Sentenza N. 478 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1993
Data deposito/pubblicazione
30/12/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
22/12/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,
prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI;
comma, del codice di procedura penale, promossi con n. 4 ordinanze
emesse il 15 aprile 1991 dal Giudice per le indagini preliminari
presso la Pretura di Parma nei procedimenti penali relativi alle
lesioni personali subite da Calzetti Nicola, Barbieri Bruno, Miodini
Simonetta e Fassa Doriano, rispettivamente iscritte ai nn. 545, 546,
547 e 548 del registro ordinanze 1992 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno
1992;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 3 novembre 1993 il Giudice
relatore Giuliano Vassalli;
le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Parma ha
sollevato, in riferimento all’art. 112 della Costituzione, questione
di legittimità costituzionale dell’art. 554, secondo comma, del
codice di procedura penale, nella parte in cui tale norma, ad avviso
del rimettente, non consente al giudice al quale sia stato richiesto
di pronunciare decreto di archiviazione per mancanza di querela, di
indicare al pubblico ministero le ulteriori indagini ritenute
necessarie in ordine a ipotesi di reato perseguibili d’ufficio che
possano desumersi dagli atti e che concorrano con l’altra fattispecie
presa in considerazione dal pubblico ministero nella richiesta di
archiviazione, ove gli stessi risultino “rilevanti ai fini della
corretta definizione del procedimento”.
Osserva in proposito il giudice rimettente che l’art. 554, secondo
comma, del codice di rito, quale risultante dalla sentenza
costituzionale n. 445 del 1990, parrebbe dar credito alla tesi
sostenuta dal pubblico ministero nei procedimenti a quibus, secondo
la quale al giudice investito da una richiesta di archiviazione per
una determinata ipotesi di reato sarebbe precluso qualsiasi potere di
dare impulso alla iniziativa per l’esercizio dell’azione penale in
ordine a reati diversi, ancorché perseguibili d’ufficio. Ciò, si
afferma, perché, da un lato, l’intervento della Corte si è esaurito
nel consentire il controllo, con le modalità indicate nella sentenza
stessa, esclusivamente sull’archiviazione richiesta per infondatezza
della notizia di reato, mentre, dall’altro, il caso
dell’archiviazione per difetto di una condizione di procedibilità si
riferisce evidentemente “solo al reato ipotizzato dal pubblico
ministero e non ad altri ipotizzabili e concorrenti dei quali non si
sia tenuto conto e rispetto ai quali nessuna indagine preliminare sia
stata svolta”.
Di conseguenza, se la sentenza n. 445 del 1990 non può essere
estesa a ricomprendere anche l’ipotesi di richiesta di archiviazione
per difetto di querela, risulterebbe eluso il controllo da parte del
giudice sull’esercizio dell’azione penale e vulnerato, dunque, il
principio sancito dall’art. 112 della Costituzione.
2. – Nel primo dei quattro giudizi è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
Generale dello Stato, concludendo “per l’inammissibilità o comunque
per l’infondatezza della questione”, con riserva di specifiche
deduzioni peraltro non formulate.
la medesima questione; i relativi giudizi, pertanto, vanno riuniti
per essere decisi con unica sentenza.
2. – Il giudice a quo solleva, in riferimento all’art. 112 della
Costituzione, questione di legittimità dell’art. 554, secondo comma,
del codice di procedura penale, nella parte in cui tale norma non
prevede che il giudice per le indagini preliminari presso la pretura
circondariale, investito da una richiesta di archiviazione per
mancanza di querela, possa indicare al pubblico ministero le
ulteriori indagini che ritenga necessarie “rispetto a fatti reato
perseguibili di ufficio, desumibili dagli atti, concorrenti con
l’altro preso in considerazione dalla pubblica accusa e rilevanti ai
fini della corretta definizione del procedimento”, fissando all’uopo
il termine indispensabile per il relativo espletamento. La premessa
interpretativa dalla quale muove il giudice rimettente riposa
essenzialmente sulla ritenuta fondatezza della tesi esposta dal
pubblico ministero nei procedimenti a quibus, secondo la quale al
giudice spetterebbe esclusivamente, in sede di archiviazione,
valutare la sussistenza o meno del reato ipotizzato “con mera
possibilità di cangiare la formula” enunciata nella richiesta,
mentre resterebbe escluso qualsiasi potere di dare impulso
all’attività di indagine finalizzata all’esercizio dell’azione
penale rispetto a reati diversi, anche se questi siano perseguibili
d’ufficio e risultino dagli atti, giacché in tale evenienza al
giudice sarebbe riservato un compito di “mera segnalazione” nel
quadro di un normale rapporto collaborativo tra gli uffici. Tesi,
quella esposta, che il giudice a quo fa propria in considerazione del
fatto che, da un lato, risulterebbe impossibile “estendere” al caso
in esame la sentenza di questa Corte n. 445 del 1990 e che,
dall’altro, ciascuna delle ipotesi di archiviazione enunciate dal
codice “fa evidentemente riferimento solo al reato ipotizzato dal
pubblico ministero” e non agli altri che eventualmente concorrano ed
in ordine ai quali lo stesso pubblico ministero abbia omesso di
svolgere qualsiasi attività di indagine.
3. – L’assunto del giudice a quo si fonda su di una premessa che
non può condividersi: quella di ritenere che la tipologia del
“controllo” che il giudice è chiamato ad esercitare in sede di
archiviazione e, quindi, la qualità e la quantità delle
attribuzioni che l’ordinamento riserva al suo intervento, siano
modellati in stretta aderenza alla specificità della richiesta che
il pubblico ministero gli rivolge, quasi che la stessa integri una
domanda a devoluzione rigorosamente circoscritta, che impedisce
qualsiasi sconfinamento da quel particolare “tema” sul quale l’organo
della giurisdizione viene ad essere investito e che il pubblico
ministero sarebbe dunque libero di contrassegnare. Ma una corretta
ricostruzione del sistema, quale si è venuto gradualmente a plasmare
nella giurisprudenza di questa Corte, svela, però, l’infondatezza di
un simile assunto. Al di là, infatti, di qualsiasi opzione dogmatica
sulla natura del provvedimento di archiviazione e del tentativo,
tutto teorico, che può essere compiuto per ricondurre ad uno schema
unitario la varietà dei rapporti tra pubblico ministero e giudice,
resta il fatto che, in tanto può correttamente analizzarsi la
specificità dei poteri che contraddistinguono l’intervento
dell’organo giurisdizionale, in quanto risulti chiara la funzione che
quell’intervento è chiamato a soddisfare nell’ordinamento. Ciò
posto, divengono allora ineludibili i dicta che promanano dalla
giurisprudenza di questa Corte in tema di archiviazione: si è così
affermato che il principio di legalità, “che rende doverosa la
repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna,
per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa,
in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di
tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge
penale), non può essere salvaguardata che attraverso
l’obbligatorietà dell’azione penale”. Il principio di
obbligatorietà dell’azione penale esige, quindi, “che nulla venga
sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice: ed in
esso è insito, perciò, quello che in dottrina viene definito favor
actionis. Ciò comporta non solo il rigetto del contrapposto
principio di opportunità che opera, in varia misura, nei sistemi ad
azione penale facoltativa, consentendo all’organo dell’accusa di non
agire anche in base a valutazioni estranee all’oggettiva infondatezza
della notitia criminis, ma comporta, altresì, che in casi dubbi
l’azione vada esercitata e non omessa”. Il problema
dell’archiviazione, dunque, “sta nell’evitare il processo superfluo
senza eludere il principio di obbligatorietà ed anzi controllando
caso per caso la legalità dell’inazione” (v. sentenza n. 88 del
1991).
Se tale è l’ampiezza del controllo che il giudice è chiamato ad
esercitare in sede di archiviazione, così da soddisfare
integralmente la funzione di legalità che l’istituto svolge nel
quadro dei richiamati principi di rango costituzionale, se ne possono
allora agevolmente ricavare due corollari, fra loro intimamente
connessi. Anzitutto, un siffatto potere di controllo non ammette
differenze “qualitative” a seconda dei casi di archiviazione che il
codice enumera, giacché, contrariamente a quanto mostra di ritenere
il rimettente, “è proprio la finalità che accomuna tutte le varie
ipotesi di archiviazione” a giustificare l’estensione della
disciplina prevista per l’ipotesi base (archiviazione per
infondatezza della notizia di reato) anche alle restanti ipotesi,
così da “far emergere una figura di giudice per le indagini
preliminari in grado di indicare al pubblico ministero gli
approfondimenti non ancora compiuti” (v. sentenza n. 409 del 1990),
senza restare quindi vincolato ad un diverso epilogo a seconda della
particolare “formula” che lo stesso pubblico ministero ha ritenuto di
enunciare nella richiesta. Sotto altro profilo, poi, dovendosi il
controllo del giudice volgere a verificare se, alla stregua del
materiale raccolto nel corso delle indagini, sia conforme a legalità
“l’inazione” del pubblico ministero, il sindacato non potrà che
riguardare la integralità dei risultati dell’indagine, restando
dunque esclusa qualsiasi possibilità di ritenere che un simile
apprezzamento debba invece circoscriversi all’interno dei soli
confini tracciati dalla notitia criminis delibata dal pubblico
ministero. Una volta formulata la richiesta di archiviazione, quindi,
il thema decidendum che investe il giudice non si modella in funzione
dell’ordinario dovere di pronunciarsi su di una specifica domanda, ma
del ben più ampio potere di apprezzare se, in concreto, le
risultanze dell’attività compiuta nel corso delle indagini
preliminari siano o meno esaurienti ai fini della legittimità della
“inazione” del pubblico ministero.
Ove si volesse pertanto invocare – come vorrebbe il giudice a quo
– un qualche effetto devolutivo a seguito della richiesta, ciò
sarebbe consentito solo nell’ipotesi in cui per oggetto di
devoluzione si intendesse non la richiesta in quanto tale, ma la
intera fase d’indagine che il pubblico ministero presuppone esaurita.
4. – Risulta a questo punto evidente la non fondatezza delle
censure che il giudice a quo solleva a margine della disposizione
oggetto di impugnativa. Qualora, infatti, accanto ad una notitia
criminis per la quale difetta una condizione di procedibilità, il
giudice ritenga di ravvisare in sede di archiviazione una diversa
fattispecie procedibile ex officio in ordine alla quale il pubblico
ministero abbia omesso di compiere le necessarie indagini, nulla si
oppone, alla luce dei riferiti rilievi, a che il giudice stesso – se
dagli atti non risulti che il pubblico ministero procede
separatamente – inviti il pubblico ministero medesimo a svolgere le
ulteriori indagini che ritenga necessarie sulla diversa
“regiudicanda”, fissando il termine indispensabile per il compimento
di esse. Ove così non fosse, d’altra parte, non sarebbe “l’inazione”
del pubblico ministero a formare oggetto del controllo di legalità
da parte del giudice, ma unicamente quella particolare ipotesi di non
esercizio dell’azione penale che la stessa parte pubblica affida alla
verifica del giudice, delegandosi per questa via all’arbitrio
dell’organo assoggettato al controllo il potere di ritagliare la
quantità e la qualità dell’intervento dell’organo che quel
controllo è istituzionalmente chiamato ad esercitare.
Ma che una simile prospettiva non possa essere in alcun modo
coltivata, lo si evince, con certezza, oltre che dalla ricostruzione
del sistema dianzi delineata, anche da un ulteriore e conclusivo
rilievo. Posto, infatti, che ove il giudice avesse ritenuto
sufficienti gli elementi raccolti in ordine alla diversa ipotesi di
reato, il relativo epilogo sarebbe stato quello di disporre la
formulazione della imputazione; è di tutta evidenza, allora, che al
medesimo giudice competa anche il potere di invitare il pubblico
ministero a svolgere ulteriori indagini nell’ipotesi in cui queste
siano risultate carenti ai fini delle scelte sull’esercizio o meno
della azione penale, proprio perché i due poteri (“ordine” di
formulare l’imputazione o invito a svolgere ulteriori indagini) si
saldano specularmente all’interno della medesima funzione di
controllo che il giudice svolge in sede di archiviazione: impedire,
appunto, l’elusione del precetto che impone al pubblico ministero di
esercitare l’azione penale, nei casi in cui il processo non appaia
superfluo.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 554, secondo comma, del codice di procedura penale,
sollevata, in riferimento all’art. 112 della Costituzione, dal
Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale
di Parma con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 dicembre 1993.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: VASSALLI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA