Sentenza N. 461 del 1989
Corte Costituzionale
Data generale
27/07/1989
Data deposito/pubblicazione
27/07/1989
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/07/1989
Presidente: dott. Francesco SAJA;
Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo
CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO,
dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL’ANDRO, prof. Gabriele
PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI,
prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof.
Vincenzo CAIANIELLO,
avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
terzo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del
testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti
civili e militari dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 2
dicembre 1988 dal T.A.R. della Lombardia, sezione staccata di
Brescia, sui ricorsi riuniti proposti da La Terra Vito contro il
Ministero di Grazia e Giustizia, iscritta al n. 161 del registro
ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 14, prima serie speciale, dell’anno 1989;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 5 luglio 1989 il Giudice
relatore Ugo Spagnoli;
impiegato del Ministero di Grazia e Giustizia avverso il
provvedimento reiettivo della sua istanza di mantenimento in servizio
anche dopo il sessantacinquesimo anno di età e fino al compimento
del quindicesimo di servizio effettivo, l’adi’to T.A.R. della
Lombardia, sezione staccata di Brescia, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost.,
dell’art. 4, primo e terzo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n.
1092, nella parte appunto in cui non prevede, in via generale, il
diritto al trattenimento in servizio del personale statale
ultrasessantacinquenne che non abbia ancora maturato l’anzianità di
servizio minima per il conseguimento del trattamento di quiescenza.
Sul piano della disciplina positiva – osserva il giudice a quo –
l’insussistenza di tale diritto risulta sia dal fatto che la deroga a
fini previdenziali non è compresa tra quelle testualmente previste
dal terzo comma dell’art. 4, sia dalla spettanza, nel caso in esame,
di un’indennità una tantum in luogo della pensione (art. 42, ultimo
comma, d.P.R. n. 1092 cit.), sia dalla circostanza che siffatta
deroga è prevista con norma transitoria per il personale scolastico
(art. 15, terzo comma, legge n. 477 del 1973).
In riferimento all’art. 3 Cost., il giudice a quo ravvisa una
ingiustificata disparità di trattamento sia tra varie categorie di
impiegati statali, alcune delle quali soltanto, in forza di norme
particolari, possono superare il limite dei sessantacinque anni ove
necessario per maturare i quindici anni di servizio utile a pensione;
sia nei confronti del lavoro privato, per il quale vige il diverso
principio della salvaguardia della posizione previdenziale anche in
deroga al limite dell’età lavorativa (art. 6 decreto-legge 22
dicembre 1981, n. 791, convertito nella legge 26 febbraio 1982, n.
54).
Quest’ultima differenziazione non è, a suo avviso, ragionevole
poiché l’esigenza di raggiungere un numero di anni di lavoro
sufficiente per ottenere il minimo della pensione va ricondotta ad un
interesse del lavoratore in quanto tale, essendo indifferente il
settore, pubblico o privato, in cui egli risulti inserito.
Sarebbe, inoltre, violato l’art. 38 Cost., in quanto imponendo il
collocamento a riposo a prescindere dal raggiungimento
dell’anzianità di servizio minima per il conseguimento della
pensione si comprometterebbe il diritto del lavoratore a che siano
assicurati mezzi adeguati alle sue esigenze di vita in caso di
vecchiaia.
2. – Il Presidente del Consiglio dei Ministri, intervenuto tramite
l’Avvocatura dello Stato, ha preliminarmente eccepito
l’inammissibilità della questione, in quanto volta ad ottenere una
pronuncia additiva in materia riservata alla discrezionalità del
legislatore.
Nel merito, comunque, la questione sarebbe infondata sia per la
ragionevolezza della disciplina denunciata, rispondente ad esigenze
di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), sia per
l’inestensibilità alla generalità dei dipendenti statali delle
specifiche ragioni ispiratrici delle deroghe normativamente previste,
attinenti o al carattere rischioso o usurante di determinati lavori
(personale di polizia e ferroviario) o alla peculiare organizzazione
di taluni settori (scolastico, università, della magistratura).
Non pertinente è poi, secondo l’Avvocatura, il richiamo alla
disciplina del lavoro privato, sia per l’incomparabilità tra i vari
sistemi previdenziali, sia perché, anche alla stregua del richiamato
art. 6, decreto-legge n. 761 del 1981, il limite dei sessantacinque
anni è invalicabile.
D’altra parte, l’art. 38 Cost. non impegnerebbe in modo alcuno il
legislatore a garantire l’ordinario trattamento di quiescenza ai
dipendenti dello Stato i quali non abbiano maturato almeno quindici
anni di servizio utile a pensione.
amministrativo regionale della Lombardia, sezione staccata di
Brescia, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma,
Cost., della legittimità costituzionale del combinato disposto del
primo e terzo comma dell’art. 4 d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092
(Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di
quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), nella parte
in cui non prevede, in via generale, il diritto al trattenimento in
servizio del personale statale ultrasessantacinquenne che non abbia
ancora maturato l’anzianità di servizio minima per il conseguimento
del diritto a pensione, fissata, per i dipendenti civili, in quindici
anni di servizio effettivo (art. 42 stesso d.P.R.).
2. – Nel censurare, in riferimento all’art. 3 Cost., la fissazione
al sessantacinquesimo anno del limite di età per il collocamento a
riposo dei dipendenti civili dello Stato (primo comma), il giudice a
quo assume, come tertium comparationis, non le norme – richiamate nel
terzo comma del menzionato art. 4 d.P.R. n. 1092 del 1973 – che
fissano limiti diversi per particolari categorie di dipendenti, non
dettate a fini previdenziali, bensì le disposizioni, poste da “norme
particolari” per talune categorie, che consentono il superamento del
limite dei sessantacinque anni ai fini del raggiungimento dei
quindici anni di servizio utili a pensione.
Nello stesso contesto, il T.A.R. richiama, a riprova dell’attuale
inesistenza, in via generale, di siffatto diritto, la disposizione
transitoria di cui all’art. 15, terzo comma, della legge 30 luglio
1973, n. 477, che consente al personale statale della scuola di
essere trattenuto in servizio qualora al compimento del
sessantacinquesimo anno di età non abbia raggiunto il numero di anni
richiesto per ottenere il minimo della pensione, purché fosse in
servizio al 1° ottobre 1974.
Ciò che dunque viene prospettato come violazione del principio
d’uguaglianza è la mancata assunzione a regola generale, valevole
per tutti i dipendenti statali, della particolare disposizione ora
citata.
In questi termini, la questione è infondata.
Anche prescindendo dalla sua destinazione ad una categoria
specifica, la disposizione transitoria suddetta è, invero, essa
stessa derogatoria rispetto a quella stabilita in via generale nel
primo comma del medesimo art. 15, che fissa al sessantacinquesimo
anno il limite di età per il collocamento a riposo del personale
scolastico: sicché vale al riguardo il principio, più volte
enunciato da questa Corte (cfr., ad es., sentenza n. 237 del 1984),
secondo cui una norma derogatoria non può essere assunta a metro di
legittimità della regola generale dettata in una determinata
materia. A maggior ragione, tale principio va ribadito rispetto ad
una disposizione, come quella richiamata, di natura transitoria, dato
che le contingenti esigenze – connesse al passaggio dal vecchio al
nuovo regime – che ne hanno consigliato l’adozione non possono
evidentemente essere addotte rispetto ad una situazione del tutto
diversa, come quella oggetto del giudizio a quo.
3. – Del pari infondata è la censura di violazione del principio
di eguaglianza che il T.A.R. rimettente vorrebbe desumere dalla
comparazione con la disciplina dettata in materia per il rapporto di
lavoro privato.
È ben vero, infatti, che rispetto all’esigenza del lavoratore di
raggiungere l’anzianità di servizio necessaria per il diritto a
pensione non vi è ragione di distinguere a seconda del settore,
pubblico o privato, nel quale egli risulta inserito (sentenza n. 238
del 1988). Ma il giudice a quo trascura di considerare che la
disposizione di cui all’art. 6 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n.
791 (convertito, con modificazioni, nella legge 26 febbraio 1982, n.
54) – che si assume come tertium comparationis – prevede bensì la
possibilità per il lavoratore privato di proseguire l’attività
lavorativa oltre il limite di età fissato in via generale al fine di
incrementare la propria anzianità contributiva e di conseguire
quella massima utile ai fini pensionistici; ma stabilisce che ciò
non possa comunque avvenire “oltre il compimento del
sessantacinquesimo anno di età”. La possibilità di prosecuzione del
rapporto a fini previdenziali si arresta cioè, nel settore privato,
col raggiungimento di un’età corrispondente a quella fissata per il
collocamento a riposo nel settore pubblico: sicché dalla previsione
di superamento del minor limite di età vigente nel settore privato
non può inferirsi che possa essere superato anche il limite
superiore, che a detti fini è identico per entrambi i settori.
4. – La questione è, infine, infondata anche in riferimento
all’art. 38, secondo comma, Cost. Il legislatore, infatti, non ha
mancato di considerare la situazione di chi pervenga all’età massima
per il collocamento a riposo senza aver prestato i quindici anni di
servizio effettivo necessario per il normale trattamento di
quiescenza: ed ha previsto per costoro la costituzione di una
posizione assicurativa nell’assicurazione invalidità, vecchiaia e
superstiti presso l’I.N.P.S., nonché la corresponsione, in aggiunta
alla liquidazione di buonuscita, di un’indennità una tantum, se di
importo superiore all’onere necessario per la costituzione di detta
posizione (artt. 42 e 124 d.P.R. n. 1092 del 1973, 5 legge n. 177 del
1976).
Non può perciò dirsi che al lavoratore, tenuto conto del
servizio prestato, difettino, allo stato, mezzi adeguati alle
esigenze di vita per la vecchiaia. Certo, nella prospettiva di una
più ampia attuazione del diritto garantito dall’art. 38, secondo
comma, Cost., l’interesse del lavoratore ad essere trattenuto in
servizio per il tempo necessario al conseguimento della pensione
normale è meritevole di considerazione, tanto che ha potuto
eccezionalmente giustificare, in limiti ben definiti (sentenza n. 238
del 1988), una motivata deroga al principio che fissa ai
sessantacinque anni il limite massimo per il trattenimento in
servizio a fini previdenziali dei dipendenti pubblici e privati. Tale
principio si fonda sulla presunzione che, nell’età suddetta, si
pervenga ad una diminuita disponibilità di energia incompatibile con
la prosecuzione del rapporto (e si vorrebbe perciò ricollegato, nel
settore pubblico, ad esigenze di buon andamento dell’amministrazione
ex art. 97 Cost.); presunzione che peraltro è destinata ad essere
vieppiù inficiata dai riflessi positivi del generale miglioramento
delle condizioni di vita e di salute dei lavoratori sulla loro
capacità di lavoro (sentenza n. 176 del 1986). Tuttavia, poiché il
medesimo principio è frutto pure di complesse valutazioni attinenti
alla politica dell’occupazione, specie giovanile, che si riflette
anche su valori costituzionalmente rilevanti (v. sentenza n. 248 del
1986), il suo mutamento – sia pure al limitato scopo di consentire il
trattenimento in servizio per il solo tempo necessario al
conseguimento del diritto a pensione – implica un delicato
bilanciamento degli interessi in gioco, rientrando pertanto
nell’ambito di discrezionale apprezzamento riservato al legislatore.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4, primo e terzo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n.
1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di
quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato) – sollevata
in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione – dal T.A.R.
della Lombardia, sezione staccata di Brescia, con ordinanza del 2
dicembre 1988.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 luglio 1989.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: SPAGNOLI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 27 luglio 1989.
Il cancelliere: DI PAOLA