Sentenza N. 472 del 1989
Corte Costituzionale
Data generale
31/07/1989
Data deposito/pubblicazione
31/07/1989
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/07/1989
Presidente: dott. Francesco SAJA;
Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo
CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
Renato DELL’ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, avv. Mauro
FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento
del matrimonio), aggiunto dall’art. 21 della legge 6 marzo 1987, n.
74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del
matrimonio), promosso con ordinanza emessa il 12 luglio 1988 dal
Pretore di Napoli nel procedimento penale a carico di Cocchis
Gianfranco, iscritta al n. 763 del registro ordinanze 1988 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima
serie speciale, dell’anno 1988;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 12 aprile 1989 il Giudice
relatore Giovanni Conso;
contro Cocchis Renato, imputato del reato di cui all’art. 12-sexies
della legge 1° dicembre 1970, n. 898, per aver omesso di
corrispondere gli assegni mensili stabiliti a suo carico dalla
sentenza, passata in giudicato, di cessazione degli effetti civili
del matrimonio, rispettivamente a favore della moglie e della figlia
minore, nonché del reato di cui all’art. 570, secondo comma, n. 2,
del codice penale, per aver fatto mancare alla figlia minore i mezzi
di sussistenza, il Pretore di Napoli, con ordinanza del 12 luglio
1988, ha sollevato questione di legittimità dell’art. 12-sexies
della legge 1° dicembre 1970, n. 898, introdotto dall’art. 21 della
legge 6 marzo 1987, n. 74, il quale rende applicabili al coniuge che
si sottrae all’obbligo di corrispondere l’assegno dovuto a norma
degli artt. 5 e 6 della legge n. 898 del 1970 le pene previste
dall’art. 570 del codice penale.
2. – Il giudice a quo – premesso che la situazione del coniuge
divorziato a cui carico sia stato posto l’obbligo di corrispondere
l’assegno di divorzio (un assegno divenuto ora di natura
esclusivamente “assistenziale”, senza che possa individuarsi, come
nel precedente regime, anche una “componente risarcitoria e
compensativa”) a favore dell’altro coniuge, è fondamentalmente e
sostanzialmente eguale a quella del coniuge separato a cui carico
incomba l’obbligo di mantenimento a favore dell’altro coniuge ravvisa
nella norma denunciata violazione degli artt. 3 e 25 della
Costituzione.
Il principio di eguaglianza risulterebbe vulnerato perché la
“previsione normativa delle condotte penalmente sanzionate” sarebbe
irragionevolmente diversa nelle due ipotesi: il separato diviene
punibile solo quando abbia fatto mancare i mezzi di sussistenza al
coniuge cui la separazione non sia stata addebitata; il divorziato è
perseguibile quando non adempia l’obbligo impostogli dal giudice
civile con un provvedimento del tutto insindacabile da parte del
giudice penale.
Ne deriva che la tutela accordata al divorziato “debole” è
certamente maggiore di quella disposta a favore del separato
bisognoso, così potendo anche “costituire uno stimolo
all’ottenimento del divorzio, in ciò contrastando con l’orientamento
generale dell’ordinamento che vede la separazione come tendente alla
ricomposizione piuttosto che al dissolvimento definitivo del vincolo
coniugale”.
Un’ulteriore irrazionale discriminazione deriverebbe dalla
perseguibilità d’ufficio del reato previsto dall’articolo 12-sexies
della legge n. 74 del 1987 e dalla perseguibilità a querela del
reato previsto dall’art. 570 del codice penale.
3. – Analogo contrasto con l’art. 3 della Costituzione dovrebbe
ravvisarsi anche nel trattamento riservato al divorziato che non
adempia l’obbligo di corrispondere l’assegno in favore dei figli
maggiorenni: pure in tal caso, infatti, il divorziato viene punito a
norma dell’art. 12-sexies della detta legge in conseguenza del
semplice inadempimento, mentre il separato, per essere punibile ex
art. 570 del codice penale, deve aver fatto mancare ai figli
maggiorenni i mezzi di sussistenza. Con l’ulteriore incongruenza, nel
caso di figli minorenni, di punire il divorziato con la stessa pena
irrogabile nei confronti del genitore che non sia separato.
Il tutto attraverso un’irrazionale “diversificazione del
trattamento riservato al figlio di genitori divorziati rispetto al
trattamento previsto per il figlio di genitori separati o ancora
regolarmente coniugati”, essendo “sicuramente identico nei vari casi
lo status di figlio e identici dovendo essere nei confronti di tali
soggetti i doveri di coloro che rimangono suoi genitori pur nella
patologia del rapporto coniugale”.
4. – L’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898,
confliggerebbe, ancora, con l’art. 25, secondo comma, della
Costituzione, coordinato con l’art. 1 del codice penale: la
fattispecie pre vista dalla norma denunciata, infatti, presenterebbe
“una indeterminatezza sia del precetto sia della sanzione, in palese
violazione del principio di legalità”.
Quando alla dedotta indeterminatezza del precetto, il giudice a
quo rileva come la norma in questione non consenta di stabilire se la
repressione penale comprenda anche le “condizioni” ed i “parametri”
previsti dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, quale sostituito
dagli artt. 9 e 10 della legge n. 74 del 1987, e, perciò, se essa
“possa essere applicata solo a colui che risulti debitore
inadempiente di un assegno stabilito a favore dell’ex coniuge dopo
l’entrata in vigore della legge…. o anche a chi ometta di versare
quanto stabilito dal giudice civile in sede di divorzio prima del
marzo 1987”. Con inevitabili conseguenze sulla struttura del reato,
avendo l’assegno previsto dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970
“novellato”, finalità “eminentemente assistenziali”, mentre, prima
della riforma del 1987, tale assegno poteva adempiere anche funzioni
diverse (risarcitoria e compensativa), con evidenti riverberi sul
precetto penalmente sanzionato.
Se, poi, si volesse ridurre il contenuto della fattispecie
contestata al mero inadempimento dell’obbligo di corrispondere
l’assegno di divorzio, l’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970
confliggerebbe “con l’altro principio costituzionale
dell’irretroattività della legge penale” (art. 2 del codice penale,
“come esplicitazione del principio di legalità” sancito dall’art.
25, secondo comma, della Costituzione). E ciò perché, potendo
l’obbligo di corrispondere l’assegno al coniuge essere imposto per
adempiere finalità diverse da quella assistenziale, ove ciò
avvenisse, la condotta avrebbe un contenuto risalente ad epoca nella
quale “il fatto non era di rilevanza penale”.
Quanto alla sanzione, non appare chiaro se il richiamo all’art.
570 del codice penale debba intendersi alle pene alternativamente
previste dal primo comma o a quelle congiuntamente previste dal
secondo comma di detto articolo. “La pari rilevanza come figure
autonome di reato delle ipotesi previste dall’art. 570 c.p.”,
conclude il Pretore, “impedisce il richiamo immediato ad una sola
delle stesse come reato base da considerare parametro per la
individuazione della pena”.
5. – L’ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 52, prima serie speciale, del
28 dicembre 1988.
6. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato,
chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non
fondate.
Infondata sarebbe la denunciata illegittimità dell’art. 12-sexies
della legge n. 898 del 1970 per la parte riguardante la dedotta
disparità di trattamento fra coniuge divorziato e coniuge separato.
Il regime di maggior favore riservato al primo deriva dal fatto che
egli, nei confronti del coniuge tenuto a corrispondergli l’assegno,
si trova “in posizione più debole del coniuge separato”, cosicché
“non può considerarsi illogica una più severa tutela della
posizione dell’avente diritto in seguito a divorzio”. Inoltre, anche
l’assegno corrisposto al divorziato – assegno che ha per presupposto
lo stato di bisogno – è diretto ad assicurare la “sussistenza del
coniuge avente diritto”.
Destituiti di fondamento risulterebbero gli altri rilievi
formulati dal Pretore in relazione al principio di eguaglianza:
insindacabile sarebbe l’effetto “indotto” quanto alla “spinta” a
passare, per ottenere maggiore tutela, dallo stato di separato a
quello di divorziato; insindacabile la scelta quanto alla
perseguibilità d’ufficio o a querela di parte; insindacabile,
infine, anche perché del tutto razionale, la tutela penale del
credito del figlio maggiorenne del coniuge divorziato “che si trova
in posizione più debole del figlio maggiorenne del coniuge
separato”.
Circa le censure riferite all’art. 25 della Costituzione,
l’Avvocatura, premesso che il fatto penalmente punibile è solo
quello posto in essere dopo la data di entrata in vigore della legge
n. 74 del 1987, rileva come la circostanza che l’assegno sia stato
determinato dal giudice civile prima di tale data non comporti alcuna
illegittimità della norma, non essendo impedito al legislatore
“sanzionare penalmente l’inadempimento (verificatosi successivamente
ad una certa data) di un obbligo già in precedenza stabilito dalla
legge o da un ordine del giudice”.
D’altro canto, non potrebbe ravvisarsi fra gli assegni
disciplinati dalle due leggi una natura tanto diversa da legittimare
la tesi che ritiene l’insussistenza di ogni tutela penale del diritto
all’assegno, se questo sia stato riconosciuto prima dell’entrata in
vigore della legge di riforma.
Quanto, infine, alla prospettata “indeterminatezza della sanzione”
penale, osserva l’Avvocatura come – a parte il fatto che il problema
concernente l’ambito del rinvio all’art. 570 del codice penale
dovrebbe essere risolto dal giudice a quo in sede di interpretazione
della norma denunciata – la lettera dell’art. 12-sexies della legge
n. 898 del 1970 induca ad escludere il rinvio al primo comma, data,
fra l’altro, la sostanziale assimilabilità della norma speciale alla
fattispecie prevista dal secondo comma dell’art. 570 del codice
penale.
l’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898, recante
“Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”. Introdotta nel
contesto di tale legge dall’art. 21 della legge 6 marzo 1987, n. 74,
a sua volta recante “Nuove norme sulla disciplina dei casi di
scioglimento del matrimonio”, la norma impugnata dispone che “Al
coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno
dovuto a norma degli artt. 5 e 6 della presente legge si applicano le
pene previste dall’articolo 570 del codice penale”.
I dubbi sollevati dal giudice a quo si caratterizzano variamente
non soltanto per la pluralità dei parametri e dei profili invocati
(gli artt. 3 e 25, primo e secondo comma, della Costituzione), ma
anche per il duplice contenuto del disposto impugnato, concernente,
al di là dell’impiego al singolare del termine “assegno”, due tipi
di assegno a carico del coniuge divorziato: quello, normalmente
definito “assegno di divorzio”, dovuto a norma dell’art. 5 della
stessa legge n. 898 del 1970, nel testo in più parti novellato ad
opera degli artt. 9 e 10 della legge n. 74 del 1987, e quello,
normalmente definito “assegno di mantenimento relativo ai figli”,
dovuto a norma dell’art. 6 della legge n. 898 del 1970, nel testo in
toto novellato ad opera dell’art. 11 della legge n. 74 del 1987.
Si è, perciò, in presenza di una molteplicità di questioni, da
esaminare distintamente, non appena ricostruita la genesi della nuova
disposizione.
2. – Mossa dall’intento di adeguare a criteri di giustizia
sostanziale, sulla base dell’esperienza maturata nel corso di tre
lustri, una disciplina priva di ogni precedente come quella nata
dalla scelta divorzista, la legge 6 marzo 1987, n. 74, ha dedicato
attenzione particolare agli aspetti patrimoniali del divorzio, anche
in vista di una maggior tutela del soggetto debole, rielaborando gli
artt. 5 e 6 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, ed introducendo in
essa con l’articolo 12-sexies la fattispecie delittuosa, del tutto
nuova, consistente nel sottrarsi all’obbligo di corrispondere quanto
dovuto a norma degli artt. 5 e 6 (assegno di divorzio ed assegno di
mantenimento relativo ai figli), rinviando, per la sanzione, “alle
pene previste dall’art. 570 del codice penale”.
Soprattutto la tutela penale in tal modo assicurata all’assegno di
divorzio (art. 5) ha rappresentato la risposta (certo non l’unica
possibile, né la più lineare tra le varie ipotizzate) ad
un’esigenza fattasi particolarmente avvertire dopo che le Sezioni
unite della Corte di cassazione – smentendo la precedente
giurisprudenza, che aveva ritenuto di poter estendere in via
interpretativa, sia pur a determinate condizioni, la fattispecie
delittuosa dell’art. 570, secondo comma, n. 2, del codice penale,
consistente nel far mancare i mezzi di sussistenza al coniuge
legalmente separato non per sua colpa (ora, senza addebito), dalle
“situazioni nelle quali il rapporto di coniugio sia ancora in vita”
alle “situazioni nelle quali lo stesso era definitivamente estinto” –
avevano lasciato queste ultime prive di copertura penale.
Anche se la stessa cosa non poteva dirsi nei riguardi dell’assegno
di mantenimento relativo ai figli, data la sicura riconducibilità
del figlio minorenne di genitore divorziato nell’ambito dei possibili
soggetti passivi del reato previsto dall’art. 570, secondo comma, n.
2, del codice penale, consistente nel far mancare i mezzi di
sussistenza ai discendenti minori, il legislatore del 1987 ha
formulato l’art. 12-sexies in termini tali da ricomprendere nella
nuova previsione incriminatrice, accanto all’assegno di divorzio,
anche l’assegno di mantenimento relativo ai figli, quasi
conglobandolo in un tutt’uno con l’altro, così da assicurargli
un’ulteriore tutela rispetto a quella già esistente.
3. – Delle varie differenze di trattamento venutesi così a
determinare fra la tutela penale dei crediti spettanti in caso di
divorzio e la tutela penale dei crediti spettanti in caso di
separazione, l’ordinanza di rimessione si duole, anzitutto, di quelle
riscontrabili per quanto concerne più direttamente il coniuge
debole.
Partendo dal presupposto che la situazione del coniuge divorziato
a carico del quale sia stato posto l’assegno in favore dell’altro
coniuge sia “fondamentalmente, sostanzialmente uguale a quella del
coniuge separato cui incombe l’obbligo di mantenimento”, in quanto
chiamati ciascuno a sostenere la persona, già scelta come compagna
di vita, venutasi a trovare in una situazione di disagio economico,
il giudice a quo ritiene tanto “irragionevolmente diversa nelle due
ipotesi” la descrizione della condotta penalmente sanzionata da
cogliere un primo motivo di contrasto dell’articolo 12-sexies con
l’art. 3 della Costituzione nel fatto che, mentre per il separato “il
reato è, ai sensi dell’art. 570 c.p., integrato solo laddove vengano
fatti mancare i mezzi di sussistenza al coniuge (debole) cui la
separazione non sia stata addebitata, nel caso del divorziato,
invece, basta l’inadempimento dell’obbligo statuito dal giudice
civile”. Dovendo la somma oggetto di tale obbligo commisurarsi alla
funzione, ormai soltanto assistenziale, ma pur sempre non
strettamente alimentare, dell’assegno di divorzio, in modo di
assicurare a quest’ultimo una consistenza superiore a quanto
necessario per il soddisfacimento delle essenziali condizioni di vita
cui sono preordinati i mezzi di sussistenza, sarebbe stato
indispensabile, ad evitare irrazionali disparità in presenza di
situazioni identiche, o incriminare l’omessa corresponsione
dell’assegno di divorzio solamente se tradottasi nell’omessa
somministrazione dei mezzi di sussistenza od estendere
l’incriminabilità del coniuge separato a tutti i casi di omessa
corresponsione dell’assegno di mantenimento stabilito dal giudice
civile ai sensi dell’art. 156 del codice civile.
La questione non è fondata.
Pur essendo innegabile che con la riforma del 1987 il legislatore
ha inteso avvicinare, in linea generale, il trattamento economico del
divorziato a quello del separato, è la stessa ordinanza di
rimessione ad ammettere, nel contesto del medesimo discorso, che il
separato “è ancora in qualche misura giuridicamente legato al
coniuge”, trovandosi in un periodo “nel quale la legge gli consente
di riflettere sulla possibilità di riprendere o far cessare
definitivamente il coniugio”, mentre il divorziato “ha già scelto di
‘liberarsi’ da un rapporto coniugale fallito”.
Basta ciò a rendere non palesemente arbitraria la differenza
oggetto della censura in esame, tanto più che il mancato
accoglimento della proposta legislativa, pur ripetutamente avanzata,
di ricomprendere nel testo dell’art. 570, secondo comma, del codice
penale anche la situazione del divorziato, trova spiegazione
nell’intento di mantenere collegato l’art. 570 alle situazioni
fondate sulla persistenza del vincolo coniugale, negando posto alla
tesi propensa a ravvisare un sostanziale protrarsi, anche al di là
del divorzio, della rilevanza del rapporto matrimoniale preesistente.
Del resto, pur ravvicinati, i due istituti a base del raffronto
(assegno di divorzio, assegno di separazione) trovano
regolamentazioni non coincidenti, disponendo per il secondo l’art.
156 del codice civile e per il primo l’art. 5 della legge n. 898 del
1970, ampiamente modificato, ma comunque non livellato all’altro,
dalla legge n. 74 del 1987.
Ad escludere la completa equiparabilità del trattamento economico
del divorziato a quello del separato basterebbe rilevare che per il
divorziato l’assegno di mantenimento non è correlato al tenore di
vita matrimoniale. Non meno rimarchevole appare la differenza alla
stregua della quale, in luogo dell’assegno periodico di divorzio, è
possibile “la corresponsione in unica soluzione” ai sensi dell’ottavo
comma dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, così da garantire
patrimonialmente e definitivamente l’ex coniuge, prescindendo da ogni
esigenza assistenziale, di natura solidaristica, risalente al
dissolto vincolo matrimoniale. Ma, al di là di tutto questo, resta
il fatto che, mentre il divorziato riacquista comunque lo stato
libero, il separato continua ad essere vincolato allo stato
coniugale, con la conseguenza, fra l’altro, di non venire privato
delle sue aspettative successorie.
In conclusione, la differenza riscontrabile fra i modelli di
tutela penale a raffronto corrisponde alla differenza riscontrabile
fra le situazioni rispettivamente tutelate: l’art. 12-sexies
garantisce un rapporto di credito che esaurisce in sé,
successivamente al divorzio, ogni collegamento tra le sfere degli ex
coniugi, mentre l’art. 570 del codice penale tutela un rapporto
personale tuttora in atto. Si tratta, quindi, di situazioni non
omogenee, le cui tutele diversificate rendono ultronea ogni
valutazione in termini di maggiore o minore intensità dell’una
rispetto all’altra, trovando le differenze tra esse sufficiente
giustificazione in tale non omogeneità.
4. – Sempre con riguardo alla tutela penale che l’art. 12-sexies
assicura al coniuge divorziato riconosciuto dal giudice civile
meritevole dell’assegno ex art. 5, l’ordinanza di rimessione ravvisa
un “ulteriore discrimine” non giustificabile nell'”aver sottratto
alla libera disponibilità del coniuge divorziato, cui non venga
corrisposto l’assegno, la possibilità di scegliere se chiedere o
meno la punizione del debitore mentre tale scelta è stata attribuita
al separato che versi nella identica situazione”: ed infatti, in
mancanza di una espressa disposizione sulla procedibilità, “il reato
previsto dall’art. 12-sexies va inteso procedibile d’ufficio”, mentre
l’art. 570, terzo comma, del codice penale richiede di regola la
querela della persona offesa.
Poiché la stessa ordinanza dà atto che, nella specie, la vicenda
processuale aveva preso le mosse da una querela presentata dalla
beneficiaria dell’assegno contro l’inadempiente, nel chiaro intento
di perseguirne la punizione rimuovendo ogni eventuale ostacolo
processuale, e che la stessa persona offesa si era poi costituita
parte civile, così ribadendo l’iniziale scelta persecutoria, la
questione, come proposta, è da ritenersi irrilevante in quanto
inattuale o comunque prematura. Solo in presenza di un’eventuale
propensione del querelante a rimettere la querela, verrebbe a
concretizzarsi la rilevanza della questione, che qui va, pertanto,
dichiarata inammissibile.
5. – “Anche più immediato” che non nel caso di mancata
corresponsione dell’assegno al coniuge divorziato sarebbe per il
giudice a quo il “conflitto con l’art. 3 della Costituzione, laddove
sia messa a confronto con l’art. 570” del codice penale l’altra
ipotesi contemplata dall’art. 12-sexies: cioè, la violazione
dell’obbligo di corrispondere l’assegno dovuto a norma dell’art. 6
della stessa legge 1° dicembre 1970, n. 898, in favore della prole
dei coniugi divorziati.
L’ordinanza prende anzitutto in considerazione la parte di tale
articolo nella quale è prevista la possibilità di stabilire un
assegno pure in favore del figlio maggiorenne non ancora giunto
all’indipendenza economica, lamentando che la tutela penalistica del
relativo obbligo non trovi riscontro alcuno per quanto riguarda i
figli maggiorenni di genitori separati. Ma la questione così posta
risulta priva di ogni rilevanza, figurando presente nel caso di
specie soltanto una figlia minorenne, e ne va, quindi, dichiarata
l’inammissibilità.
Per tale ragione appare, invece, senz’altro rilevante la questione
avente ad oggetto la parte dell’art. 12-sexies che incrimina la
mancata corresponsione dell’assegno dovuto dal coniuge divorziato a
favore dei figli minorenni.
Premesso che l’art. 12-sexies punisce comunque la mancata
corresponsione dell’assegno, mentre l’art. 570, secondo comma, n. 2,
del codice penale, senza distinguere tra genitori separati e genitori
non separati, punisce solo chi fa mancare al figlio minore i mezzi di
sussistenza, l’ordinanza di rimessione ritiene che la
“diversificazione del trattamento riservato al figlio di genitori
divorziati rispetto a quello previsto per il figlio di genitori
separati o ancora regolarmente coniugati non trova alcuna
giustificazione essendo sicuramente identico nei vari casi lo status
di figlio e identici dovendo essere nei confronti di tale soggetto i
doveri di coloro che rimangono suoi genitori, pur nella patologica
evoluzione del rapporto coniugale”.
La questione non è fondata.
Si deve, anzitutto, ulteriormente precisare in che cosa consista
la lamentata “diversificazione del trattamento riservato al figlio di
genitori divorziati”, dal momento che l’art. 570, secondo comma, n.
2, del codice penale non distingue né tra figli minori di genitori
separati e figli minori di genitori non separati, né tra figli
minori di genitori divorziati e figli minori di genitori non
divorziati, tant’è vero che, prima dell’introduzione dell’art.
12-sexies, mai era stato posto in dubbio che l’art. 570, secondo
comma, del codice penale fosse applicabile anche a tutela dei figli
minori di genitori divorziati.
L’attuale differenza di trattamento conseguente all’introduzione
dell’art. 12-sexies sta, dunque, tutta nel fatto che, appunto in
forza di questa nuova disposizione e, più precisamente, della parte
di essa che si richiama all’art. 6 della legge n. 898 del 1970, viene
a risultare sanzionato a tutela dei figli minori di genitori
divorziati il sottrarsi all’obbligo di corrispondere l’assegno dovuto
in seguito ad un provvedimento del giudice civile, mentre in forza
dell’art. 570, secondo comma, n. 2, del codice penale – il solo dei
due articoli applicabile anche a tutela dei figli minori di genitori
separati – continua a rimanere sanzionato unicamente il far mancare
quel minimo indispensabile rappresentato dai cosiddetti mezzi di
sussistenza, intesi come i mezzi necessari di sostentamento secondo
le valutazioni demandate dal legislatore al giudice penale. Ne
discende che il comportamento del divorziato sottrattosi alla
corresponsione dell’assegno dovuto a norma dell’art. 6 rientrerà di
per sé nella previsione dell’art. 12-sexies, mentre ricadrà
nell’ambito dell’art. 570, secondo comma, n. 2, se sarà risultato
tale da far addirittura mancare i mezzi di sussistenza.
L’innegabile differenza così insorta fra il trattamento stabilito
nei confronti del genitore divorziato ed il trattamento stabilito nei
confronti del genitore separato per quanto riguarda i figli minori
non può, peraltro, dirsi priva di ogni giustificazione, come
vorrebbe il giudice a quo. Anche qui valgono le considerazioni già
svolte in ordine alla mancata corresponsione dell’assegno di divorzio
al coniuge più debole, soprattutto perché la destinazione
dell’assegno di mantenimento ai figli minori (v. art. 6, undicesimo
comma, della legge n. 898 del 1970, nel testo novellato ad opera
dell’art. 11 della legge n. 74 del 1987) non sta a significare che
sono essi i creditori della relativa prestazione. Creditore di
quest’ultima è da intendersi pur sempre – allo stesso modo di quanto
avviene nei casi di separazione, peraltro regolati in proposito
dall’art. 155 del codice civile – il coniuge affidatario.
Nel sanzionare il comportamento di chi si sottrae all’obbligo di
corrispondere l’assegno dovuto a norma dell’art. 6, l’art. 12-sexies
tutela, dunque, un’ulteriore posizione creditoria dell’altro coniuge,
che, sia pur destinata al preciso scopo di contribuire al
mantenimento dei figli e, quindi, finalizzata a soddisfare le loro
esigenze, si aggiunge alla posizione creditoria sottostante
all’assegno dovuto a norma dell’art. 5: il che vale pure a spiegare
l’impiego del singolare nella formula “assegno dovuto a norma degli
artt. 5 e 6”, come se si trattasse di un tutt’uno, conformemente, del
resto, alla riconosciuta prassi di liquidare in un unico ammontare
complessivo i contributi disposti dal giudice civile a favore del
coniuge e della prole, salva, beninteso, la diversità dei rispettivi
presupposti e dei relativi criteri di determinazione, anche, se non
soprattutto, a fini fiscali.
Una volta riportato il discorso relativo alle differenze di
trattamento in ordine ai figli minori nell’ottica del credito di cui
è titolare il coniuge affidatario, tali differenze si sottraggono
alla censura di irragionevolezza in forza degli stessi argomenti
adottati a proposito delle differenze di trattamento concernenti
l’assegno per il coniuge.
6. – Restano da esaminare i dubbi di legittimità costituzionale
sollevati nella parte conclusiva dell’ordinanza di rimessione, con
riferimento all’art. 25, primo comma, della Costituzione. La nuova
fattispecie delittuosa, imperniata dall’art. 12-sexies della legge 1°
dicembre 1970, n. 898, sulla mancata corresponsione dell’assegno
dovuto all’ex coniuge, violerebbe il principio di legalità, data
l’indeterminatezza sia del precetto sia della sanzione.
Entrambe le questioni sono inammissibili.
Quanto al precetto, l’indeterminatezza deriverebbe dal fatto che,
pur essendo fuori di ogni discussione l’irrilevanza penale delle
condotte omissive poste in essere prima dell’entrata in vigore della
legge 6 marzo 1987, n. 74 (cioè, prima del 26 marzo 1987), non
sarebbe altrettanto chiaro “se la norma dell’art. 12-sexies possa
essere applicata solo a colui che risulti debitore inadempiente di un
assegno stabilito a favore dell’ex coniuge dopo l’entrata in vigore
della legge”, e, quindi, sulla base dei nuovi criteri fissati dal
testo novellato dell’art. 5, sesto comma, per la determinazione
dell’assegno, ovvero “anche a colui che ometta di versare” dopo il 26
marzo 1987 “quanto stabilito dal giudice civile prima” di tale data,
sulla base dei diversi criteri fissati dal testo originario dell’art.
5, quarto comma.
Si tratta, all’evidenza, di un’alternativa piuttosto netta, ben
lontana da quell’indeterminatezza che, per dar luogo ad una
violazione del principio di stretta legalità, dovrebbe risultare
assoluta, non eliminabile in sede interpretativa. Qui
l’indeterminatezza lamentata si riduce alla prospettazione di due
interpretazioni, la scelta tra le quali sarebbe, anzi è, compito
tipico ed esclusivo del giudice ordinario. Con l’aggiungere che, “se
si volesse poi interpretare la norma nel senso che comunque la stessa
penalizza chiunque sia inadempiente all’obbligo di corresponsione di
un assegno di divorzio nei confronti del coniuge tout court
stabilito” – e, quindi, anche di un assegno stabilito ai sensi
dell’art. 5 vecchio testo – “potrebbe la norma trovarsi in contrasto
con l’altro principio costituzionale dell’irretroattività della
legge penale” (art. 25, secondo comma, della Costituzione), il
giudice a quo, oltre a ribadire la sua rinuncia ad operare la
necessaria scelta interpretativa, non solo non evita
l’inammissibilità della questione, ma anzi l’aggrava. Come questa
Corte ha già avuto modo di precisare, “non è consentito ai giudici
di ipotizzare, collocandole sul medesimo piano, interpretazioni
alternative delle norme (in ipotesi anche più di due)” (cfr. la
sentenza n. 225 del 1983), nemmeno per denunciare il contrasto con la
Costituzione di una o di ciascuna fra esse. In tal caso verrebbe
addirittura “meno la possibilità di verificare la rilevanza della
questione, la quale è constatabile soltanto attraverso la precisa
indicazione della norma impugnata nella accezione che si ritiene
applicabile nel giudizio a quo” (v. pure la sentenza n. 109 del
1982).
Per quanto concerne la sanzione, essendo due soltanto, e ben
nettamente contrapposte, le possibilità interpretative cui dà luogo
il rinvio dell’art. 12-sexies alle “pene previste dall’art. 570 del
codice penale”, non di indeterminatezza si tratta, ma di un normale
dubbio interpretativo, come riconosce la stessa ordinanza, asserendo
che “non è chiaro se il richiamo debba intendersi alle pene
alternative previste dal 1° co. del 570 c.p. o a quelle congiunte del
2° co.”, senza profilare per alcuna delle due soluzioni dubbi di
legittimità costituzionale. Scegliere la soluzione preferibile alla
stregua del sistema, come si è preoccupata dialetticamente di fare
la dottrina occupatasi del problema, è compito specifico
dell’interprete e, quindi, nella specie, del giudice ordinario, in
conformità a quanto accade ogni volta in cui si debbano applicare
disposizioni dalla lettura non pacificamente univoca. Il sostenere,
come fa l’ordinanza, che le ipotesi previste dai due commi dell’art.
570 del codice penale darebbero vita ad altrettante figure autonome
di reato, cosicché nessuna di esse potrebbe assurgere a “reato-base
da considerare parametro per la individuazione della pena”, a parte
che è tesi non pacifica, non basta a precludere una scelta cui
possono soccorrere altri elementi di raffronto. Ad essa, pertanto, il
giudice a quo non poteva abdicare. L’aver rinunciato a tale normale,
anche se non agevole, operazione ermeneutica (cfr. la sentenza n. 49
del 1980) per rivolgersi a questa Corte non può che rendere
inammissibile la questione proposta.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina
dei casi di scioglimento del matrimonio), aggiunto dall’art. 21 della
legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di
scioglimento del matrimonio), sollevate, in riferimento all’art. 3
della Costituzione, dal Pretore di Napoli con l’ordinanza in
epigrafe;
Dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina
dei casi di scioglimento del matrimonio), aggiunto dall’art. 21 della
legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di
scioglimento del matrimonio), sollevate, in riferimento agli artt. 3
e 25, secondo comma, della Costituzione, dal Pretore di Napoli con
l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 luglio 1989.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: CONSO
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 31 luglio 1989.
Il cancelliere: DI PAOLA