Sentenza N. 487 del 1989
Corte Costituzionale
Data generale
25/10/1989
Data deposito/pubblicazione
25/10/1989
Data dell'udienza in cui è stato assunto
23/10/1989
Presidente: dott. Francesco SAJA;
Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo
CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
Renato DELL’ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, prof. Luigi MENGONI,
avv. Mauro FERRI, prof. Enzo CHELI;
della legge regionale siciliana 15 maggio 1986, n. 26 (Norme
integrative della legge regionale 10 agosto 1985, n. 37, relativa a
“Nuove norme in materia di controllo dell’attività
urbanistico-edilizia, riordino edilizio e sanataria delle opere
abusive”) promosso con ordinanza emessa il 3 giugno 1988 dalla Corte
di Cassazione nel procedimento penale a carico di Lanzafame Placido,
iscritta al n. 808 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale,
dell’anno 1989;
Visto l’atto d’intervento della Regione Sicilia;
Udito nell’udienza pubblica dell’11 aprile 1989 il Giudice
relatore Renato Dell’Andro;
Udito l’avv. Francesco Tinaglia per la Regione Sicilia;
edilizi senza concessione la Corte di Cassazione, con ordinanza 3
giugno 1988, ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’art. 3, primo comma, della legge regionale siciliana 15 maggio
1986, n. 26 (Norme integrative della legge regionale 10 agosto 1985,
n. 37, relativa a “Nuove norme in materia di controllo dell’attività
urbanistico-edilizia, riordino edilizio e sanatoria delle opere
abusive”) in riferimento agli artt. 116, 117 e 3 Cost.
Il giudice a quo riferisce che, nella specie, l’imputato era stato
dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 17 lett. b) della
legge 28 gennaio 1977, n. 10 essendosi, tra l’altro, ritenuta
ininfluente, per mancata ultimazione delle opere alla data del 1°
ottobre 1983, la domanda di sanatoria presentata dall’imputato
stesso. Questi aveva proposto ricorso per cassazione deducendo la
violazione della legge regionale siciliana 15 maggio 1986, n. 26, la
quale, in sostituzione dell’art. 31 della legge 28 febbraio 1985, n.
47 (secondo cui, ai fini della sanatoria, devono intendersi ultimati
gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la
copertura) dispone invece che, ai medesimi fini, s’intendono ultimati
gli edifici nei quali sia stata eseguita la struttura portante sia
essa del tipo intelaiato, in cemento armato o con pannelli portanti
od in muratura e sia completata la copertura. Nella specie, infatti,
l’opera edilizia costruita dall’imputato non era compresa fra quelle
indicate nell’art. 31 della legge n. 47 del 1985 ma rientrava appunto
fra quelle menzionate dall’art. 3 legge regionale siciliana n. 26 del
1986.
Dopo aver escluso che la disposizione regionale possa essere
interpretata restrittivamente, delimitandone cioè la portata ai soli
aspetti amministrativi della sanatoria ed escludendone il riverbero
di carattere penale, il giudice a quo osserva che la disposizione
stessa – in quanto detta, in tema d’attività abusiva edilizia
costituente reato, norme del tutto particolari e diverse rispetto a
quelle stabilite dal legislatore nazionale nell’art. 31, secondo
comma, della legge n. 47 del 1985 – non appare conforme agli artt.
116, 117 e 3 Cost.
A parere dello stesso giudice, la potestà legislativa regionale
“non può prescindere dal principio di ordine costituzionale, sancito
specificamente nella materia urbanistica e valevole anche per le
Regioni a statuto speciale, del coordinamento normativo con la
legislazione dello Stato nella sua funzione regolatrice
dell’interesse unitario alla uniforme disciplina in tema di rapporti
fondamentali che si realizzano in posizioni giuridiche direttamente
facenti capo allo Stato”.
La disposizione impugnata, conclude il giudice a quo, appare
violare anche il principio d’uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in
quanto consente, limitatamente alle opere edilizie abusive realizzate
nel territorio siciliano, l’estinzione dei reati a condizioni più
favorevoli di quelle stabilite per la generalità dei cittadini.
2. – È intervenuto nel giudizio il Presidente della Regione
siciliana, rappresentato e difeso dall’avv. Francesco Tinaglia,
chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
L’interveniente osserva, innanzi tutto, che non è prospettabile
alcuna violazione dell’art. 116 Cost., in quanto tale norma
attribuisce un regime particolare d’autonomia alle Regioni a statuto
speciale. E nemmeno può ritenersi violato l’art. 117 Cost.,
trattandosi di norma che disciplina la potestà legislativa delle
Regioni di diritto comune e non quella delle Regioni a statuto
speciale. Del resto il limite dei principi fondamentali stabiliti
dalle leggi dello Stato non è applicabile alla legislazione
esclusiva della Regione siciliana, la quale, in materia urbanistica,
ha potestà legislativa esclusiva ai sensi dell’art. 14 del suo
Statuto speciale.
Quanto alla dedotta violazione del principio d’uguaglianza,
l’interveniente rileva che la disciplina legislativa nazionale non è
stata sempre costante in ordine alla nozione d’ultimazione dei
lavori. Infatti, ai sensi della legge 28 gennaio 1977, n. 10, essa
viene ad identificarsi con il completamento funzionale dell’opera; ai
sensi della giurisprudenza penale relativa alla cessazione della
permanenza del reato di costruzione abusiva, la predetta “ultimazione
dei lavori” s’identifica con il completamento dell’opera in ogni sua
parte, comprese le rifiniture esterne; ai sensi della giurisprudenza
amministrativa, relativa all’individuazione del momento finale di
validità della licenza edilizia, di cui all’art. 10, decimo comma,
della legge n. 765 del 1967, la stessa ultimazione coincide col
compimento delle strutture essenziali dell’edificio. La nozione
d’ultimazione dei lavori contenuta nell’art. 31 della legge n. 47 del
1985 deve ritenersi, a parere dell’interveniente, coincidere con
quest’ultima interpretazione, essendo lo scopo del legislatore quello
di rendere bene individuabile il volume dell’opera alla data di
riferimento per l’applicabilità del condono. Del resto, se il
legislatore nazionale avesse voluto dare al termine “rustico” il
significato restrittivo di opera completata ma priva d’intonaco e
rivestimento, non avrebbe poi richiesto anche il completamento della
copertura, che è già necessariamente parte del rustico inteso nel
senso suddetto.
Di conseguenza – conclude l’interveniente – deve ritenersi che il
legislatore regionale, resosi conto che la normativa statale si
prestava a difformi interpretazioni, abbia inteso adeguarsi
all’interpretazione più estensiva di detta normativa, comunque in
assonanza con lo scopo della norma statale.
La prima: i problemi relativi al potere normativo penale delle
Regioni sono di difficile soluzione in quanto fortemente condizionati
dall’attuale inflazione della normazione penale. Quest’ultima che,
come s’evince dalla Costituzione e come si sottolineerà oltre,
dovrebbe esser ridotta al minimo indispensabile al raggiungimento
(attraverso l’incriminazione di gravi modalità di lesione di beni
costituzionalmente significativi od almeno socialmente rilevanti)
delle elementari condizioni del vivere democratico, è divenuta
“ipertrofica”. Se gran parte della materia contravvenzionale fosse,
attraverso razionali, ben programmati interventi legislativi,
“trasposta” dal diritto penale al diritto amministrativo, i problemi
in discussione verrebbero in nuce risolti od almeno notevolmente
semplificati.
La seconda osservazione attiene al metodo qui adottato nell’esame
della sollevata questione di legittimità costituzionale: si farà
perno sull’interpretazione storico-politica, sistematica e funzionale
dell’art. 25, secondo comma, Cost. È questo comma che
costituzionalmente sancisce, in ordine alle fonti del diritto penale,
la c.d. riserva di legge; ed in questa sede si tratta, appunto, in
primo luogo, di stabilire l’ambito di comprensione di tal riserva:
se, cioè, essa vada circoscritta alle sole leggi penali statali
oppure sia riferibile (ed eventualmente in che limiti) anche alle
leggi regionali. La tradizione metodologica, in campo penalistico, è
decisamente orientata in tal senso: tutte le volte che si è trattato
di precisare l’ambito della riserva di legge penale (in ispecie, se
essa sia assoluta o relativa) si è fatto perno unicamente
sull’interpretazione logica e sistematica dell’art. 25, secondo
comma, Cost., sottolineandosi, in particolare, che l’attenzione alla
ratio di garanzia dalla quale muove la predetta riserva consente
d’assumere conclusioni appaganti in ordine alla comprensione del
dettato costituzionale in esame.
La terza osservazione è così formulabile: poiché il problema
attinente al potere normativo penale regionale è, ovviamente,
problema relativo all’esercizio di tal potere nelle materie c.d.
“esclusive” o “concorrenti”, il punto di partenza dell’indagine è
comunemente costituito dal “silenzio” della Costituzione (e degli
statuti “speciali”) in ordine al modo di disciplina penale, all’atto
dell’attribuzione alle Regioni della competenza per le predette
materie. Tal “silenzio”, com’è noto, mentre è stato assunto da
alcuni Autori come implicito riconoscimento alle Regioni anche del
potere normativo penale, insieme a tutti i rimanenti modi di
disciplina delle violazioni dei beni rientranti nelle materie di
competenza regionale, da altra parte della dottrina è stato
interpretato come “esclusione” del conferimento del potere normativo
penale alle Regioni, ben avendo il Costituente consapevolezza
dell’autonomia del ramo penale dell’ordinamento.
Senonché, mentre è senza dubbio vero che non è dato configurare
una preordinata materia penale, la disciplina di questa attenendo
spesso (o sempre) alla violazione dei più disparati beni “propri”
(tutelati in via primaria) da altri rami dell’ordinamento (e, da
questo aspetto, come è stato giustamente rilevato, non esistendo una
“preesistente” materia penale, la medesima non poteva, ovviamente,
esser conferita, dal Costituente o dagli statuti “speciali”, alle
Regioni) è altresì vero, come sarà precisato meglio oltre, che la
c.d. “materia penale”, che, certamente, non “preesiste” alle norme
penali, vien costituita proprio nel momento della nascita delle
stesse norme. È, infatti, il legislatore che, scegliendo tra i beni
(generalmente tutelati in via primaria da altri rami) quelli che
interessa allo Stato penalmente garantire, costituisce la c.d.
“materia penale” e cioè l’insieme dei beni e valori specificamente
tutelati (anche o soltanto) penalmente. Se così non fosse, il
diritto penale avrebbe natura esclusivamente sanzionatoria mentre è
ben noto che tal natura è stata validamente criticata dall’assoluta
maggioranza della dottrina sostenitrice dell’autonomia del diritto
penale.
Or se la Costituzione o gli statuti “speciali” avessero inteso
conferire al legislatore regionale anche il modo di disciplina penale
non avrebbero attribuito anche il potere di costituire la materia
penale senza neppur fare esplicitamente almeno un sia pur generico
riferimento al predetto modo di disciplina. Dalla Carta
costituzionale non risulta, in proposito, alcunché; né durante i
lavori della Costituente sono stati mai sollevati problemi attinenti
alla competenza penale delle Regioni. Ingenera, pertanto, già
all’inizio della ricerca, notevoli perplessità la considerazione che
la Costituzione, venendo per la prima volta a configurare lo Stato
regionale, attribuendo alle Regioni a statuto ordinario specifiche,
svariate materie (art. 117 Cost.) e, soprattutto, prevedendo “forme e
condizioni particolari d’autonomia, secondo statuti speciali adottati
con leggi costituzionali” per alcune Regioni (art. 116 Cost.) nulla,
proprio nulla, dichiari in ordine all’incriminabilità, da parte
delle Regioni, delle lesioni di beni la cui tutela rientra nella
competenza delle medesime; né, di regola, esplicitamente alcunché
dichiarano gli Statuti delle Regioni a regime “differenziato”.
La quarta ed ultima osservazione preliminare attiene alla
necessità di nettamente distinguere i temi, sollevati dall’ordinanza
di rimessione, in due settori: il primo, relativo al generale potere
normativo delle Regioni a prescindere dall’esercitato od esercitando
potere normativo penale dello Stato ed il secondo, che raggruppa i
temi che si pongono considerando le leggi regionali in relazione
all’emanata (od emananda) legge penale (incriminatrice o
scriminatrice) statale. La distinzione dei predetti settori è
metodologicamente necessaria perché i problemi attinenti a ciascun
settore sono nettamente diversi; e, sebbene quelli relativi al
secondo settore siano spesso condizionati, nella loro soluzione,
dalla conclusione in ordine al potere normativo penale delle Regioni,
il secondo settore non riguarda, in senso proprio, l’ampiezza del
principio della riserva di legge penale bensì le “possibilità”
conferite alle leggi regionali (anche ove fosse escluso un potere
normativo penale delle medesime) in relazione alle leggi statali
incriminatrici o decriminalizzanti.
2. – Nell’esame dei temi relativi al primo dei predetti settori
non può esser taciuto che dottrina e giurisprudenza che, in assoluta
maggioranza, limitano la riserva di legge penale alla sola legge
statale (in sede di vicende costitutive della punibilità) e che,
pertanto, escludono ogni legittimità (nella stessa sede) di leggi
penali regionali, appaiono a disagio allorché si tratta di scegliere
la disposizione costituzionale sulla quale fondare la pur comune
conclusione: spesso si fa, infatti, riferimento all’art. 25, secondo
comma, Cost., a volte all’art. 3, primo comma od all’art. 5 Cost.
(interpretati, peraltro, questi ultimi articoli come “ispiratori”
dell’intero sistema costituzionale); e non poche volte ci si richiama
all’art. 13, secondo comma od all’art. 120, secondo e terzo comma,
Cost. E, nell’occasione, si danno dei citati articoli interpretazioni
che sono esplicitamente collegate (quasi a “conforto” o “sostegno”)
ad altre, diverse disposizioni. Da tale incertezza è agevole
desumere che soltanto il sistema e la sua intrinseca teleologia
riescono a rendere sostenibili, a “giustificare”, le interpretazioni
che, in ordine ai temi qui in esame, dei citati articoli vengono
offerte.
Vero è che, come l’effettivo ambito di comprensione del
“generale” principio di legalità in sede penale non è, almeno di
regola, desunto, nella sua ampiezza, dalle sole, peraltro non
univoche, formule costituzionali che pur lo enunciano bensì, come è
ormai generalmente ammesso, dalla ratio profonda che le ispira, così
la reale comprensione, in ispecie, del principio di riserva di legge
penale va principalmente ricavata dal fondamento politico-ideologico,
sistematico e teleologico dello stesso principio piuttosto che dalle
dichiarazioni costituzionali, necessarie e solenni ma non sempre
tecnicamente precise, che lo enunciano; dichiarazioni i cui contenuti
e limiti vanno, appunto, ricavati, anche e soprattutto, dai precitati
fondamenti e, in particolare, dall’oggettiva, determinante funzione
che, nell’intero ramo penale dell’ordinamento statale, la riserva in
questione esplica.
3. – Il profilo storico-ideologico, dal quale va, anzitutto,
esaminata la riserva di legge penale, deve iniziare dal sottolineare
che tal riserva fu il portato d’una ben determinata concezione che,
partendo dall’illuminismo, tese a ribaltare il precedente sistema:
quest’ultimo trovava il fondamento dell’intervento penale, a tutela
dei beni più importanti per l’ordinato svolgimento della vita
sociale, nei contenuti religiosi, metafisici, “naturali”, idonei ad
offrire la “verità” del principio costitutivo dell’esperienza
giuridica in genere e penale in particolare. La riconduzione ad
unità delle sparse, frammentarie disposizioni giuridiche, la
certezza che soltanto attraverso il superamento delle varie, numerose
fonti, sostanziali e formali, dell’Antico Regime, si potesse
raggiungere, insieme, la massima garanzia della riacquistata libertà
individuale ed il massimo ordinato vivere sociale condussero a
ravvisare nella legge, nella legge dello Stato, quale unità organica
dell’intero popolo sovrano, il nuovo principio costitutivo, il nuovo
fondamento del diritto penale.
La predetta concezione ideologica della legge, concezione nata
anche dalla concentrazione d’ogni valore rappresentativo nelle
istituzioni facenti capo allo Stato e dall’eliminazione dei vari
corpi d’autonomia sociale a vantaggio dell’unico corpo politico
sovrano, non poteva, in sede penale, consentire altre fonti. D’altra
parte, il sistema penale delineato dalla Costituzione tende ancor
oggi, come meglio si chiarirà in seguito, a ridurre la quantità
delle norme penali, e, così, a concentrare queste ultime nella sola
tutela, necessaria (ultima ratio) di pochi beni, significativi od
almeno “importanti”, per l’ordinato vivere sociale.
Già in base alle precedenti considerazioni è fondato sostenere
che l’estensione alle leggi regionali del potere normativo penale
contrasti con il fondamento politico della riserva di cui all’art.
25, secondo comma, Cost., con la “sostanza” storico-ideologica di tal
fondamento, per la quale, inizialmente, fu scelta la legge quale
“forma istituzionale” del diritto penale. La letteratura
illuministica, infatti, più che affidare il monopolio della
competenza penale alla legge in quanto atto-fonte, lo attribuì
all’organo-Parlamento, anche se il medesimo venne considerato quale
produttore, attraverso determinate forme, dell’atto stesso. Se è
vero che è da quest’ultimo che derivano, attraverso la norma penale,
le vicende costitutive della punibilità, è anche vero che la legge
è il risultato d’un processo posto in essere dal
soggetto-Parlamento; ed è soprattutto a quest’ultimo che fu rivolta
l’attenzione delle teorie penal-illuministiche. Come la dottrina
penalistica successiva all’avvento della Costituzione, nel ricercare
la ratio della riserva di legge penale, ha tenuto a sottolineare, in
modo particolare, il procedimento di formazione della legge, aperto
al confronto tra maggioranza e minoranza, adeguato a tutelare i
diritti dell’opposizione nel sindacare le scelte di criminalizzazione
adottate dalla maggioranza, la dottrina penal-illuministica
individuò il fondamento del principio di riserva di legge penale nel
fatto che il soggetto-Parlamento, l’organo produttore della legge,
vede riunito, attraverso i suoi rappresentanti, tutto il popolo
sovrano: e questo non può legiferare “contro sé stesso”.
Va sottolineato che, anche a parte le vicende storiche che
inizialmente motivarono la scelta della riserva di legge penale,
ancor oggi la dottrina ricorda che il monopolio penale del
legislatore statale è fondato sul suo essere rappresentativo della
società tutta, “unita per contratto sociale”; ed è la società
tutta che attende che l’esercizio del potere legislativo penale,
direttamente od attraverso i suoi rappresentanti, non avvenga
arbitrariamente bensì “per il suo bene e nel suo interesse”.
4. – Nell’iniziare l’esame del secondo profilo dal quale va
considerata la riserva di legge penale ex art. 25, secondo comma,
Cost. è necessario sottolineare l’assetto che il diritto penale ha
assunto a seguito delle disposizioni costituzionali relative alla sua
disciplina. Allo scopo di precisare contenuto e limiti della
costituzionale riserva di legge penale occorre, infatti, volgere
l’attenzione alla natura degli interessi e valori garantiti dal ramo
penale dell’ordinamento.
Va subito chiarito che la statualità, a doppio titolo, del
diritto penale postula necessariamente il nascere statuale delle
incriminazioni penali. Si è precisato: “a doppio titolo”. Ed
infatti, statali sono i particolari interessi e valori tutelati dal
ramo penale e statale è il fine perseguito attraverso le
incriminazioni: la tutela di tutto l’ordinamento giuridico statale e,
così, della vita sociale in libertà, uguaglianza e reciproco
rispetto dei soggetti.
Dall’accettazione, da parte della Costituzione, di autonome,
particolari sanzioni, che si collocano in un determinato ramo
dell’ordinamento, si deduce l’esistenza di autonomi interessi, fatti
valere nello stesso ramo. Non può, invero, accogliersi l’opinione
che l’ordinamento giuridico appresti sanzioni diverse, e cioè
diverse tutele, per identici interessi: infatti, o le sanzioni hanno
i medesimi fini ed il moltiplicarsi dei mezzi di difesa appare
ingiustificato oppure esse son riferite ad interessi apparentemente
eguali ma presi in considerazione sotto diversi profili giuridici: ed
in quest’ultima ipotesi l’identità è soltanto apparente mentre in
realtà gli interessi che vengono tutelati sono diversi. La
Costituzione è, inoltre, ben consapevole della titolarità dei
predetti interessi: la dimostrazione è data dal confronto tra gli
artt. 24, primo comma e 112 Cost. Ed invero, mentre negli altri rami
il disporre della tutela giudiziaria attraverso l’azione appartiene,
di regola, al singolo soggetto, privato o pubblico, nel settore
penale il processo d’attuazione della sanzione è operato solo
attraverso l’intervento dello Stato. L’art. 24, primo comma, Cost.
accomuna, infatti, tutti i diritti e gli interessi legittimi, a
qualunque materia si riferiscano, consentendo ai singoli soggetti,
privati o pubblici, di poter agire in giudizio per la tutela dei
medesimi. Non così per le situazioni giuridiche subiettive
penalmente tutelate per le quali non solo non è data alcuna facoltà
d’agire in giudizio ma, attraverso l’art. 112 Cost., vien individuato
un particolare organo dello Stato che deve, obbligatoriamente,
esercitare l’azione penale. Dagli stessi artt. 24, primo comma e 112
Cost. s’evince, pertanto, che, anche per la Costituzione, viene
tutelato, in sede penale, il concreto interesse dello Stato
all’integrità di talune situazioni di vita, ad es. libertà, onore
ecc., dei singoli soggetti.
Il secondo titolo di “statualità” del ramo penale attiene ai fini
dello stesso ramo.
Va notato che la Costituzione disciplina essa stessa parte del
settore penale. Tale disciplina, mentre limita la discrezionalità
del legislatore, puntualmente chiarisce quali debbano essere i fini
del diritto penale.
La disposizione di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. svela
apertamente, indicando la teleologia delle pene, l’identità e le
finalità del diritto penale dalle quali la Carta fondamentale parte
nel dettare la normativa attinente alla sede penale. L’art. 27, terzo
comma, Cost., riguarda, infatti, le sanzioni propriamente penali: e
queste, nell’essere particolarmente caratterizzate, sono
implicitamente distinte da tutte le altre sanzioni. Le sanzioni
penali, a differenza di quelle extrapenali, sono dalla Costituzione
caratterizzate dalla tendenza ad incidere sull’animo, sulla vita del
condannato, tutelando, mediante un singolare tipo di prevenzione
speciale (la rieducazione) non soltanto questo o quel bene
specificamente offeso dal reato ma anche tutti i beni garantiti
dall’ordinamento e, cioè, l’intero ordinamento statale in quanto
tendente a realizzare una vita in comune democraticamente orientata.
Or se le pene, a loro volta, com’è di comune cognizione,
caratterizzano il ramo penale dell’ordinamento, nel senso che del
medesimo svelano l’identità, deve concludersi che non solo la
Costituzione ben “conosce” il ramo penale ma che nettamente lo
“distingue” dagli altri rami, sottolineando del medesimo esigenze e
fini, che attengono alla comunità tutta, alla tutela dell’intero
ordinamento statale.
Ricordato che alla “rigida” statualità del diritto penale va,
oggi, da alcuni Autori contrapponendosi, in ordinamenti diversi dal
nostro, l’idea d’una sanzione punitiva privata, soprattutto
attraverso lo strumento risarcitorio, deve, tuttavia, osservarsi che,
pur prescindendo dai notevoli problemi sociali che un ritorno
all’avvicinamento tra diritto penale e rami extrapenali
dell’ordinamento porrebbe e dall’eventuale ribaltamento dell’intero
ordinamento giuridico, che considera attualmente il ramo penale come
l’ultimo, conclusivo momento dell’esperienza statuale e, così,
dell’intera esperienza giuridica, l’idea d’una (almeno relativa)
privatizzazione del diritto penale non trova significativi consensi
neppure negli ordinamenti in cui i problemi relativi a tale idea son
posti e discussi.
Se, dunque, l’attuale lettura della Costituzione induce a
confermare la statualità del ramo penale dell’ordinamento, è da
ritenersi costituzionalmente inestensibile alle Regioni la potestà
normativa penale.
5. – Il terzo profilo, forse il più rilevante, dal quale va
esaminata la riserva di legge penale ex art. 25, secondo comma, Cost.
è quello della sua funzionalità.
Il principio per il quale unica fonte del diritto penale è la
legge va chiarito non tanto nella sua generale ratio di garanzia
quanto, e particolarmente, nell’oggetto della medesima.
Per vero, è stato già adeguatamente posto in luce che ratio
della riserva di legge penale è la tutela della libertà e dei beni
fondamentali dei singoli soggetti, anche se è stato sottolineato
soprattutto l’aspetto negativo della riserva stessa, e cioè
l’esclusione di possibili arbi’tri da parte di altri poteri dello
Stato.
Senonché, le sottolineature della dottrina, relative ai temi
attinenti alla natura (assoluta o relativa) della riserva, ossia
attinenti alle relazioni tra legge dello Stato ed atti statali
subordinati, nella gerarchia delle fonti, alla stessa legge, non sono
sufficienti a risolvere il diverso tema delle relazioni, in sede di
riserva di legge penale, tra legge dello Stato e legge regionale,
tenuto soprattutto conto che l’art. 25, secondo comma, Cost., fa
riferimento, genericamente, alla “legge” e che dottrina e
giurisprudenza hanno posto in luce che la legge regionale non può
esser ritenuto atto subordinato a quella statale.
Soltanto l’ulteriore chiarimento in ordine, soprattutto,
all’aspetto sostanziale, positivo della riserva di legge penale può
offrire sufficienti spunti per convenientemente risolvere il tema che
in questa sede occupa la Corte. Precisando, infatti, che la
Costituzione, nel riservare al legislatore le scelte
criminalizzatrici, impone criteri sostanziali di scelta e fissa
precise direttive di politica criminale, è agevole ritenere la sede
dei consigli regionali non idonea a valersi di tali criteri ed a
realizzare le predette direttive.
Il punto di partenza è, pertanto, costituito dal significato
positivo del principio di riserva di legge penale: se, infatti,
quest’ultimo, nella Costituzione, non fosse mezzo per adeguate, ben
definite e, pertanto, limitate scelte criminalizzatrici, non sarebbe
in grado di costituire strumento d’effettiva ed efficiente garanzia.
A ben riflettere, anche la capacità ad excludendum della riserva di
legge penale, il suo significato “negativo” (evitare gli abusi da
parte di “altri” organi dello Stato) suppone ed implica giusti,
limitati usi, soltanto rispetto ai quali è dato ipotizzare abusi.
Né va dimenticato che l’ideologia illuministica in tanto esaltò
la legge statale in quanto quest’ultima, attraverso l’intervento
dell’organo rappresentativo di tutta la società “unita per contratto
sociale”, era in grado di positivizzare i principi razionali ed
immutabili di “giustizia”: sin dal periodo illuministico, dunque, si
pose, anche se fu inizialmente risolto in maniera utopistica, il
problema della “giustizia” della legge.
La Costituzione ha, certamente, “superato” l’eccessiva,
illuministica fiducia nella legge; tal superamento è testimoniato,
fra l’altro, in previsione di eventuali abusi del legislatore, dai
controlli costituzionali sulle leggi. Ma è proprio la Costituzione a
“credere” ancora nella legge statale: e ciò perché ritiene che
soltanto attraverso quest’ultima possano avverarsi “giuste”,
opportune, limitate scelte criminalizzatrici.
La Carta fondamentale accoglie e sottolinea il principio
illuministico per il quale il “di più” di libertà soppressa
costituisce abuso. Tutto sta, oggi, a precisare questo “di più” in
relazione alle misure limitative della libertà strettamente
necessarie ad assicurare libertà, uguaglianza e reciproco rispetto
tra i soggetti. Si tratta, cioè, nelle scelte criminalizzatrici, di
limitare la libertà solo per quel tanto strettamente necessario a
garantirla.
Il diritto penale è sistema che, nell’atto in cui autorizza la
difesa sociale attraverso le sanzioni più gravi per la libertà e
dignità umana, limita la difesa stessa attraverso precise, puntuali
determinazioni di scopi, modalità e contenuti di fattispecie. Il
diritto penale è, particolarmente (e la Costituzione lo svela
all’evidenza) sistema di limiti sostanziali al legislatore; ed è
mirato, soprattutto, al rispetto di questi ultimi il monopolio
statale nella produzione della legge penale, la riserva di legge
penale.
La criminalizzazione comporta, anzitutto, una scelta tra tutti i
beni e valori emergenti nell’intera società: e tale scelta non può
esser realizzata dai consigli regionali (ciascuno per proprio conto)
per la mancanza d’una visione generale dei bisogni ed esigenze
dell’intera società.
L’altro, ancor più importante, limite sostanziale garantito dal
principio di riserva di legge penale è il fine della scelta innanzi
indicata. Tale scelta va, appunto, operata in funzione d’un fine da
raggiungere ed è strettamente limitata dallo stesso fine.
Si suol ripetere che il diritto penale tutela interessi, beni e
valori giuridici; tale tutela, frutto, conseguenza della preindicata
scelta tra beni e valori emergenti, meritevoli di garanzia penale, è
affidata alla discrezionalità vincolata del legislatore. La predetta
“scelta” va fatta in funzione d’un unico scopo: l’assicurazione delle
condizioni “minime” del vivere democratico e cioè delle condizioni
di libertà, uguaglianza e rispetto reciproco tra i soggetti. Anche i
beni giuridici, anche i valori costituzionalmente significativi,
divengono, pertanto, mezzi di volta in volta scelti (o “sacrificati”
rispetto ad altri valori) per l’assicurazione, in una data
concretezza storica, delle predette condizioni democratiche del
vivere civile. Sono queste a costituire il vincolo finalistico della
c.d. discrezionalità del legislatore, a garanzia di tutti i
cittadini.
Vanno, inoltre, particolarmente ricordati, a proposito di limiti
sostanziali del legislatore nelle scelte criminalizzatrici, i
principi di sussidiarietà, proporzionalità e frammentarietà
dell’intervento penale, costituenti, quanto meno, direttive di
politica criminale. Anche tali principi implicano il possesso d’una
visione generale dei beni e valori presenti nell’intera Comunità
statale e limitano ulteriormente, nell’atto in cui le fondano, le
scelte criminalizzatrici: la realizzazione di tali principi, che
costituiscono garanzia dell’intera comunità, rende impossibile
affidare alla legge regionale la più importante e difficile tra le
funzioni statali.
Il principio di sussidiarietà, per il quale la criminalizzazione,
costituendo l’ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da
parte degli altri rami dell’ordinamento, non venga offerta adeguata
tutela ai beni da garantire, implica, fra l’altro, programmi di
politica generale, e criminale in ispecie, nonché giudizi
prognostici che soltanto lo Stato può formulare.
Il principio di proporzionalità, inteso non soltanto quale
proporzione tra gravità del fatto e sanzione penale bensì, anche e
soprattutto, quale “criterio generale” di congruenza degli strumenti
normativi rispetto alle finalità da perseguire, conferma che
soltanto lo Stato è in grado, avendo piena consapevolezza di tutti
gli strumenti idonei a compiutamente realizzare la direttiva in
esame, d’effettivamente garantire, sotto questo aspetto, la
comunità.
Ed infine, anche il principio di frammentarietà, inteso come
intervento penale “puntiforme”, che attua la garanzia “liberale”
determinata dai necessari “vuoti di tutela”, è adeguatamente
rispettabile dall’organo statale di produzione legislativa:
quest’ultimo, che appunto possiede la più generale visione di beni e
valori presenti nella società, è particolarmente idoneo a
confermare, con la determinatezza della legge penale, la concezione
della libertà quale regola e dell’illecito penale quale eccezione.
Né va dimenticato che ulteriori limiti sostanziali vengono
costituzionalmente imposti al legislatore, quale, fra i tanti,
quello, fondamentale, della finalità rieducativa della pena ( ex
art. 27, terzo comma, Cost.): anch’esso fonda e nello stesso tempo
limita l’intervento penale.
Obiettivi come quelli sopra individuati non sono razionalmente
realizzabili dalle Regioni: queste sarebbero in grado di proporre
programmi di politica legislativa criminale ma in funzione di scopi
particolari alle diverse Regioni e, comunque, ciascuna per proprio
conto. E, basterebbe ciò a far ritenere non realizzabili dagli
organi locali in discussione quei fini generali ed i relativi limiti
costituzionalmente precisati che costituiscono l’oggetto della
riserva di legge penale ex art. 25, secondo comma, Cost.
Né le Regioni possono ritenersi costituzionalmente legittimate a
raggiungere accordi su “programmi” di politica criminale validi per
tutta la Comunità statale: ove tali accordi fossero raggiunti,
sarebbero violate le ragioni per le quali il Costituente ha
riconosciuto l’ente regionale come realtà politica, oltre che
giuridica, distinta ed autonoma rispetto allo Stato.
6. – Da quanto innanzi osservato discende che, ove l’art. 3, primo
comma, della legge siciliana n. 26 del 1986, senza riferimento ad
alcuna “altra” legge statale, avesse sottratto all’incriminazione
determinate ipotesi di edifici che, alla data del 1° ottobre 1983,
non avessero raggiunto i requisiti di cui al secondo comma dell’art.
31 della legge n. 47 del 1985, non sorgerebbe alcun dubbio
sull’illegittimità costituzionale dell’impugnata disposizione
dell’ora citata legge siciliana. Ed infatti: avendo il legislatore
statale il monopolio delle vicende costitutive della punibilità ed
avendo già, in concreto, esercitato la sua potestà incriminatrice,
non è legittimo che una legge regionale abroghi norme statali
incriminatrici.
Né è valido il ricorso, nell’ipotesi in discussione, ad una
(ipotetica) funzione “scriminante” (in senso stretto) che la legge
regionale siciliana avrebbe avuto. Va, invero, ricordato che, anche
ammettendo che le leggi regionali possano assurgere a fonte di
“diritti scriminanti”, non si ravvisano, attraverso il primo comma
dell’art. 3 della legge siciliana n. 26 del 1986, ragionevoli
motivazioni per concedere, da parte della Regione Sicilia, un
qualsiasi diritto scriminante. In ogni caso, l’impugnata disposizione
della più volte citata legge siciliana non ha funzione scriminante
in senso stretto, applicando essa alle ipotesi di cui al primo comma
dell’art. 3 della stessa legge una causa d’estinzione del reato,
quella, appunto, concessa dalla legge n. 47 del 1985.
Senonché, la Regione Sicilia assume, a proposito della
disposizione impugnata, che non di abrogazione di legge statale
incriminatrice si tratti sibbene d’interpretazione estensiva del
secondo comma dell’art. 31 della legge n. 47 del 1985: il primo comma
dell’art. 3 della legge siciliana in discorso si limiterebbe, cioè,
ad integrare e precisare il concetto di “ultimazione dei lavori”
dall’ora citata legge statale determinato.
La difesa della Regione Sicilia solleva, così, il problema degli
spazi interpretativi (nei confronti d’una già emanata legge statale
incriminatrice) costituzionalmente concessi alle leggi regionali.
A parte ogni altra considerazione, qui è sufficiente ricordare
che alle leggi regionali non è precluso concorrere a precisare,
secundum legem, presupposti d’applicazione di norme penali statali
(cfr., fra le altre, le sentenze di questa Corte n. 210 del 1972 e n.
142 del 1969) né concorrere ad attuare le stesse norme e cioè non
è precluso realizzare funzioni analoghe a quelle che sono in grado
di svolgere fonti secondarie statali. Tutte le volte in cui non sia
in gioco la riserva di legge penale statale (nelle ipotesi, cioè, in
cui ad es. la legge statale abbia già autonomamente operato le
scelte fondamentali sopra ricordate) disposizioni attuative di leggi
statali ben possono esser emanate da altre fonti ed in particolare
dalle leggi regionali.
Va, poi, ricordato che dottrina e giurisprudenza ritengono che
ampio spazio in materia penale sia consentito alle Regioni allorché
dalle leggi statali si subordinino effetti incriminatori o
decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali:
in tal caso, nel determinare i presupposti dai quali sono
condizionati gli effetti penali (e, conseguentemente, nel modificare
i presupposti stessi) le leggi regionali indirettamente, e per
determinazione delle stesse leggi statali, incidono su fattispecie
penali previste da leggi statali.
E va aggiunto che la tutela penale dei beni rientranti nelle
materie regionali, “esclusive” o “concorrenti”, può ben esser
autonomamente fornita, attraverso l’incriminazione di violazioni agli
stessi beni, dalla legge penale statale. La dottrina, fra l’altro,
comunemente ammette che si diano casi di colpa per inosservanza di
leggi regionali cautelari (sempre che si ritenga rispettato l’art.
25, secondo comma, Cost.) e che, in alcune ipotesi di delitti contro
la pubblica amministrazione, le leggi regionali possano concorrere a
definire elementi costitutivi (es. “dovere”, “atto d’ufficio” ecc.)
delle fattispecie tipiche incriminate.
Non essendo consentito, in questa sede, soffermarsi analiticamente
sugli spunti offerti, in proposito, dalla dottrina, deve la Corte
limitarsi a ricordare che il legislatore ha già iniziato a prevedere
alcune, particolari ipotesi di concorso di norme penali statali ed
amministrative regionali (cfr., a parte ogni valutazione, l’art. 9,
secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689).
7. – Vero è che l’art. 3, primo comma, della legge siciliana n.
26 del 1986 non si è valso di alcuno dei procedimenti legittimamente
attuativi dell’art. 31, secondo comma, della legge n. 47 del 1985.
Non è, infatti, condivisibile l’assunto della difesa della
Regione Sicilia secondo il quale il primo comma dell’articolo
impugnato interpreti estensivamente l’art. 31, secondo comma, della
legge statale da ultimo citata. L’esecuzione del rustico dei nuovi
edifici ed il completamento funzionale delle opere interne di edifici
già esistenti o non destinati a residenza concretano situazioni
tassativamente precisate dall’art. 31 della legge statale, che
nettamente divergono dall’ipotesi (esecuzione della sola struttura
portante degli edifici) di cui all’art. 3, primo comma, della legge
regionale in esame. E non è, certo, fondatamente sostenibile che
quest’ultima ipotesi rientri in uno dei significati traibili dalla
lettera del secondo comma dell’art. 31 della citata legge statale.
Né può ritenersi che l’art. 3 della legge siciliana “specifichi”
l’art. 31 della legge statale: non basta, infatti, la copertura degli
edifici ad unificare le situazioni previste dalle due leggi. La
specificazione non può attenere a caratteristiche (esecuzione della
sola struttura portante) che, per sé, esclude il (preteso) “genere”
(esecuzione del rustico o completo funzionamento delle opere interne
per gli edifici già esistenti o non destinati a residenza): la
realizzazione della sola struttura portante dell’edificio esclude che
sia stato realizzato anche il rustico.
L’art. 3, primo comma, della legge siciliana n. 26 del 1986
effettivamente applica la causa d’estinzione del reato prevista dalla
legge statale n. 47 del 1985 ad ipotesi non considerate da
quest’ultima legge.
Senonché, le situazioni per le quali è dalla legge statale
prevista una causa d’estinzione del reato non possono essere, neppure
dalle leggi regionali, analogicamente “estese”. Si oppone, infatti,
all’interpretazione analogica delle cause d’estinzione del reato la
seconda parte dell’art. 14 delle disposizioni preliminari sulla legge
in generale. Anzitutto, le cause d’estinzione, almeno di regola, non
sono riconducibili a principi generali, tali da consentire
l’applicazione dell’analogia iuris. Ma anche la ratio delle stesse
cause è, generalmente, di mera opportunità: non attiene, infatti,
di regola, all’interesse specifico (c.d. “interno”) leso dal fatto
costituente reato. A tale ratio (che tutela il c.d. interesse
“esterno” al reato) non sono, pertanto, riconducibili ipotesi non
previste dalle leggi concessive del beneficio.
E valga il vero: le situazioni di cui all’art. 3 della legge
regionale siciliana n. 26 del 1986 risultano incriminate da leggi
statali; la legge n. 47 del 1985, nel prevedere l'”estinzione del
reato” per le ipotesi ivi previste, realizza un’eccezione ad altre
leggi, quelle, appunto, incriminatrici: ma, ai sensi della seconda
parte dell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, le
leggi “…che fanno eccezione… ad altre leggi non si applicano
oltre i casi ed i tempi in esse considerati”. La Regione Sicilia non
è, dunque, legittimata a ritenere applicabile l’estinzione del reato
di cui alla legge statale n. 47 del 1985 anche ad ipotesi non
previste dall’art. 31 della stessa legge.
La legge regionale impugnata ha, in conseguenza, anche violato
l’art. 3, primo comma, Cost.
Che, d’altra parte, le situazioni di cui all’art. 3 della legge
siciliana n. 26 del 1986 non solo non siano riconducibili alle
motivazioni d’opportunità che ispirano la previsione della causa
d’estinzione da parte della legge statale n. 47 del 1985 ma risultino
nettamente contrastanti con dette motivazioni, è dimostrato (anche)
dalla lettera dell’art. 3, primo comma, della legge siciliana in
discussione e dai lavori preparatori relativi a quest’ultimo
articolo.
Dalla lettera dell’impugnato art. 3 risulta, infatti, che “Il
secondo comma dell’art. 31 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 è…s
ostituito”… dall’art. 3 della legge regionale n. 26 del 1986: la
norma regionale impugnata ha in tal modo, sostituendosi, appunto, al
legislatore statale, arbitrariamente resa applicabile l’estinzione
del reato prevista dalla stessa legge statale ad ipotesi che, essendo
escluse dal secondo comma dell’art. 31 della stessa legge, non
potevano legittimamente esser “decriminalizzate” con legge regionale.
Dai lavori preparatori relativi al contestato primo comma
dell’art. 3 della citata legge regionale non emergono, peraltro,
elementi atti a trarre diverse conclusioni.
Poiché la previsione di cause d’estinzione del reato è riservata
alla legge statale, in quanto a quest’ultima spetta la potestà
incriminatrice; poiché alla stessa legge compete, conseguentemente,
individuare le situazioni alle quali si applicano le citate cause; e
poiché, pertanto, l’ambito delle predette situazioni, individuato in
una legge statale, non può esser illegittimamente esteso o ristretto
ad opera di leggi regionali (neppure di quelle che dispongono in
materie c.d. “esclusive”) deve dichiararsi costituzionalmente
illegittimo il primo comma dell’art. 3 della legge regionale
siciliana n. 26 del 1986.
Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 deve
dichiararsi illegittimo anche il secondo comma dell’art. 3 della
legge regionale n. 26 del 1986.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma,
della legge regionale siciliana 15 maggio 1986, n. 26 (Norme
integrative della legge regionale 10 agosto 1985, n. 37, relative a
“Nuove norme in materia di controllo dell’attività
urbanistico-edilizia, riordino edilizio e sanatoria delle opere
abusive”);
Dichiara d’ufficio, in applicazione dell’art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 3,
secondo comma, della stessa legge regionale siciliana 15 maggio 1986,
n. 26.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 ottobre 1989.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: DELL’ANDRO
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 25 ottobre 1989.
Il direttore della cancelleria: MINELLI