Sentenza N. 463 del 1994
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1994
Data deposito/pubblicazione
30/12/1994
Data dell'udienza in cui è stato assunto
15/12/1994
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare
RUPERTO;
ultima proposizione, del codice di procedura penale, promosso con
ordinanza emessa il 28 aprile 1994 dal giudice per le indagini
preliminari presso la Pretura di Torino nel procedimento penale a
carico di Stefani Giulio, iscritta al n. 368 del registro ordinanze
1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26,
prima serie speciale, dell’anno 1994;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 9 novembre 1994 il Giudice
relatore Antonio Baldassarre;
mezzo del telefono instaurato a carico di Giulio Stefani, il giudice
per le indagini preliminari presso la Pretura di Torino ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 269 c.p.p., in
riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione.
Nel dare conto delle vicende processuali precedenti l’incidente di
costituzionalità, il giudice a quo ricorda di aver autorizzato, su
istanza del pubblico ministero, l’effettuazione di intercettazioni
telefoniche sull’utenza dell’indagato e, successivamente, considerato
l’esito negativo delle operazioni disposte, di aver accolto la
richiesta di archiviazione del pubblico ministero, rigettando, con lo
stesso provvedimento, la contestuale istanza di distruzione del
materiale di registrazione raccolto.
Nell’opporsi alla parte del provvedimento sfavorevole alle proprie
richieste, il pubblico ministero, dopo aver proposto un primo ricorso
per cassazione, ritenuto inammissibile dalla Corte di cassazione in
base al principio di inoppugnabilità dei provvedimenti emessi “de
plano”, e dopo aver presentato una istanza di fissazione dell’udienza
camerale ai sensi dell’art. 127 c.p.p., che veniva respinta dal
giudice per le indagini preliminari, proponeva contro tale decreto un
nuovo ricorso per cassazione, che, questa volta, la Corte suprema
accoglieva, assumendo il carattere abnorme del provvedimento emesso
dal giudice per le indagini preliminari, in quanto non rispettoso
della procedura camerale prescritta dall’art. 269 c.p.p., comma 2,
ultima proposizione.
Essendo stati restituiti dalla Corte di cassazione gli atti a
seguito dell’annullamento del decreto di rigetto di fissazione
dell’udienza camerale, il giudice per le indagini preliminari,
ritenendosi vincolato all’interpretazione fornita dalla Corte di
cassazione – secondo la quale l’istanza di distruzione delle
registrazioni delle intercettazioni telefoniche, anche se proposta
dal pubblico ministero per motivi diversi dalla tutela della
riservatezza degli interessati, obbliga il giudice competente per la
decisione a fissare la camera di consiglio ai sensi dell’art. 127
c.p.p., in modo da assicurare il contraddittorio delle parti nonché
il successivo controllo sulla decisione -, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 269 c.p.p., così interpretato,
per contrasto con gli artt. 3 e 76 della Costituzione.
Per quanto riguarda il parametro dell’art. 76 della Costituzione,
il giudice rimettente osserva che l’art. 269, comma 2, c.p.p.
rappresenta l’attuazione della direttiva espressa nell’art. 2, n. 41,
lettera e), della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa
al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di
procedura penale), nella quale non solo non si fa alcun cenno
dell’udienza camerale in questione, ma si fissa il principio
dell’obbligatorietà della conservazione della documentazione
integrale delle intercettazioni, con la contestuale previsione che
quest’ultimo può esser derogato soltanto a tutela della riservatezza
degli interessati ove questi lo richiedano. Questa previsione conduce
il giudice a quo tanto a sostenere la rigorosa tassatività della
disciplina dell’art. 269 c.p.p. sulla distruzione dei verbali e delle
registrazioni richiesta prima della formazione del giudicato, quanto
a ritenere che la celebrazione dell’udienza camerale ai sensi
dell’art. 127 c.p.p. sia prevista dal legislatore delegato al solo
fine di assicurare il contraddittorio in una decisione assunta a
tutela della riservatezza degli interessati.
A suo avviso, pertanto, contrasterebbe con i principi della legge
delega imporre la trattazione in camera di consiglio dell’istanza
presentata dal pubblico ministero – peraltro non legittimato ad
avanzare simili richieste in quanto non ricompreso nella categoria
degli “interessati” – tutte le volte che la predetta istanza sia
vòlta, come nel caso, alla realizzazione di finalità diverse dalla
tutela della riservatezza. A tale riguardo, l’ordinanza di rimessione
considera che la pur ragionevole esigenza di non gravare gli uffici
giudiziari del compito di conservare registrazioni inutili – esigenza
tanto più comprensibile per i numerosi procedimenti definiti con
decreto di archiviazione per i quali non potrà essere pronunciata
una sentenza non più soggetta a impugnazione – imporrebbe di
demandare la soluzione ad una più approfondita valutazione delle
contrapposte esigenze da parte del legislatore, dal momento che essa
non potrebbe essere raggiunta attraverso un’interpretazione estensiva
delle norme contenute nell’art. 269 c.p.p..
Infine, l’eccesso di delega dell’interpretazione resa dalla Corte
di cassazione, risulterebbe ancor più evidente ove si abbia presente
anche la direttiva espressa dall’art. 2, n. 1, della legge delega n.
81 del 1987, la quale fissa al legislatore delegato il principio
“della massima esemplificazione nello svolgimento del processo con
eliminazione di ogni atto o attività non essenziale”, principio
ribadito con particolare vigore, in riferimento al procedimento
pretorile, dall’art. 2, n. 103, della stessa legge.
In relazione alle censure di costituzionalità attinenti all’art.
3 della Costituzione, il giudice a quo, nell’esaminare il caso che ha
dato occasione alla questione in oggetto, nel quale la richiesta di
distruzione del materiale raccolto è stata presentata
contestualmente all’istanza di archiviazione, afferma che in tale
evenienza l’interpretazione dell’art. 269 c.p.p. accolta dalla Corte
di cassazione sarebbe fonte di disparità di trattamento, poiché
imporrebbe, alla chiusura per archiviazione delle indagini
preliminari, una trattazione in camera di consiglio altrimenti non
prescritta. Sebbene la prospettata disparità non riguardi
direttamente l’istituto dell’archiviazione, in quanto l’udienza
camerale di cui si discute potrebbe essere fissata in tempi non
coincidenti con il provvedimento di archiviazione e comunque non
sarebbe influente sulla relativa decisione, tuttavia la
ingiustificata e illegittima discriminazione dovuta all’obbligatoria
fissazione dell’udienza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 127
c.p.p. viene lamentata con riferimento a soggetti che, pur trovandosi
in situazioni processuali analoghe, per essere stati interessati da
indagini conclusesi con una richiesta di archiviazione, si
troverebbero ad essere informati delle indagini compiute a loro
carico, in conseguenza di un’evenienza del tutto occasionale, come la
contestuale richiesta di distruzione dei nastri registrati avanzata
dal pubblico ministero (al quale, peraltro, verrebbe accordata una
facoltà discrezionale circa l’adozione del rito camerale). Né
sarebbe ragionevole portare a conoscenza delle parti e, in particolar
modo dell’indagato, nonostante l’intervenuta archiviazione,
l’esistenza di una denuncia a suo carico e l’esecuzione di
intercettazioni sulla sua linea telefonica.
2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri si è costituito in
giudizio per chiedere una pronuncia di inammissibilità o, comunque,
di infondatezza della dedotta questione di legittimità
costituzionale.
Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, il giudice a quo
chiederebbe a questa Corte di risolvere un contrasto interpretativo
in ordine all’art. 269 c.p.p. e, pertanto, la questione, posta in
questi termini, sarebbe inammissibile, in forza del principio per il
quale il giudice rimettente è tenuto a seguire, tra le varie
interpretazioni possibili, quella conforme ai principi
costituzionali. A questa conclusione non sarebbe di ostacolo, secondo
l’Avvocatura dello Stato, l’interpretazione affermata dalla Corte di
cassazione, in sede di annullamento dell’istanza del pubblico
ministero, interpretazione che sarebbe vincolante nel caso concreto,
ma non in via di principio.
Ulteriore profilo di inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale deriverebbe, poi, dalle argomentazioni
della ordinanza di rimessione, che, nel lamentare l’illegittimità
dell’obbligatoria fissazione dell’udienza camerale ai sensi dell’art.
127 c.p.p., non chiarirebbe se questa abbia ad oggetto la sola
delibazione sulla richiesta di distruzione dei nastri registrati
ovvero la decisione sull’archiviazione. Se quest’ultimo fosse il
caso, si renderebbe irrilevante il dubbio di legittimità
costituzionale sulla norma applicabile nel giudizio a quo, dove è in
gioco esclusivamente la disciplina della distruzione dei documenti
relativi alle operazioni di intercettazione telefonica.
Infine, premesso che gli argomenti esposti nell’ordinanza di
rimessione appaiono in gran parte pertinenti a giustificare una
soluzione di merito da parte dello stesso giudice a quo (peraltro
già adottata dal giudice per le indagini preliminari presso la
Pretura di Torino e giudicata largamente condivisibile
dall’Avvocatura dello Stato), la difesa erariale osserva che
l’interpretazione della Corte di cassazione vincolerebbe il giudice a
quo nella scelta del rito, non anche nella decisione del caso in
esame.
Torino solleva questione di legittimità costituzionale dell’art.
269, comma 2, ultima proposizione, c.p.p. in riferimento agli artt. 3
e 76 della Costituzione, nella parte in cui alla luce
dell’interpretazione seguita dalla Corte di cassazione allorché ha
annullato il provvedimento di rigetto dell’istanza del pubblico
ministero di fissazione dell’udienza camerale, impone il rito di cui
all’art. 127 c.p.p. per la decisione sulla distruzione della
documentazione delle operazioni di intercettazione telefonica anche
quando la relativa richiesta sia stata avanzata, insieme all’istanza
di archiviazione del procedimento, dal pubblico ministero in vista
della tutela di beni giuridici diversi da quelli attinenti alla
riservatezza degli interessati.
Nel suo atto di costituzione l’Avvocatura dello Stato ha formulato
due distinte eccezioni d’inammissibilità. Con la prima, la difesa
erariale sospetta che questa Corte sia stata investita di una
questione meramente interpretativa, che, peraltro, lo stesso giudice
a quo avrebbe potuto risolvere seguendo l’interpretazione conforme ai
principi costituzionali, dal momento che tale giudice non può
ritenersi vincolato dall’interpretazione data alla norma contestata
dalla Corte di cassazione in sede di annullamento del provvedimento
negativo del giudice per le indagini preliminari. Con la seconda
eccezione, l’Avvocatura dello Stato deduce la mancanza di chiarezza
della questione o, quantomeno, il difetto di rilevanza della stessa,
argomentando sulla base della considerazione che, poiché la
fissazione dell’udienza camerale ai sensi dell’art. 127 c.p.p. sembra
esser diretta anche alla decisione sull’archiviazione del
procedimento, quest’ultimo oggetto escluderebbe che la norma
applicabile nel giudizio a quo sia quella contenuta nell’art. 269
c.p.p..
2. – Vanno innanzitutto respinte le eccezioni d’inammissibilità.
Relativamente alla prima eccezione, occorre ribadire che, per
aversi una questione di legittimità validamente posta, è
sufficiente che il giudice a quo riconduca alla disposizione
contestata un’interpretazione non implausibile della quale egli, a
una valutazione compiuta in una fase meramente iniziale del processo,
possa fare applicazione nel giudizio principale e sulla quale egli
nutra dubbi non arbitrari di conformità a determinate norme
costituzionali (v. sentt. nn. 117 del 1994, 51 del 1992, 64 del 1991
e 41 del 1990). Poiché nel caso il giudice rimettente ritiene di
dover applicare l’art. 269 c.p.p. nell’interpretazione fornita dalla
Corte di cassazione in sede di annullamento del provvedimento
negativo del giudice per le indagini preliminari relativo all’istanza
del pubblico ministero per la fissazione dell’udienza camerale, ai
sensi dell’art. 127 c.p.p., e poiché lo stesso giudice a quo ritiene
che quell’interpretazione possa contrastare con due disposizioni
costituzionali puntualmente indicate nell’ordinanza di rimessione,
tanto basta per dire che sia stata validamente sottoposta al giudizio
di questa Corte una determinata questione di legittimità
costituzionale.
Del tutto priva di fondamento si rivela, poi, la seconda eccezione
di inammissibilità, poiché dalla lettura dell’ordinanza di
rimessione risulta chiaramente che l’eventuale contestualità della
richiesta di archiviazione del procedimento con l’istanza del
pubblico ministero vòlta alla distruzione della documentazione
relativa alle registrazioni telefoniche viene considerata soltanto
come una premessa circa l’allegata disparità di trattamento
comportata dall’art. 269 c.p.p. nell’interpretazione accolta dalla
Corte di cassazione e sottoposta al giudizio di questa Corte.
3. – La questione non è fondata nei sensi di cui in motivazione.
Innanzitutto, si deve escludere che l’art. 269 c.p.p., nella parte
in cui prescrive il rito camerale ai sensi dell’art. 127 c.p.p., si
ponga in contrasto con l’art. 76 della Costituzione, sotto il profilo
dell'”eccesso di delega” rispetto alla direttiva contenuta nell’art.
2, n. 41, lettera e), della legge 16 febbraio 1987, n. 81, secondo la
quale il legislatore delegato è tenuto a stabilire, oltre alla
“conservazione obbligatoria, presso la stessa autorità che ha
disposto l’intercettazione, della documentazione integrale delle
conversazioni e delle altre forme di comunicazione intercettate”, la
“determinazione dei casi nei quali, a garanzia del diritto alla
riservatezza, tale documentazione deve essere distrutta”.
Nell’attuare tale principio direttivo, il legislatore delegato,
dopo aver fissato la norma secondo la quale, “salvo quanto previsto
dall’art. 271, comma 3, le registrazioni sono conservate fino alla
sentenza non più soggetta a impugnazione” (art. 269, comma 2, prima
proposizione, c.p.p.), ha disposto subito dopo che “gli interessati,
quando la documentazione non è necessaria per il procedimento,
possono chiederne la distruzione, a tutela della riservatezza, al
giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione”. Lo
stesso giudice – dispone infine l’art. 269, comma 2, ultima
proposizione – “decide in camera di consiglio a norma dell’art. 127”.
È ben vero che la norma delegata fa riferimento solamente
all’ipotesi che siano i soggetti interessati a richiedere la
distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni
telefoniche che li riguardino, una volta che nel corso del processo
siano venuti a conoscenza dell’esistenza di tali intercettazioni e
queste ultime non siano considerate necessarie per il procedimento
stesso. Ed è, altresì, vero che la distinta ipotesi che sia il
pubblico ministero a richiedere la distruzione di quel materiale
all’atto della istanza di archiviazione del procedimento, pur
frequente nella prassi applicativa, non è espressamente prevista
dall’art. 269, comma 2, c.p.p., come non ha mancato di osservare il
giudice rimettente. Tuttavia – ed è ancora il giudice a quo ad
ammetterlo – la disposizione contestata può essere interpretata – e,
di fatto, è stata interpretata dalla Corte di cassazione – in modo
tale da comportare l’applicabilità del rito camerale disciplinato
dall’art. 127 c.p.p. alla decisione sulla richiesta di distruzione
del materiale documentale relativo alle intercettazioni telefoniche
anche nell’ipotesi in cui tale richiesta sia avanzata dal pubblico
ministero, anziché dagli interessati, contestualmente all’istanza di
archiviazione del procedimento. Contrariamente a quel che suppone il
giudice a quo, siffatta interpretazione, non solo non è contraria
alla Costituzione, ma, in dipendenza del fatto che nell’ipotesi in
esame vengono in considerazione valori e interessi non diversi da
quelli coinvolti nell’ipotesi espressamente contemplata nell’art.
269, comma 2, seconda proposizione, c.p.p., è anzi l’unica
compatibile con la salvaguardia dei principi costituzionali.
È indubbio, infatti, che la decisione giudiziale sulla richiesta,
da chiunque formulata, relativa alla distruzione del materiale
documentale attinente a intercettazioni telefoniche incide in ogni
caso sopra un diritto costituzionale – quello alla riservatezza delle
proprie comunicazioni – che è stato dichiarato più volte da questa
Corte come un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 della
Costituzione e, in quanto tale, restringibile dall’autorità
giudiziaria soltanto nella misura strettamente necessaria alle
esigenze di indagine legate al compito primario concernente la
repressione dei reati (v. sentt. nn. 63 del 1994, 81 del 1993, 366
del 1991 e 34 del 1973).
Ed è proprio per salvaguardare tale diritto costituzionale
essenziale di fronte a un intervento fortemente intrusivo, come
quello realizzato con le intercettazioni telefoniche, che il
legislatore ha stabilito all’art. 269, comma 2, c.p.p. due principi
fra loro complementari, e non già, come pretende il giudice a quo,
due norme legate da un rapporto di regola (principio) a eccezione
(deroga): nella prima proposizione ha disposto che le registrazioni
delle intercettazioni ritenute necessarie per il procedimento debbono
esser conservate fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione
(regola, questa, la quale presuppone che le parti abbiano avuto la
facoltà d’interloquire, durante le fasi processuali, sulla
necessarietà delle intercettazioni telefoniche rispetto al
procedimento); nelle restanti proposizioni ha statuito che, per
quanto riguarda le intercettazioni ritenute non necessarie per il
procedimento, gli interessati possono richiederne la distruzione a
tutela della loro riservatezza e, in tal caso, il giudice deve
decidere con le garanzie processuali inerenti ai diritti della difesa
– in particolare quella del contradittorio – previste, in ipotesi,
nell’ambito del rito camerale disciplinato dall’art. 127 c.p.p..
La prospettata illegittimità costituzionale dell’applicabilità
di tale rito all’ipotesi relativa alla istanza di distruzione delle
documentazioni relative a intercettazioni telefoniche, presentata dal
pubblico ministero contestualmente alla richiesta di archiviazione
del procedimento, porterebbe ad accostare, sotto il profilo
esaminato, questa ipotesi a quella concernente la distruzione della
documentazione non più soggetta a conservazione per essere divenuta
non più impugnabile la sentenza conclusiva del relativo
procedimento. Ma, in realtà, l’ipotesi qui in considerazione
differisce sostanzialmente da quella da ultimo menzionata.
Ribadito in via generale che, qualunque sia in concreto la
motivazione addotta dal pubblico ministero per richiedere la
distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni
telefoniche, si è comunque in presenza di ipotesi comportanti
l’incisione sul diritto inviolabile alla riservatezza delle proprie
comunicazioni, occorre preliminarmente rilevare che, ove non si
applicasse all’ipotesi considerata il rito camerale di cui all’art.
127 c.p.p., si potrebbe verificare, come in effetti è avvenuto nel
giudizio a quo, il caso di una decisione che, mentre archivia il
procedimento, rigetta l’istanza di distruzione delle intercettazioni
telefoniche: in tal caso la conservazione di un materiale probatorio,
acquisito con sacrificio di un diritto personale di carattere
inviolabile, verrebbe disposta con una decisione ingiustificatamente
svincolata dalla valutazione in contradittorio con le parti tanto del
legame di necessarietà rispetto al procedimento delle
intercettazioni di cui è stata richiesta la distruzione, quanto
dell’incidenza della decisione stessa sulle esigenze di tutela della
riservatezza degli interessati.
E, invero, l’interesse delle parti ad essere sentite in relazione
alla richiesta del pubblico ministero di distruggere il materiale
documentale relativo ad intercettazioni telefoniche, che, a giudizio
dello stesso pubblico ministero, siano state effettuate senza esito
positivo, dev’esser valutato soprattutto in relazione alla natura
della decisione di archiviazione del procedimento: quest’ultima, a
differenza della sentenza non più soggetta a impugnazione, è, per
un verso, priva di stabilità nei suoi effetti, i quali sono
vanificabili da un eventuale provvedimento di riapertura delle
indagini, e, per altro verso, costituisce l’atto conclusivo di una
fase del procedimento caratterizzata dalla segretezza delle indagini
eseguite. Questi elementi – considerati alla luce degli interessi
costituzionali protetti, che la direttiva n. 41 contenuta nell’art. 2
della legge delega n. 81 del 1987 ha inteso salvaguardare – inducono
ragionevolmente a preservare in capo alle parti il diritto di essere
sentite, in applicazione dell’art. 127 c.p.p., riguardo all’eventuale
utilità di uno strumento probatorio, acquisito con sacrificio della
propria sfera di riservatezza, sul quale in futuro, in caso di
riapertura delle indagini, potrebbe fondarsi, ad avviso delle parti
medesime, un giudizio di non colpevolezza a proprio vantaggio.
Sotto questo profilo, l’art. 269, comma 2, ultima proposizione,
c.p.p., interpretato nel senso di imporre l’applicazione del rito
camerale disciplinato dall’art. 127 c.p.p. alla decisione sulla
richiesta del pubblico ministero, formulata contestualmente
all’istanza di archiviazione e vòlta alla distruzione della
documentazione relativa alle intercettazioni telefoniche effettuate
senza esito positivo, non risulta in contrasto con la direttiva n.
41, lettera e), contenuta nell’art. 2 della legge delega n. 81 del
1987 e, pertanto, non lede l’art. 76 della Costituzione.
4. – Né può fondatamente sostenersi che, interpretata nel modo
appena detto, la stessa norma comporti una violazione dell’art. 3
della Costituzione, per il fatto che creerebbe un’ingiustificata
disparità di trattamento all’interno della stessa categoria di
persone, quelle sottoposte ad indagini preliminari, distinguendo
irragionevolmente l’ipotesi di coloro che non hanno notizia, per non
aver subìto intercettazioni telefoniche, dell’archiviazione del
procedimento iniziato nei loro confronti, dall’ipotesi di coloro che,
essendo stati sottoposti ad intercettazioni telefoniche, vengono
conseguentemente informati delle indagini avvenute a loro carico e
hanno anche la possibilità di interloquire al riguardo. In proposito
basta osservare che l’incisione nella sfera privata, tutelata come
diritto costituzionale inviolabile, è un elemento sufficiente a
giustificare il diverso trattamento delle ipotesi in cui tale
incisione sia avvenuta rispetto a quelle in cui non sia occorsa,
considerato che la differenziazione del trattamento è strettamente
limitata alla decisione sul predetto elemento.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 269, comma 2, ultima
proposizione, c.p.p., nella parte in cui impone l’applicazione del
rito camerale disciplinato dall’art. 127 c.p.p. alla decisione del
giudice per le indagini preliminari sulla richiesta del pubblico
ministero, avanzata contestualmente all’istanza di archiviazione,
vo’lta alla distruzione della documentazione attinente a
intercettazioni telefoniche, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e
76 della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso
la Pretura di Torino con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 1994.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: BALDASSARRE
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1994.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA