Sentenza N. 474 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1993
Data deposito/pubblicazione
30/12/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
22/12/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
avv. Massimo VARI;
di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 24 gennaio 1992
dalla Corte d’Appello di Milano nel procedimento penale a carico di
Colonnelli Lauretta ed altri, iscritta al n. 5 del registro ordinanze
1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3,
prima serie speciale, dell’anno 1993;
Visto l’atto di costituzione di Colonnelli Lauretta nonché l’atto
di intervento di Kamenetzky Michele;
Udito nell’udienza pubblica del 19 ottobre 1993 il Giudice
relatore Francesco Guizzi;
Udito l’avvocato Dino Luigi Bonzano per Colonnelli Lauretta;
Lauretta e altri, la Corte d’appello di Milano ha sollevato questione
di legittimità costituzionale dell’art. 577 del codice di procedura
penale (che consente alla persona offesa, costituitasi parte civile
nei procedimenti per i reati di ingiuria e diffamazione,
l’impugnativa delle sentenze dibattimentali non solo ai fini
civilistici, ma anche agli “effetti penali”).
Secondo la Corte milanese la questione sarebbe rilevante nel
giudizio a quo, poiché l’eventuale incostituzionalità della
disposizione impugnata comporterebbe l’inammissibilità dell’appello
proposto dalla parte civile, almeno per la parte in cui esso tende a
far conseguire la condanna degli imputati per il reato di
diffamazione. E sarebbe non manifestamente infondata, poiché i reati
di ingiuria e diffamazione sono stati privilegiati rispetto a tanti
altri (anche più gravi) fino al punto da consentire, in caso di
assoluzione, che la parte civile possa chiedere, in luogo del
pubblico ministero che è il titolare dell’azione penale, la condanna
della persona imputata. Tale disparità di trattamento sarebbe quindi
del tutto ingiustificata e contraria ai principi di ragionevolezza e
monopolio pubblico dell’azione penale.
2. – Si è costituita, con memoria scritta a firma dei difensori e
procuratori speciali, l’imputata Lauretta Colonnelli che ha chiesto
l’accoglimento della questione di costituzionalità sollevata con
l’ordinanza in epigrafe.
Ha osservato la parte privata che le disposizioni contenute
nell’art. 577 del codice di procedura penale erano già presenti nel
codice abrogato, ove si attribuiva alla persona offesa, costituita
parte civile nel procedimento penale, il potere d’impugnare sia le
sentenze di condanna sia quelle di assoluzione, ma soltanto allo
scopo di vedere affermata la responsabilità civile dell’imputato. Il
mezzo di gravame, perciò, investiva l’esistenza del fatto-reato
esclusivamente quale presupposto logico e giuridico della
responsabilità civile dell’imputato, e dunque in via incidentale.
Introducendo la disposizione in esame, il legislatore ha inserito
nel codice di procedura penale una norma del tutto nuova in virtù
della quale “la persona offesa costituita parte civile può proporre
impugnazione, anche agli effetti penali, contro le sentenze di
condanna e di proscioglimento per i reati di ingiuria e di
diffamazione”.
L’inciso “anche agli effetti penali”, ad avviso della parte
privata, andrebbe inteso come potere di chiedere l’affermazione della
responsabilità penale dell’imputato, e conseguentemente
l’irrogazione della pena, indicando in concreto pure la sua entità.
Si tratterebbe quindi di questione delicata, e “non da poco”, come
mostrerebbe la stessa relazione al codice, atteso che la nuova
disposizione è stata introdotta “non senza contrasti al Senato nel
corso dei lavori preparatori”.
Un primo contrasto emergerebbe in riferimento all’articolo 112
della Costituzione che ha stabilito i principi dell’officialità e
dell’obbligatorietà dell’azione penale, e ha ispirato l’art. 50 del
nuovo codice di procedura penale, ove si conferisce il monopolio
dell’azione penale al pubblico ministero sancendone, appunto, il
carattere di obbligatorietà e officialità.
Se l’art. 50 è norma “destinata a valere per l’intero arco del
processo” – come chiarisce la relazione al codice – non si comprende
in qual modo possa mantenersi in vita la pretesa punitiva dello Stato
su iniziativa della parte privata (una inammissibile deroga al
principio del monopolio dell’azione penale che non può non valere
per tutto l’arco del processo). Né avrebbe pregio l’obiezione
secondo cui l’azione penale, esercitata dal pubblico ministero,
dovrebbe ritenersi conclusa con la sentenza di primo grado,
lasciandosi allo stesso pubblico ministero, in via del tutto
discrezionale, la previsione del mezzo di impugnazione. A tale
obiezione si potrebbe rispondere che una cosa è la discrezionalità
dell’azione penale e altra cosa è invece l’attribuzione della sua
titolarità anche a un diverso e privato soggetto, così chiamato a
partecipare della pretesa punitiva dello Stato oltre il primo grado
del giudizio.
Infine, ha proseguito la parte privata, l’inconciliabilità fra
l’art. 577 del codice di procedura penale e l’art. 112 della
Costituzione risulterebbe, altresì, da una serie di norme del codice
di rito che rappresentano un corollario del principio costituzionale
richiamato come, ad esempio:
– dall’art. 597 che – nel disciplinare i poteri del giudice
dell’appello – si occuperebbe esclusivamente dell’impugnativa del
pubblico ministero e di quella dell’imputato, senza fare alcun cenno
all’appello della parte civile (né potrebbe soccorrere il ricorso
all’analogia, poiché si tratterebbe di estendere l’applicabilità di
una norma processuale in malam partem;
– dall’art. 589, in relazione all’art. 577 dello stesso codice,
poiché, mentre la prima norma prevede espressamente che il pubblico
ministero possa rinunciare all’impugnazione, la seconda – nel caso di
impugnazione della parte civile – verrebbe sempre a “trascinare” il
pubblico ministero nell’iniziativa della parte privata, impedendogli
di rinunciare all’impugnazione;
– dall’art. 591 che esige, a pena di inammissibilità del
gravame, le conclusioni della parte civile appellante anche in ordine
alla sanzione, quantificandone l’entità ed indicandone i criteri di
determinazione e, così, esercitando il potere-dovere riconosciuto
dall’ordinamento, in via esclusiva, al pubblico ministero.
3. – Sarebbe poi del pari violato il parametro di cui all’art. 3
della Costituzione e, in particolare, il principio di ragionevolezza.
Non vi sarebbe infatti alcuna giustificazione a che i reati di
ingiuria e diffamazione siano privilegiati rispetto ad altri, anche
più gravi, sino al punto da consentire alla parte civile una diversa
estensione del mezzo di impugnazione delle sentenze di condanna e di
proscioglimento dell’imputato e da discriminare gli imputati di
questi reati che sono ora, essi soltanto, a vedere riformata in pejus
una sentenza di primo grado in forza del gravame della sola parte
privata.
Del resto, alla parte civile costituita nel procedimento penale
sarebbe sempre garantita la tutela dei propri interessi civili con la
possibilità di impugnare qualunque sentenza penale che sia
presupposto della responsabilità civile dell’imputato, sia pure con
il limite che il gravame investa l’accertamento del fatto-reato solo
incidenter tantum.
Né le motivazioni poste a base della innovazione legislativa
(consistenti nell’idoneità dei reati in questione a colpire il
patrimonio morale della persona offesa e, quindi, nella necessità di
una sua più energica tutela) possono razionalmente giustificare tale
disparità di trattamento, che sarebbe ai limiti dell’arbitrarietà.
4. – Con vari scritti e due memorie, tardivi in quanto non
rispettosi del termine stabilito dagli artt. 25 della legge 11 marzo
1953, n. 87 e 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla
Corte costituzionale, Michele Kamenetzky ha chiesto d’intervenire e,
in subordine, ha sollecitato la riunione a questo giudizio di un
altro (nel quale è imputato) promosso, con riferimento alla medesima
questione di costituzionalità, dalla stessa Corte d’Appello di
Milano, con ordinanza emessa in data 25 febbraio 1993.
costituzionale della norma, contenuta nell’art. 577 del codice di
procedura penale, che consente alla persona offesa dai reati di
ingiuria e diffamazione di costituirsi parte civile e di proporre
l’impugnazione anche agli effetti penali contro le sentenze di
condanna e di proscioglimento dell’imputato. Detta impugnazione
sarebbe lesiva degli artt. 3 e 112 della Costituzione, determinando
una disparità di trattamento fra le persone offese e gli imputati di
questo tipo di reati rispetto agli imputati di reati aventi pari o
maggiore gravità con evidente violazione del principio di
officialità, obbligatorietà e monopolio pubblico dell’azione penale
attribuita dalla Costituzione al pubblico ministero.
2. – L’intervento proposto da Michele Kamenetzky è inammissibile,
perché tardivo e perché lo stesso non è parte nel presente
giudizio. L’istanza di riunione, proposta in subordine, va disattesa,
giacché tale potere non è correlato ad alcun diritto delle parti (e
dell’interventore), trattandosi di una facoltà meramente
discrezionale esercitabile dalla Corte.
3. – La questione è infondata.
Dal punto di vista logico va innanzitutto respinta la censura
secondo cui la previsione d’una peculiare forma d’impugnativa della
sentenza di primo grado, concessa alla persona offesa dal reato di
ingiuria o diffamazione, costituirebbe una violazione dell’art. 112
della Costituzione, ove si afferma che il “pubblico ministero ha
l’obbligo di esercitare l’azione penale”.
Come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, la previsione
costituzionale richiamata non stabilisce affatto il principio del
monopolio pubblico dell’azione penale, ma soltanto quello
dell’obbligatorietà: tale è il principio fissato dall’art. 112 (v.
in particolare la sent. n. 61 del 1967). L’obbligo imposto al
pubblico ministero di esercitare l’azione penale “non vuole
escludere, come risulta anche dai lavori preparatori, che ad altri
soggetti possa essere conferito analogo potere”. L’azione penale,
dunque, può essere legittimamente attribuita anche a soggetti
diversi dal pubblico ministero, purché “con ciò non si venga a
vanificare l’obbligo del pubblico ministero medesimo di esercitarla”
(sent. n. 84 del 1979). Né la sentenza n. 177 del 1971 (che,
dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 515, quarto
comma, del codice di procedura penale, volle sottrarre il potere
d’impugnazione del pubblico ministero a un suo possibile esercizio
arbitrario) ha rimesso in discussione il rapporto tra l’azione penale
del pubblico ministero ed eventuali analoghi poteri attribuiti ad
altre figure soggettive, essendosi occupata soltanto del rapporto
intercorrente tra l’azione esercitata dal pubblico ministero e le sue
conseguenti decisioni da far valere in sede d’impugnazione.
A prescindere, comunque, dalla natura giuridica del potere
attribuito alla persona offesa dal reato di ingiuria o diffamazione
che – costituita parte civile – intenda impugnare la decisione presa
dal giudice del dibattimento; e a prescindere pure dalla circostanza
che si tratti d’una forma di azione penale sussidiaria o concorrente,
ovvero più semplicemente di un potere d’impugnazione estraneo al
concetto di azione penale in senso tecnico, resta il dato di una
denuncia d’incostituzionalità incentrata, almeno per questa parte,
su di un parametro chiaramente inadeguato.
Non vi è, infatti, chi contesti la possibilità, per il pubblico
ministero, di impugnare anch’egli gli esiti dibattimentali non
conformi alle sue requisitorie. Né sono rilevanti, in questa sede, i
problemi interpretativi sollevati nella memoria della parte
costituita che riguardano il coordinamento tra le determinazioni
della parte civile, per ipotesi, di segno opposto a quelle del
pubblico ministero. Ma tali questioni vanno lasciate all’attività
dell’interprete.
4. – L’art. 577 del codice di procedura penale fissa una scelta
pluralistica del legislatore soltanto per le impugnazioni successive
al dibattimento di primo grado. Questa scelta non consente di
proporre appello avverso le sentenze di non luogo a procedere
(esclusione non in contrasto con la Costituzione: si veda la sentenza
n. 381 del 1992) né di interferire nel promovimento dell’azione
penale più di quanto sia consentito a tutte le altre persone offese
dal reato.
Si tratta dunque di una scelta legislativa creatrice di una
ipotesi eccezionale che il giudice a quo chiede sia cancellata in
ossequio al principio di ragionevolezza, di cui questa Corte ha più
volte fatto applicazione.
La censura va respinta.
La scelta tendente a garantire la persona offesa da sempre più
frequenti inconvenienti, riscontrabili in processi che coinvolgono
direttamente il patrimonio morale della persona, non esorbita dai
limiti della ragionevolezza. I processi per ingiuria e diffamazione
hanno una loro singolarità che è nel sistema e nella realtà, come
appare evidente da una serie di casi in cui inopinatamente compaiono
in sentenza affermazioni che il dispositivo, letto in udienza, non
lasciava in alcun modo immaginare o presumere (singolarità che in
altri Paesi è risolta nel senso che dà luogo a una disciplina
completamente diversa e autonoma).
È vero, infatti, che il pubblico ministero rappresenta tutti gli
interessi offesi dal reato, ma li difende su un piano oggettivo e
generale che può, talvolta, astrarre dalla situazione soggettiva che
contraddistingue i reati inerenti alla delicatissima sfera dell’onore
e della reputazione. L’apprezzamento del soggetto passivo del reato
di ingiuria e diffamazione assume perciò un rilievo a cui non è
irragionevole precludere un’autonoma difesa, potendo in singoli casi
risultare inadeguata la tutela che spetta al pubblico ministero.
La persona offesa, attraverso l’impugnazione, può ottenere che i
fatti e le valutazioni riportati in sentenza siano meglio ponderati,
nuovamente verificati e controllati. E che tale verifica successiva
sia richiesta proprio quando è la vittima del reato di ingiuria e
diffamazione a subirne i pregiudizievoli effetti, è scelta non
arbitraria, stante la realtà di quegli inconvenienti.
Che poi tale soluzione legislativa sia stata ristretta ai soli
casi dei reati in esame e non pure allargata agli altri che sono
stati anche analiticamente menzionati dalla parte costituita è fatto
che, se accresce la tutela della persona offesa dai reati di ingiuria
e diffamazione, non diminuisce quella già storicamente accordata
alla persona offesa ed alla parte civile nel vecchio codice di
procedura penale, ed ora ulteriormente rafforzata con il nuovo.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 577 del codice di procedura penale, sollevata, in
riferimento agli articoli 3 e 112 della Costituzione, dalla Corte
d’appello di Milano con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 dicembre 1993.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: GUIZZI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA