Sentenza N. 46 del 1998
Corte Costituzionale
Data generale
05/03/1998
Data deposito/pubblicazione
05/03/1998
Data dell'udienza in cui è stato assunto
25/02/1998
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO,
dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio
ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido
NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI;
penale militare di pace, promossi con ordinanze emesse il 27 giugno,
il 4 luglio, il 19 settembre (n. 2 ordinanze), il 20 settembre, il 3
ottobre, il 19 dicembre, il 19 settembre ed il 19 dicembre 1995 (n. 2
ordinanze), il 12 e il 26 marzo 1996 (n. 2 ordinanze), dal Tribunale
militare di Padova, rispettivamente iscritte ai nn. 638, 639, 818,
819 e 820 del registro ordinanze 1995 e ai nn. 34, 405, 406, 407,
622, 732, 733 e 1180 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 49, prima serie
speciale, dell’anno 1995 e nn. 6, 19, 28, 34 e 44, prima serie
speciale, dell’anno 1996;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 1997 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
di altrettanti procedimenti penali a carico di militari imputati del
reato di diserzione (art. 148 codice penale militare di pace) o di
mancanza alla chiamata (art. 151 cod. pen. mil. pace), il tribunale
militare di Padova solleva questione di legittimità costituzionale
dell’art. 68 del codice penale militare di pace, in riferimento agli
artt. 2, 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, della
Costituzione.
Il giudice a quo premette, in ciascuna delle ordinanze, che ha già
condannato gli imputati per reati di diserzione o di mancanza alla
chiamata in relazione ad assenze dal servizio iniziate in data
anteriore alla sentenza di condanna e non ancora cessate, e che, di
fronte al perdurare dell’assenza, il procuratore militare,
successivamente alla prima condanna, ha instaurato a carico dei
predetti imputati altri procedimenti per i medesimi reati.
Il remittente rileva altresì che, in base al diritto vivente, i
reati di assenza dal servizio devono essere considerati reati
permanenti “in virtù del perdurare dell’obbligo extrapenale
(cosiddetto obbligo sottostante), la cui inosservanza è penalmente
sanzionata”. L’art. 68 cod. pen. mil. pace, in effetti, prevede per
i reati di diserzione e di mancanza alla chiamata, nell’ipotesi in
cui l’assenza perduri, che il termine per la prescrizione del reato e
quello per la estinzione della pena per decorso del tempo decorrono
dal giorno in cui il militare ha compiuto l’età per la quale cessa
in modo assoluto l’obbligo del servizio militare, a norma delle leggi
sul reclutamento. Tale disposizione, quindi, ad avviso del tribunale
che richiama sul punto l’ordinanza n. 150 del 1995 di questa Corte,
impedisce di considerare istantanei i reati di assenza dal servizio e
prevede per tali reati una permanenza sui generis, un periodo di
consumazione che si prolunga sino a coincidere con l’obbligazione
militare nella sua interezza.
Da tale qualificazione, imposta come detto dal citato art. 68, e in
considerazione del rilievo che “dal giudizio in costanza della
permanenza prende vita un nuovo fatto di reato che a sua volta
richiede un ulteriore giudizio”, discenderebbe, secondo il giudice a
quo, il fenomeno della cosiddetta spirale delle condanne, il quale
contrasterebbe, innanzitutto, con l’art. 27, primo comma, della
Costituzione, in quanto la responsabilità dell’imputato non
dipenderebbe soltanto dal suo operato, ma anche dall’efficienza
dell’apparato giudiziario-militare.
In secondo luogo, evidente sarebbe la violazione dell’art. 3 della
Costituzione, poiché il trattamento sanzionatorio complessivo
varierebbe pur in relazione a periodi di assenza dal servizio di
uguale durata.
Ed ancora, poiché la pluralità delle condanne per un unico reato
permanente, giudicato in più riprese, comporterebbe un progressivo
aumento della pena e un trattamento sanzionatorio che darebbe luogo
ad una “prova di forza tra lo Stato ed il condannato”, risulterebbero
violati sia il principio della libertà di coscienza, garantito
dall’art. 2 della Costituzione, sia quello della finalità
rieducativa della pena, sancito dall’art. 27, terzo comma, della
Costituzione.
Il medesimo effetto di un progressivo innalzamento della pena,
praticamente indeterminato sino al limite del triplo del massimo
della pena edittale, violerebbe, infine, sempre ad avviso del giudice
a quo, il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma,
della Costituzione.
2. – È intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio
dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo in primo luogo che le questioni siano dichiarate
manifestamente inammissibili.
L’Avvocatura rileva che la situazione denunciata come
incostituzionale nelle ordinanze di remissione non verrebbe meno
qualora fosse espunto dal sistema normativo il solo art. 68 cod. pen.
mil. pace, su cui si incentrano in via esclusiva le censure del
giudice a quo: l’art. 9 del d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237 (Leva e
reclutamento obbligatorio nell’esercito, nella marina e
nell’aeronautica), fissa ad una determinata età l’estinzione
dell’obbligo del servizio militare, sicché l’interesse alla
presentazione del chiamato alle armi persiste anche successivamente
al compimento dei reati di assenza dal servizio sino al compimento
della predetta età.
Ad avviso dell’Avvocatura, le questioni dovrebbero essere
dichiarate, comunque, infondate. Il fenomeno denunciato come
incostituzionale sarebbe comune a tutti i reati omissivi permanenti,
per i quali potrebbe verificarsi l’instaurazione di un numero
indefinito di nuovi giudizi nel caso in cui la condotta omissiva si
protragga anche dopo la sentenza di primo grado. La libertà di
coscienza garantita dall’art. 2 della Costituzione, del resto, non
escluderebbe affatto l’obbligo di adempiere ai doveri inderogabili di
solidarietà, ivi compreso quello del servizio militare per la durata
stabilita dalla legge (art. 52 della Costituzione).
Non sarebbe neppure violato l’art. 3 della Costituzione, poiché
non sarebbe in alcun modo equiparabile la situazione del chiamato
alle armi, che rimanga assente senza essere stato ancora condannato,
a quella di colui che perduri nell’assenza anche dopo la sentenza di
condanna, stante il più marcato grado di antisocialità dimostrato
da quest’ultimo.
La possibilità di correttivi rispetto a pene complessivamente
esorbitanti offerta dalla disciplina del reato continuato
applicabile, per altro, anche in sede di esecuzione unitamente a
quella, sempre attraverso tale istituto, di commisurare adeguatamente
la pena complessiva all’effettivo disvalore della condotta
unitariamente considerata, renderebbero insussistenti, secondo
l’Avvocatura, anche le censure mosse in riferimento ai principi
sanciti dagli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della
Costituzione.
L’Avvocatura osserva poi che l’estinzione dell’obbligo del servizio
militare costituisce una sola delle modalità di cessazione della
permanenza per i reati in esame, in quanto ad essa devono aggiungersi
anche la condotta volontaria dell’agente e la sopravvenuta
impossibilità di porre in essere condotte interruttive, come avviene
nel caso di collocamento in congedo assoluto del colpevole.
Infine, secondo l’Avvocatura, l’ulteriore assenza oggetto di nuovo
giudizio non sarebbe stata valutata nei precedenti giudizi, sicché,
in caso di pluralità di condanne, ricorrerebbero altrettante ipotesi
di “interruzione giudiziale” delle assenze, ciascuna delle quali
presenterebbe elementi non riconducibili ad unità né sotto il
profilo oggettivo né sotto quello psicologico.
dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 68 del codice
penale militare di pace, il quale, prevedendo che per i reati di
mancanza alla chiamata e di diserzione, nell’ipotesi in cui l’assenza
non sia ancora terminata, la prescrizione comincia a decorrere dal
giorno in cui per il reo cessa in modo assoluto l’obbligo militare,
impedirebbe di configurare come istantanei i reati di assenza dal
servizio e, imponendo la loro configurazione come reati permanenti,
con un periodo di consumazione che si prolunga fino a coincidere con
la durata dell’obbligo militare, darebbe luogo al fenomeno della
spirale delle condanne.
In ciò, il tribunale militare di Padova ravvisa una violazione:
degli artt. 2 e 27, terzo comma, della Costituzione, poiché la
pluralità delle condanne per un unico reato permanente, giudicato in
più riprese, derivante dalla disposizione impugnata, comporterebbe
un progressivo aumento della pena e un trattamento sanzionatorio che
si risolverebbe in una prova di forza tra lo Stato e il condannato,
in contrasto con la libertà di coscienza e con la finalità
rieducativa della pena;
dell’art. 27 della Costituzione, perché la spirale
fatto-giudizio-fatto farebbe sì che la responsabilità dell’imputato
non dipenderebbe soltanto dal suo operato, ma anche dal funzionamento
dell’apparato giudiziario militare;
dell’art. 25, secondo comma, della Costituzione, dal momento che
la moltiplicazione dei giudicati comporterebbe un innalzamento della
pena sostanzialmente indeterminato, sino al limite del triplo del
massimo della pena edittale, in contrasto con il principio di
legalità;
dell’art. 3 della Costituzione, in quanto, a parità di assenza
dal servizio, il trattamento sanzionatorio complessivo verrebbe a
dipendere dal grado di efficienza dell’apparato giudiziario in
relazione ai vari episodi che l’interruzione giudiziale rende fra
loro autonomi.
Poiché le ordinanze pongono la medesima questione, i relativi
giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. – La questione è inammissibile.
È opportuno premettere che questa Corte, spinta dall’esigenza di
porre un limite alla possibile spirale delle condanne, nella sentenza
n. 343 del 1993, ha dichiarato la illegittimità costituzionale
dell’art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, in
connessione con l’art. 148 cod. pen. mil. pace, nella parte in cui
non prevede l’esonero dalla prestazione del servizio militare di leva
a favore di coloro che, avendo rifiutato totalmente in tempo di pace
la prestazione del servizio stesso dopo aver addotto motivi diversi
da quelli indicati nell’art. 1 della legge n. 772 del 1972, o senza
aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato per quel comportamento la
pena della reclusione in misura complessivamente non inferiore a
quella del servizio militare di leva. La successiva sentenza n. 422
del 1993 ha poi chiarito che la pronuncia ora ricordata, resa in base
agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, ha una portata
generale “nel senso che estende i suoi effetti a tutti i militari
imputati di reati comportanti forme di rifiuto del servizio militare
che si vengano a trovare assoggettati alla spirale delle condanne”.
È ora da precisare che questo fenomeno non può essere ulteriormente
limitato o addirittura espunto dall’ordinamento attraverso la
semplice qualificazione del reato di assenza come reato istantaneo o
permanente, ovvero mediante la previsione che il termine di
prescrizione decorra, non dal venir meno dell’obbligo di leva, ma da
un momento più vicino nel tempo alla condotta illecita.
L’eventualità di una ripetizione delle condanne nelle ipotesi dei
reati di assenza dal servizio non è affatto una conseguenza della
configurazione di questi come reati permanenti piuttosto che come
reati istantanei. Al contrario: ferma restando la disposizione che
stabilisce l’obbligo di leva sino al compimento del
quarantacinquesimoanno di età, della cui legittimità il tribunale
militare di Padova non dubita, è evidente che alla condanna per un
episodio di assenza dal servizio, ove questa perduri, non potrebbero
non conseguire altre condanne anche nel caso in cui quel delitto
fosse considerato come istantaneo. Non potrebbe infatti
ragionevolmente sostenersi che, allo stato attuale della
legislazione, il compimento di un fatto di assenza dal servizio
comporti il venir meno dell’obbligo di prestazione imposto dalla
legge in attuazione dell’art. 52 della Costituzione.
Anche se nella ordinanza n. 150 del 1995, seguendo la
prospettazione del giudice a quo, questa Corte aveva incluso fra le
disposizioni che concorrono a definire la natura permanente dei reati
di diserzione e di mancanza alla chiamata l’art. 68 cod. pen. mil.
pace, non può essere condiviso il presupposto dal quale procede il
ragionamento del giudice a quo: che cioè il fenomeno della spirale
delle condanne derivi dalla natura permanente di tali reati, sicché
la possibilità di condanne reiterate verrebbe meno una volta rimosso
l’art. 68. Questa disposizione si limita a prevedere che, qualora
l’assenza si protragga, la prescrizione per i reati di diserzione e
di mancanza alla chiamata comincia a decorrere dal venir meno
dell’obbligo militare. La richiesta di pronuncia additiva sull’art.
68 appare frutto dell’erroneo convincimento che estinzione del reato
per prescrizione e estinzione dell’obbligo di prestare il servizio
militare di leva siano fungibili; nel senso che, estinto il reato per
prescrizione, sulla base di una diversa decorrenza del relativo
termine, si abbia anche l’estinzione dell’obbligo militare; la quale,
invece, nella vigente legislazione, quando non consegua ad un
apposito provvedimento di dispensa, si determina col compimento del
quarantacinquesimo anno di età o col verificarsi dell’ipotesi
prevista dall’art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972 per
l’obiettore di coscienza.
3. – Sotto un diverso ma concorrente profilo, se fosse vero che la
spirale delle condanne deriva dalla natura permanente dei reati di
assenza, la questione resterebbe inammissibile. Tale natura non può
essere modificata da una semplice qualificazione correttiva che
astragga dalle caratteristiche delle condotte incriminate: “la natura
permanente o istantanea del reato non può dipendere da esplicita ed
apodittica qualificazione del legislatore, ma dalla sua naturale
essenza, trattandosi di un carattere che inerisce alla qualità della
condotta così come si presenta nella realtà”, sicché “la
definizione del carattere permanente o istantaneo è affidata
all’interpretazione dei giudici ordinari” (sentenza n. 520 del 1987);
interpretazione, si aggiunga, che, come del resto osservato anche
nella ordinanza n. 150 del 1995, deve avere ad oggetto le singole
norme incriminatrici e la descrizione del comportamento illecito in
esse contenuta.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 68 del codice penale militare
di pace, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 25, secondo
comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal tribunale militare
di Padova con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 1998.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in cancelleria il 5 marzo 1998.
Il cancelliere: Fruscella