitatamente preannunciati nel decreto precedente ha
riformato radicalmente l’istituto degli assegni familiari,
trasformandolo in quello dell’assegno per il nucleo familiare,
attribuito sulla base di un metodo non più anagrafico ma secondo un
criterio selettivo fondato sulla limitatezza del reddito della
famiglia, in correlazione al numero delle persone facenti parte del
nucleo familiare. È stata così modificata la stessa struttura della
misura previdenziale, rendendola idonea – al di là delle
imperfezioni del provvedimento emerse nel dibattito parlamentare – ad
una redistribuzione dei redditi intesa a tutelare realmente ed
esclusivamente le situazioni di effettivo bisogno delle famiglie.
La riforma è tuttavia limitata (art. 2) alla sola categoria dei
lavoratori dipendenti, pubblici e privati, in servizio o in
quiescenza (ed ai lavoratori assistiti dall’assicurazione contro la
tubercolosi), e non si estende dunque al settore del lavoro autonomo.
Tale limitazione è peraltro ribadita proprio in relazione alla
posizione dei pensionati già lavoratori autonomi, per la quale la
legge contiene una apposita norma (art. 12- bis), che dispone
espressamente che la ricordata equiparazione del loro trattamento di
famiglia con quello dei lavoratori dipendenti – sancito dall’art. 4
del decreto-legge n. 314 del 1980 – debba restare riferita al
precedente regime degli assegni familiari.
3. – L’analisi del quadro legislativo complessivo e l’evoluzione –
anche non rettilinea – degli istituti attraverso i quali si è
realizzato il sostegno previdenziale in funzione del carico di
famiglia, la crisi e la trasformazione degli assegni familiari e il
conseguente approfondimento del divario nella struttura e nelle
finalità della nuova disciplina rispetto a quella delle
maggiorazioni di pensione, sono tutti elementi che conducono a
ritenere che, quanto meno allo stato, i trattamenti relativi ai
carichi di famiglia dei pensionati già lavoratori autonomi e di
quelli già dipendenti appaiono dotati di una propria autonoma
individualità.
Essi pertanto, anche in relazione alle molteplici differenti
caratteristiche dei complessivi regimi previdenziali goduti dalle due
categorie, non risultano comparabili al fine di saggiarne la
rispondenza di singoli aspetti al principio di eguaglianza e di
estendere a favore dell’una le provvidenze dettate per l’altra (cfr.,
per esempio, le sentenze nn. 31 del 1986, 527 del 1987, 220 del 1988
e 108 del 1989).
4. – Ma, anche al di là di questa pur decisiva considerazione,
questa Corte ritiene che comunque la censurata diversità di
trattamento non sia né irragionevole né arbitraria.
Infatti in contrario non può sostenersi, come fa il giudice a
quo, che il legislatore, nel disporre una misura di sostegno delle
famiglie dei pensionati economicamente più deboli in relazione al
numero dei componenti a carico, non avrebbe potuto operare una
distinzione discendente dalla natura dell’attività lavorativa
precedentemente prestata.
Questo argomento è contraddetto dalle ragioni poste a fondamento
della sentenza n. 31 del 1986.
Tale sentenza, per un verso ha ritenuto non arbitrario, in
relazione all’art. 3 Cost., il diverso trattamento minimo di pensione
disposto per i lavoratori autonomi rispetto a quello goduto dai
lavoratori dipendenti, e ciò sulla base della considerazione della
differente situazione in cui versano le due categorie, in relazione
sia alla diversa qualità del rapporto di lavoro dei lavoratori
dipendenti e di quelli autonomi, che godono di un reddito e non di
una retribuzione fissa, sia alla diversa posizione economica e
sociale degli stessi, sia infine alla diversa disciplina delle
rispettive contribuzioni previdenziali. Per altro verso, ha affermato
che l’art. 38, secondo comma, della Costituzione non vincola il
legislatore a considerare le esigenze della vita come
indiscriminatamente uniformi, prescindendo dal reddito fruito durante
la vita lavorativa, e non gli impone di determinare un unico minimo
di pensione per tutte le categorie di lavoratori.
I principi così espressi – dai quali la Corte non intende ora
discostarsi – in relazione ad un istituto come quello del trattamento
minimo pensionistico finalizzato a far fronte a esigenze essenziali
non possono non trovare applicazione in riferimento ai trattamenti
previdenziali per carico di famiglia, potendosi quindi anche nella
specie affermare che – almeno in linea di principio – tali
trattamenti non debbono necessariamente essere uguali per tutte le
categorie di lavoratori e che la selezione e la differenziazione
possono fondarsi – per meglio rispondere al particolare stato di
bisogno cui sono funzionalmente collegati – su motivazioni razionali
discendenti dalla considerazione, tra gli altri, dei diversi aspetti,
sopra ricordati, che caratterizzano la posizione di ciascuna di esse,
e dunque delle loro famiglie.
5. – A tali più generali considerazioni deve aggiungersi che la
norma impugnata si colloca in un provvedimento emanato a seguito di
un complesso accordo – siglato dal Governo e dalle parti sociali –
diretto a contenere il costo del lavoro, mediante l’introduzione, tra
l’altro, di misure antinflazionistiche dirette ad indebolire
sensibilmente i meccanismi di adeguamento delle retribuzioni al costo
della vita.
Nell’imporre tali sacrifici economici ai lavoratori dipendenti –
peraltro particolarmente provati dagli effetti negativi, in termini
di “drenaggio fiscale”, derivanti dai processi inflazionistici – il
legislatore ha introdotto la maggiorazione degli assegni familiari
allo scopo di sostenere le famiglie economicamente più deboli dei
medesimi lavoratori, espressamente estendendola (con la norma
impugnata) a quelli in pensione, per i quali le conseguenze
sfavorevoli direttamente incidenti sul trattamento previdenziale si
assommano a quelle proprie del periodo di attività lavorativa.
Attesi i particolari presupposti e finalità di questa misura di
sostegno – posta peraltro a totale carico dello Stato – non può
dunque ritenersi incoerente né irragionevole la scelta del
legislatore – condizionata anche dalla ristrettezza delle
disponibilità finanziarie per il necessario contenimento, anche in
funzione antinflazionistica, della spesa pubblica – di limitarne
l’applicazione al solo settore del lavoro subordinato, con esclusione
delle categorie del lavoro autonomo, non gravate dai medesimi
sacrifici e capaci di difendersi dalla erosione inflazionistica in
ragione della specificità – rispetto alla retribuzione fissa dei
lavoratori dipendenti – del reddito derivato dalla propria attività.
6. – Per tutte queste considerazioni, deve escludersi che la
disposizione censurata contrasti con i parametri invocati.
È peraltro rimesso alla discrezionalità del legislatore, in
vista di una più ampia e completa attuazione degli artt. 31 e 38,
secondo comma, Cost., di promuovere – disegnandone le necessarie e
peculiari modalità di disciplina – il passaggio, anche per i
pensionati già lavoratori autonomi ad una erogazione selettiva del
trattamento per carichi di famiglia che meglio risponda all’esigenza
di sostenere situazioni di bisogno determinate da insufficiente
reddito familiare che come tali emergano dai redditi fiscalmente
accertati.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 5, quarto comma, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17
(Misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire
l’occupazione), convertito, con modificazioni, nella legge 25 marzo
1983, n. 79, sollevata dal Pretore di Modena in relazione agli artt.
3, primo comma, 31, primo comma e 38, secondo comma, della
Costituzione, con ordinanza emessa il 10 ottobre 1988 (r.o. n.
204/1989).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 luglio 1989.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: SPAGNOLI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 27 luglio 1989.
Il cancelliere: DI PAOLA