Sentenza N. 473 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1993
Data deposito/pubblicazione
30/12/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
22/12/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
avv. Massimo VARI;
primo comma, n. 1, del codice di procedura penale del 1930, promosso
con ordinanza emessa il 15-20 gennaio 1993 dalla Corte d’appello di
Firenze nel procedimento penale a carico di Marini Roberto, iscritta
al n. 190 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno
1993;
Visti l’atto di costituzione di Marini Roberto nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 19 ottobre 1993 il Giudice
relatore Ugo Spagnoli;
Udito l’avvocato Agostino Viviani per Marini Roberto;
Tribunale di Grosseto aveva condannato Marini Roberto per il delitto
di cui all’art. 521 cod. pen., la Corte d’appello di Firenze rilevava
che di detta sentenza era estensore – e quindi componente del
relativo collegio giudicante – il coniuge del Pretore di Grosseto che
in precedenza, giudicando il Marini per il reato di cui all’art. 530
cod. pen., aveva dichiarato la propria incompetenza ravvisando,
appunto, il più grave reato di cui all’art. 521 cod. pen. Su tale
premessa, la predetta Corte, con ordinanza del 23 gennaio 1993, ha
sollevato una questione di legittimità costituzionale:
a) dell’art. 62 del codice di procedura penale del 1930, con
riferimento agli artt. 3 e 101, secondo comma, della Costituzione,
nella parte in cui non prevede che non possono esercitare nello
stesso procedimento funzioni anche separate o diverse giudici che
siano tra loro in rapporto di coniugio;
b) dell’art. 185, primo comma, n. 1, codice di procedura penale
del 1930, con riferimento all’art. 101, secondo comma, della
Costituzione, nella parte in cui non prevede come nullità le
incompatibilità stabilite dall’art. 62 dello stesso codice.
Premesso che l’espressione “funzioni anche separate o diverse”
contenuta nell’impugnato art. 62 (così come nel corrispondente art.
35 del codice del 1988) è talmente ampia e omnicomprensiva, che in
essa rientra il compimento di ogni atto proprio della funzione del
giudice, e quindi anche gli atti non aventi attitudine a definire il
procedimento e che non decidono il merito della causa, e che la
mancata previsione in detta norma – accanto ai rapporti di parentela
o affinità fino al secondo grado – del (più stretto) rapporto di
coniugio si spiega con la circostanza che le donne ebbero accesso in
magistratura solo per effetto della successiva legge 9 febbraio 1963,
n. 66, la Corte rimettente nega che all’inclusione di detto rapporto
tra le cause di incompatibilità possa pervenirsi adottando
un’interpretazione evolutiva, ostando a ciò la consolidata
giurisprudenza circa la tassatività dei casi di incompatibilità e
la natura di stretta interpretazione delle relative norme.
La disposizione, perciò, violerebbe:
a) l’art. 3 della Costituzione, per l’irragionevolezza della
differenziazione tra i rapporti di affinità in primo o secondo grado
ed il rapporto di coniugio, meritevole di più accentuata tutela;
b) l’art. 101 della Costituzione, perché le reciproche
influenze determinate dal rapporto coniugale comporterebbero un
condizionamento idoneo ad incidere sull’indipendenza di giudizio e
quindi sulla soggezione del giudice “soltanto alla legge”.
La Corte rimettente rileva, inoltre, che secondo la costante
giurisprudenza della Corte di cassazione, la violazione delle
disposizioni in tema di incompatibilità, essendo queste meramente
processuali e non di ordinamento giudiziario, non può farsi
rientrare tra i difetti attinenti alla nomina ed alle altre
condizioni di capacità del giudice stabilite dalle leggi
d’ordinamento giudiziario, per le quali l’art. 185, n. 1, cod. proc.
pen. del 1930 commina la nullità assoluta; e che, perciò, essa può
essere fatta valere solo come motivo di ricusazione, nelle forme e
nei termini prescritti per la ricusazione (art. 66): termini che
nella specie non sarebbero stati rispettati.
In proposito, la Corte non ritiene di accedere alla soluzione
adottata in un’isolata pronuncia della Corte di cassazione (sez. I, 2
ottobre 1986, Alleruzzo) che, per il caso di incompatibilità
determinata da rapporto di coniugio, ha ritenuto l’inesistenza
giuridica del provvedimento. Condivide, però, la motivazione
adottata in detta decisione, e cioè che da tale rapporto derivi un
difetto di legittimazione (sostanziale) a giudicare, per il possibile
prevalere dell’interesse personale, affettivo, sull’interesse
superiore della giustizia, e dunque per la “situazione di
compromissione delle componenti di obiettività (terzietà) da parte
di chi deve esercitare il potere di “jus dicere”; e sottolinea che le
incompatibilità in questione, diversamente dalla maggior parte delle
circostanze che comportano astensione e ricusazione, sono di
carattere oggettivo, così da non richiedere alcun apprezzamento di
merito, com’è invece per l'”interesse personale”, per l'”inimicizia
grave”, etc. Sarebbe perciò inaccettabile che siffatta situazione di
incompatibilità possa operare solo se rilevata dal singolo
magistrato o casualmente conosciuta dall’interessato: ed il fatto che
il citato art. 185, n. 1 non la preveda come difetto attinente alle
condizioni di capacità del giudice, e quindi come causa di nullità
assoluta, lo porrebbe in conflitto con l’art. 101, secondo comma,
della Costituzione, in quanto “tali condizioni hanno significato
effettivo solo in quanto rendano il giudice capace di svolgere la sua
funzione al riparo da qualsiasi possibilità di compromissione della
sua terzietà” ed esigono che il giudice “non solo sia ma anche
appaia imparziale”.
La Corte rimettente, richiama anche, al riguardo, l’art. 25, primo
comma, della Costituzione ed il principio di buona amministrazione,
ma tali censure non sono ripetute nel dispositivo.
2. – Si è costituita la parte privata Marini Roberto,
rappresentato e difeso dall’avv. A. Viviani, aderendo integralmente
alle motivazioni e conclusioni contenute nell’ordinanza.
3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, eccepisce innanzitutto
l’irrilevanza della questione concernente l’art. 62, dato che le
cause d’incompatibilità possono essere fatte valere solo come motivo
di ricusazione e questa, in quanto già effettuabile in primo grado,
non è più proponibile in fase di appello.
La questione sull’art. 185, n. 1, prospettata per superare tale
ostacolo, sarebbe poi infondata, dato che le cause di incapacità
sono diverse, e più gravi, delle cause d’incompatibilità, sicché
la diversità di disciplina dovrebbe ritenersi ragionevole.
Sul rilievo, poi, che l’ipotesi del rapporto di coniugio non
poteva realizzarsi al momento dell’emanazione del codice del 1930,
l’Avvocatura sostiene che essa potrebbe includersi tra le cause
d’incompatibilità in via interpretativa, come del resto ritenuto
dalla Corte di cassazione (sez. VI, 9 ottobre 1985, Martignetti); e
rileva – quanto alla pretesa violazione dell’art. 101 della
Costituzione – che la disciplina dei diritti e doveri inerenti al
rapporto di coniugio non autorizza a considerarlo “come idoneo in
diritto a consentire una ‘soggezione’ del coniuge-giudice a regole di
condotta diverse dalla legge”.
Firenze dubita:
a) che l’art. 62 cod. proc. pen. del 1930, nella parte in cui
non prevede che non possono esercitare nello stesso procedimento
funzioni anche separate o diverse giudici che siano tra loro in
rapporto di coniugio, violi:
l’art. 3 della Costituzione, essendo irragionevole la
differenziazione di tale rapporto rispetto a quelli di affinità di
primo o secondo grado;
con l’art. 101, secondo comma, della Costituzione, perché le
reciproche influenze determinate dal rapporto coniugale
comporterebbero un condizionamento idoneo ad incidere
sull’indipendenza di giudizio;
b) che l’art. 185, primo comma, n. 1 del cod. proc. pen. del
1930, nella parte in cui non prevede le incompatibilità ex art. 62
come cause di nullità assoluta, contrasti con l’art. 101, secondo
comma, della Costituzione dato che esse incidono sull’indipendenza di
giudizio e dovrebbero perciò includersi tra le condizioni di
capacità del giudice.
2. – Premesso che la rilevanza della questione sub a) trova
fondamento nella prospettazione di quella sub b), la Corte non
ritiene di poter disattendere – come vorrebbe l’Avvocatura dello
Stato – l’assunto del giudice a quo secondo cui all’inclusione del
rapporto di coniugio tra le cause d’incompatibilità di cui
all’impugnato art. 62 non può pervenirsi in via interpretativa. È
ben vero, infatti, che trattasi di lacuna sopravvenuta, dato che
anteriormente alla legge 9 febbraio 1963, n. 66 le donne non avevano
accesso in magistratura; ma non può negarsi che nuoccia alla
certezza delle regole processuali il ritenere che il rapporto di
coniugio sia implicitamente ricompreso, sulla base dell’eadem ratio,
tra quelli che tale norma considera, dato che è opinione comune che
le norme sull’incompatibilità e sulla ricusazione, in quanto
limitative dell’idoneità al giudizio del giudice, sono di stretta
interpretazione.
Ciò premesso, la questione sub a) deve ritenersi fondata.
L’art. 62, infatti, mira a salvaguardare l’imparzialità del
giudice dai condizionamenti che possono derivargli dalla
partecipazione allo stesso procedimento, con funzioni anche separate
o diverse, da soggetti a lui legati da stretti rapporti di parentela
o affinità. È evidente che condizionamenti anche maggiori possano
scaturire dal (più stretto) rapporto coniugale: sicché la
differenziazione è indubbiamente irragionevole.
L’art. 62 del codice di procedura penale del 1930 va perciò
dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non
prevede che non possano esercitare nello stesso procedimento funzioni
anche separate o diverse giudici che sono tra loro in rapporto di
coniugio.
4. – La questione sub b), che investe l’art. 185, primo comma, n.
1 di detto codice è, invece, infondata.
Dall’invocato principio costituzionale di soggezione del giudice
soltanto alla legge non discende, infatti, che l’osservanza delle
prescrizioni atte a garantirne l’imparzialità, ed in particolare di
quelle sulle cause d’incompatibilità, debba essere assicurata con lo
strumento della nullità assoluta.
Il legislatore può invero ritenere più appropriati, anche per
evitare il protrarsi di situazioni di incertezza, gli strumenti
dell’astensione e della ricusazione del giudice che versi in
situazione di incompatibilità, sempreché ponga la parte interessata
in condizione di dedurla.
L’incompatibilità, d’altra parte, inficia l’idoneità al corretto
esercizio delle funzioni giurisdizionali solo in relazione ad uno
specifico procedimento, e perciò può essere ragionevolmente
differenziata da quelle situazioni – considerate dalla norma
impugnata – che ostano in via generale alla capacità di esercizio di
tali funzioni.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 62 del codice di
procedura penale del 1930, nella parte in cui non prevede che nello
stesso procedimento non possono esercitare funzioni, anche separate o
diverse, giudici che sono tra loro coniugi;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 185, primo comma, numero 1 del predetto codice, in
riferimento all’art. 101, secondo comma, della Costituzione,
sollevata dalla Corte d’appello di Firenze con l’ordinanza indicata
in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 dicembre 1993.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: SPAGNOLI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA