Sentenza N. 493 del 2002
Corte Costituzionale
Data generale
28/11/2002
Data deposito/pubblicazione
28/11/2002
Data dell'udienza in cui è stato assunto
20/11/2002
Udito nella camera di consiglio del 23 ottobre 2002 il Giudice relatore Romano Vaccarella.
2.- La Corte rimettente premette che, in conformità all’orientamento della Corte di cassazione, l’art. 119 della legge fallimentare va interpretato – data “la chiarezza ed inequivocità del dato normativo” – nel senso che il reclamo, dalla medesima norma previsto, è proponibile esclusivamente contro il decreto con il quale il tribunale dichiara la chiusura del fallimento, e non anche contro il provvedimento con il quale esso rigetta la relativa istanza.
Ritiene non condivisibile l’interpretazione, “costituzionalmente orientata”, suggerita da una parte della dottrina, secondo cui la norma consentirebbe, nondimeno, il reclamo contro il provvedimento negativo, ostandovi il chiaro disposto normativo e non essendo pertinente il richiamo alla disciplina comune dei procedimenti in camera di consiglio, contenuta nel codice di rito (segnatamente all’art. 739 cod. proc. civ., che prevede la reclamabilità dei decreti camerali), attesa la specialità della legge fallimentare.
3.- Quanto alla rilevanza della questione, la Corte rimettente osserva che, sulla base dell’interpretazione accolta, il reclamo della Mazzella sarebbe precluso, perché inammissibile, mentre, ove fosse rimosso il limite posto dalla norma, l’impugnativa potrebbe essere esaminata nel merito.
4.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente osserva che la diversità del regime di impugnazione del provvedimento reso dal tribunale sull’istanza di chiusura del fallimento, a seconda del suo contenuto, positivo o negativo, comporta una sperequazione, secundum eventum litis, tra i soggetti (normalmente i creditori ed il curatore) che si dolgono del provvedimento di chiusura (ai quali è dato il reclamo) e quelli (segnatamente i falliti) che hanno interesse alla chiusura del fallimento (cui il reclamo è negato).
Tale discriminazione – sostiene la Corte – non trova un’appagante e razionale giustificazione e viola il principio di uguaglianza delle parti e la garanzia della difesa in ogni stato e grado del giudizio.
In particolare, essa rileva che, a riequilibrare le posizioni delle parti, non basta la possibilità della riproposizione allo stesso tribunale dell’istanza di chiusura, anche sulla base degli stessi motivi già disattesi, poiché tra i due rimedi (reclamabilità e riproponibilità dell’istanza) non vi è equivalenza, per l’evidente maggior garanzia assicurata dalla “alterità” del giudice del gravame (come osservato dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 253 del 20 giugno 1994, a proposito del reclamo ex art. 669-terdecies cod. proc. civ. avverso il provvedimento di diniego della misura cautelare).
2.- La questione è fondata.
Poiché il rimettente – con motivazione confortata dall’orientamento della dominante giurisprudenza di legittimità e di merito – esclude l’interpretazione della norma denunciata secondo la quale il provvedimento che decide sull’istanza di chiusura sarebbe sempre reclamabile, è indubbia l’illegittimità costituzionale di una norma che, senza alcuna ragionevole giustificazione, consente o nega la proposizione del reclamo secundum eventum litis.
Ribadito il principio, enunciato nella sentenza n. 253 del 1994 a proposito del reclamo cautelare, secondo il quale non vi è equivalenza, quanto a qualità della tutela giurisdizionale, tra riproponibilità dell’istanza al medesimo giudice che già l’abbia respinta e reclamabilità davanti ad altro giudice, è evidente come il diniego dell’esperibilità del reclamo si risolva, per chi abbia visto respingere la sua istanza di chiusura, in un trattamento ingiustificatamente deteriore rispetto a quello riservato a chi si opponga al decreto di chiusura.
Non essendo qualitativamente diversi – e, quindi, suscettibili di diversa protezione – gli interessi di chi insta per la chiusura del fallimento e di chi ad essa si oppone (come dimostra, a tacer d’altro, la circostanza che la giurisprudenza ritiene ammissibile il ricorso ex art. 111 Cost. avverso il provvedimento di accoglimento del reclamo e, pertanto, di revoca della chiusura) l’irreclamabilità del decreto di rigetto dell’istanza (peraltro, ritenuto non ricorribile ex art. 111 Cost.) viola sia l’art. 3, per l’irrazionalità del diverso trattamento riservato a situazioni soggettive speculari ma meritevoli di paritaria considerazione, sia l’art. 24 Cost., per la compressione degli strumenti di tutela giurisdizionale delle ragioni di chi ha interesse alla chiusura del fallimento.
Le considerazioni appena svolte circa l’irrazionalità della norma vigente per il fallimento sono confortate dal confronto con l’omologa disciplina dell’amministrazione straordinaria, la quale prevede la reclamabilità alla Corte d’appello del decreto sia che disponga sia che neghi la chiusura della procedura (cfr. il combinato disposto degli artt. 76, comma 2, e 71, comma 4, del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270).
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 119 del regio decreto 16 aprile 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui esclude la reclamabilità dinanzi alla Corte d’appello del decreto di rigetto dell’istanza di chiusura del fallimento.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2002.
F.to:
Cesare RUPERTO, Presidente
Romano VACCARELLA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 novembre 2002.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA