Sentenza N. 490 del 1989
Corte Costituzionale
Data generale
07/11/1989
Data deposito/pubblicazione
07/11/1989
Data dell'udienza in cui è stato assunto
25/10/1989
Presidente: prof. Giovanni CONSO;
Giudici: prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe
BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL’ANDRO, prof.
Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo
CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv.
Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
terzo, del codice penale militare di pace, promossi con le seguenti
ordinanze:
1) ordinanza emessa il 10 gennaio 1989 dal Tribunale militare di
Padova nel procedimento penale a carico di Solla Giovanni, iscritta
al n. 234 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno
1989;
2) ordinanza emessa il 31 gennaio 1989 dal Tribunale militare di
Verona nel procedimento penale a carico di Fiore Franco, iscritta al
n. 235 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno
1989;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella Camera di consiglio del 4 ottobre 1989 il Giudice
relatore Ettore Gallo;
1989, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art.
230, comma terzo, codice penale militare di pace con riferimento agli
artt. 3 e 27 Costituzione.
Riferiva l’ordinanza che innanzi al predetto Tribunale pendeva
procedimento nei confronti di un carabiniere, imputato di furto
militare, aggravato anche ai sensi dell’art. 47 n. 2, per essersi
impossessato, al fine di trarne profitto, di una paletta segnaletica
sottraendola all’Amministrazione militare che la deteneva.
L’aggravante dell’art. 47 n. 2 era in dipendenza dalla qualità di
carabiniere che, corrispondendo, com’è noto, al caporale
dell’Esercito, è graduato di truppa. Ne deriva che, in caso di
condanna, gli va applicata, oltre alla pena principale, anche quella
accessoria della rimozione, che lo fa discendere alla condizione di
semplice soldato o militare di ultima classe: il che significa la
perdita automatica della qualità di carabiniere e la conseguente
dimessione dall’Arma.
Ritiene, tuttavia, il Tribunale rimettente che il fatto rivesta
caratteri di lievissima entità, anche perché assistito da
motivazioni che metterebbero in luce l’attaccamento all’Arma del
militare. In tali condizioni, l’automatica applicazione di così
grave pena accessoria, che priva l’imputato anche del lavoro, appare
al Tribunale sproporzionata sia al fatto che alla personalità del
colpevole, per cui ritiene di riproporre la detta questione di
compatibilità del denunziato automatismo con i parametri
costituzionali richiamati.
Per verità, il giudice rimettente non ignora che la questione è
stata da questa Corte ripetutamente dichiarata inammissibile: e non
tanto perché non fosse auspicabile di consentire quanto più
possibile al giudice di valutare tutte le circostanze e la stessa
entità del fatto, in modo da adeguare proporzionalmente le
conseguenze sanzionatorie in aderenza ai principi costituzionali, ma
perché la modificazione del sistema vigente postula previsioni
diversificate e alternative, e disposizioni articolate, che competono
esclusivamente al potere discrezionale del legislatore.
Secondo il Tribunale, però, la giurisprudenza di questa Corte
avrebbe avuto una successiva evoluzione, culminata nella sentenza n.
971 del 1988 che ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art.
85/ a del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (Statuto degli impiegati civili
dello Stato) che prevedeva analogo provvedimento automatico
(destituzione di diritto) per l’impiegato civile, irrevocabilmente
condannato per uno dei reati elencati nella citata norma (fra cui il
furto). In tale asserita analoga ipotesi, la Corte ha sentenziato che
l’impiegato doveva essere sottoposto a procedimento disciplinare e
non all’automatica destituzione, proprio per consentire alla
Commissione disciplinare di adeguare anche la sanzione accessoria
all’entità del fatto e delle sue circostanze: e ciò dopo che, anche
in quel settore, si erano verificate alcune decisioni di
inammissibilità, motivate nello stesso senso di quelle sopra
accennate, concernenti le analoghe questioni precedentemente
sollevate dai Tribunali militari.
2. – Identica questione, riferita però esclusivamente all’art. 3
della Costituzione, veniva sollevata, con le stesse argomentazioni,
dal Tribunale militare di Verona. Riferiva questo, infatti, con
ordinanza 31 gennaio 1989, di trovarsi nella stessa situazione di
disagio in relazione al giudizio in corso nei confronti di un
sottufficiale effettivo dell’Esercito (Sergente maggiore) che, dopo
essersi impossessato di lire quarantacinquemila, sottraendole ad
altro militare, le aveva immediatamente restituite subito dopo la
sottrazione.
Rilevava il Tribunale rimettente che, intendendo concedere al
sottufficiale due attenuanti comuni (art. 62 nn. 4 e 6 codice
penale), largamente prevalenti sull’aggravante (e perciò una pena
lievissima), sarebbe stato ciononostante costretto ad applicare la
pena accessoria della rimozione, con la conseguente perdita del grado
e del lavoro da parte del sottufficiale.
Conseguenza considerata aberrante dal giudice a quo perché
avrebbe determinato irragionevole dissoluzione del rapporto di
adeguatezza fra la sanzione irroganda e l’entità del fatto.
3. – Interveniva, in ambo i giudizi davanti alla Corte, il
Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall’Avvocatura
Generale dello Stato, la quale chiedeva dichiararsi infondate le
questioni sollevate dai due Tribunali militari.
Secondo l’Avvocatura, il principio ravvisato nella sentenza n. 971
del 1988 di questa Corte non sarebbe applicabile all’ordinamento
militare, trattandosi di aree completamente diverse nei loro assetti
e nelle rispettive esigenze. D’altra parte, la sanzione accessoria
non sarebbe una pena in senso proprio, in guisa che la sua realtà
ontologica assolutamente diversa non postulerebbe le stesse garenzie
della pena.
Al dibattimento, l’Avvocatura si rimetteva alle già prese
conclusioni.
identiche argomentazioni e con riferimento almeno ad un parametro
comune (art. 3 Costituzione). I procedimenti possono, pertanto,
essere riuniti per essere definiti con unica sentenza.
2. – Il problema riguarda l’automaticità della pena accessoria,
della “rimozione”, prevista in via generale, in relazione ad una
certa gravità della pena principale inflitta, nell’art. 29, codice
penale militare di pace, e specificamente poi comminata,
indipendentemente dall’entità della pena irrogata, a seguito di
condanna per determinati reati, e non soltanto militari (cfr. art. 33
n. 2 e 3 codice penale militare di pace): fra questi è anche il
furto militare (art. 230 codice penale militare di pace) di cui alla
fattispecie dei due casi in esame, come del resto il furto comune,
anche semplice (art. 33 n. 2 codice penale militare di pace).
Secondo i Giudici a quibus, un siffatto automatismo viola
innanzitutto l’art. 3 della Costituzione perché determina un
trattamento gravemente differenziato a danno dei militari rispetto
agli impiegati civili dello Stato, per i quali, in situazioni
analoghe, la Corte ha eliminato la “destituzione di diritto” con
sentenza 12 ottobre 1988 n. 971.
Ma secondo il Tribunale di Padova – esso automatismo contrasta
altresì con l’art. 27, primo e terzo comma, della Costituzione
perche impedisce al giudice di avvalersi del suo potere discrezionale
per adeguare il trattamento sanzionatorio alla concreta gravità
dell’illecito: e ciò tanto al fine di adempiere al principio di
proporzionalità quanto allo scopo di favorire la rieducazione del
condannato.
L’Avvocatura, però, contrasta siffatti assunti, affermando che lo
specifico dell’ordinamento militare, ispirato ad esigenze e ad
assetti diversi da quello civile, non consentirebbe l’estensione del
principio affermato nella citata sentenza di questa Corte per
gl’impiegati civili dello Stato. Peraltro, poi, la sanzione
accessoria, non essendo pena in senso proprio, avrebbe realtà
ontologica così diversa dalla pena principale da non postulare le
stesse garenzie.
3. – Proprio quest’ultima opinione non può essere accolta, in
quanto, se fosse esatta, il problema sollevato nemmeno si porrebbe.
In realtà la pena accessoria, anche a prescindere dalla
denominazione normativa, è vera e propria pena criminale, anche se a
carattere interdittivo, (almeno limitatamente alle specie che
incidono sulla libertà del cittadino) e come tale considerata dai
Lavori preparatori (cfr. Relazione ministeriale progetto codice
penale, Lavori preparatori, V, 1, p.64); non esiste, pertanto, altro
criterio di distinzione dalla pena principale se non appunto la sua
astratta “complementarità”. “Astratta” perché, in effetti,
esistono invece rilevanti situazioni nelle quali la pena accessoria
è virtualmente la sola ed unica residua risposta sanzionatoria al
reato, dato che viene a scindersi l’apparente indissolubilità con la
pena principale. Si allude all’ipotesi della sospensione
condizionale, che incide sulla pena principale rendendola
ineseguibile, ma non sulla pena accessoria (art. 166 codice penale),
nonché a quella della liberazione condizionale che sottrae il
condannato all’esecuzione della pena principale ma non lo libera
dalla pena accessoria (come si argomenta dal silenzio degli artt. 176
e 177 del codice penale). Altrettanto dicasi per l’indulto e la
grazia, se il decreto non dispone diversamente (art. 174, primo
comma, codice penale). Del resto, a riprova di quanto radicata negli
ordinamenti sia la consapevolezza dell’omologia fra le due specie di
sanzioni, riferibili ad una stessa natura penale, va ricordato che il
codice Zanardelli utilizzava talune delle attuali pene accessorie
(come – ad esempio – l’interdizione dai pubblici uffici) come pene
principali.
Quanto all’altro argomento dell’Avvocatura, esso non può essere
assunto nella estrema genericità in cui viene proposto. Parlare
ancora di aree “completamente diverse nei loro assetti e nelle loro
esigenze” quando si mettono a raffronto l’organizzazione militare e
quella civile, è per lo meno imprudente. C’è il rischio, infatti,
di scivolare verso desuete concezioni istituzionistiche
dell’ordinamento militare, trascurando l’evoluzione che l’istituzione
ha subito nell’ultimo trentennio, sottovalutando il principio di
democrazia repubblicana che la Costituzione vi ha immesso (art. 52,
ultima parte, Costituzione), e ignorando la generale tendenza al
maggiore possibile avvicinamento dei diritti del cittadino militare a
quelli del cittadino che tale non è.
Il che, tuttavia, non esclude che talune particolari situazioni,
proprie dello specifico dell’una o dell’altra istituzione,
effettivamente sussistano. Esse, però, vanno esaminate caso per
caso, nella razionalità dell’eventuale particolarità che le
giustifichi, e non nel contesto di una presunta generale diversità
delle due aree.
4. – In realtà, sul piano metodologico, il quesito si propone in
termini diversi. Ciò che va considerata, infatti, è la natura delle
due sanzioni che vengono poste a raffronto, visto che si chiede di
estendere alla pena accessoria il principio che la Corte ha applicato
alla “destituzione di diritto” di cui all’art. 85 a) del citato
decreto presidenziale.
Ora, si è già visto che la pena accessoria, benché
interdittiva, ha natura di vera e propria “pena criminale”; non
così, invece, per la “destituzione di diritto” che la pubblica
amministrazione doveva applicare agli impiegati civili dello Stato
condannati per taluni reati. Si consideri che, proprio perché pena,
soltanto il magistrato può applicare la prima, mentre la competenza
ad infliggere la seconda è attribuita dal legislatore alla pubblica
amministrazione. Basta già questo per ravvisare nella seconda una
sanzione amministrativa, sia pure di carattere
afflittivo-interdittivo, che rivela, specie dopo la sentenza n. 971
del 1988 della Corte che ha prescritto il previo procedimento, la sua
manifesta natura disciplinare.
La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che
la sanzione amministrativa, quando non sia meramente risarcitoria o
ripristinatoria o revocatoria, ha bensì carattere eterogeneo
afflittivo, ma va tenuta assolutamente distinta dalla sanzione
penale, sopratutto perché adempie a funzioni diverse. Ben è vero
che la sanzione disciplinare ha caratteri e trattamento particolari
nel campo delle sanzioni amministrative punitive, come dimostra la
legge 24 novembre 1981 n. 689 (Modifiche al sistema penale) che,
nell’ultimo inciso dell’art. 12, ha escluso le sanzioni disciplinari
dall’applicazione di quei principi generali, largamente invece
dettati per le altre sanzioni amministrative. Ed è proprio questa
specie di jus singulare, che ha sempre regolato l’illecito
disciplinare (come, del resto, quello finanziario-tributario; cfr.
art. 39 della citata legge n. 689 del 1981), a giustificare
l’adozione di una particolare previa garenzia processuale che questa
Corte ha ritenuto di introdurre, con la più volte richiamata
sentenza, nell’art. 85 a) del d.P.R. n. 3 del 1957.
Ma né talune apparenti affinità esteriori del procedimento
disciplinare amministrativo, né quelle analoghe adombrate dalle
sanzioni disciplinari (derivanti soltanto dal comune carattere
punitivo) possono mai fondare una comparazione con l’illecito e con
le sanzioni penali, attesa la loro natura assolutamente diversa e le
ben distinte funzioni cui adempiono i due settori.
Tanto meno, perciò, è ipotizzabile una specie di applicazione
analogica al campo del diritto penale di ciò che questa Corte ha
statuito in quello delle sanzioni amministrative, sia pure
disciplinari.
5. – Va confermato, tuttavia, come più volte, del resto, è stato
riconosciuto, che il problema esiste: esso resta, però, nei termini
già ventilati nelle precedenti sentenze, e non è nemmeno un
problema che riguardi soltanto il diritto penale militare.
Come bene ha osservato l’Avvocatura Generale, se un confronto è
da instaurarsi, esso semmai andrebbe posto nei riguardi dell’analoga
pena accessoria, prevista dal codice penale comune: l’interdizione
perpetua dai pubblici uffici. Anche questa, infatti, come la
rimozione, consegue in via generale a pene inflitte che superino un
determinato limite (anni 5 di reclusione), ed è poi prevista in via
specifica, indipendentemente dalla pena irrogata, per taluni più
gravi delitti, come quelli di peculato o malversazione, previsti
negli articoli da 314 a 317 codice penale.
Ora, si deve convenire che, dal diritto penale in genere,
presunzioni e pene fisse de jure dovrebbero essere bandite. Specie
dopo l’avvento della Costituzione, sia l’art. 3 che il primo e il
terzo comma dell’art. 27 comportano effettivamente che la pena sia
proporzionata all’entità del fatto commesso e alla personalità
dell’autore, e che consenta la rieducazione del condannato: ed è
ovvio che soltanto il giudice può compiere questo dosaggio,
valutando le circostanze tutte del fatto e la personalità del
soggetto agente.
È possibile che l’introduzione di quegli strumenti illiberali
nascondesse, in realtà, una certa sfiducia del legislatore nei
confronti del potere discrezionale del giudice: anche se poi
contraddittoriamente, in altre stagioni, si è ecceduto in senso
opposto, ponendo a carico del giudice, mediante un rilevante
allargamento del potere discrezionale, operazioni di cui il
legislatore avrebbe dovuto assumersi la responsabilità procedendo
alla riforma della parte speciale del codice, o almeno di talune
fattispecie che più urgentemente la richiedevano (cfr. la riforma n.
220 del 1974).
Ciononostante la difficoltà che questa Corte ha sempre opposto è
quella di un intervento settoriale, al di fuori di una riforma
legislativa organica, mediato da una giurisprudenza costituzionale
che non ha poteri per l’articolazione di provvedimenti conseguenti e
coordinatori indispensabili, e per di più in un diritto penale
speciale, qual è quello militare, che lascerebbe inalterato il
corrispondente settore del diritto penale comune di cui è
complementare. Perciò la Corte ha sempre rimandato al legislatore,
che ha già in corso una riforma del codice penale militare di pace,
e che ha pure attivato finalmente lo studio di una legge-delega per
la riforma del codice penale comune. Anche se si ipotizzasse un
adeguamento, ad opera della giurisprudenza costituzionale, del terzo
comma dell’art. 230 codice penale militare di pace al temperamento
che il secondo inciso del secondo comma dell’art. 314 codice penale
introduce al rigore della perpetuità dell’interdizione dai pubblici
uffici, il problema resterebbe tuttavia insoluto. L’art. 314,
infatti, non esclude la pena accessoria quando venga inflitta una
pena principale inferiore ai tre anni di reclusione, ma si limita a
prevedere una pena accessoria più mite, qual’è appunto
l’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Il codice penale militare, però, non conosce una rimozione
temporanea (l’art. 29 la definisce, infatti, esclusivamente
“perpetua”), mentre la corrispondente disposizione generale del
codice penale comune (che, per coincidenza, porta lo stesso numero
29) distingue l’interdizione dai pubblici uffici in “perpetua” e
“temporanea”.
D’altra parte, ogni altra soluzione, quale la possibilità di
disporre a discrezione della pena accessoria fino ad escluderla, se
del caso, oppure a graduarla per adeguarla al caso concreto in
riferimento ai principi costituzionali, postula necessariamente
l’intervento del legislatore: sia per la formulazione di criteri e
limiti, in relazione alla pena principale inflitta o ad altri
parametri, sia e sopratutto per l’eventuale introduzione ex novo di
una pena accessoria temporanea, che nel codice penale militare non ha
attualmente cittadinanza.
Provvedimenti tutti che sicuramente eccedono i poteri della Corte.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 230, comma terzo, codice penale
militare di pace con riferimento agli artt. 3 e 27 della
Costituzione, sollevata dai Tribunali militari di Padova e Verona,
rispettivamente con ordinanze 10 e 31 gennaio 1989.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 ottobre 1989.
Il Presidente: CONSO
Il redattore: GALLO
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 7 novembre 1989.
Il direttore della cancelleria: MINELLI