Sentenza N. 5 del 1978
Corte Costituzionale
Data generale
16/01/1978
Data deposito/pubblicazione
16/01/1978
Data dell'udienza in cui è stato assunto
10/01/1978
OGGIONI – Avv. LEONETTO AMADEI – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO
ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof.
LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott.
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO
PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE, Giudici,
comma, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (t.u. leggi per la elezione
della Camera) e art. 2 della legge 27 febbraio 1958, n. 64, nella
parte in cui rinvia al detto art. 7, promosso con ordinanza emessa il
16 novembre 1976 dal tribunale di Bari, nel giudizio elettorale
promosso da Achille Tarsia Incuria contro Tatarella Giuseppe, iscritta
al n. 110 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 107 del 20 aprile 1977.
Visto l’atto di costituzione di Tatarella Giuseppe, nonché l’atto
di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 30 novembre 1977 il Giudice
relatore Brunetto Bucciarelli Ducci;
uditi l’avv. Massimo Severo Giannini, per il Tatarella e il
sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Nel corso di un giudizio elettorale promosso da Achille Tarsia
Incuria per ottenere la dichiarazione di decadenza dalla carica di
Consigliere regionale di Tatarella Giuseppe, il tribunale di Bari ha
sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale
dell’art. 7, quarto comma, d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (e 2 della
legge 27 febbraio 1958, n. 64, per la parte in cui richiama detto art.
7), in riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione.
Il giudice a quo premette che la norma impugnata è rilevante ai
fini del decidere, disattendendo le eccezioni del Tatarella dirette a
dimostrare l’avvenuta abrogazione di essa per effetto della legge 17
febbraio 1968, n. 108, contenente disposizioni sulla elezione dei
Consigli regionali delle Regioni a statuto normale.
Nel merito il tribunale di Bari osserva che l’impugnato art. 7 del
t.u. del 1957 sulle elezioni alla Camera dei deputati, che sancisce
l’ineleggibilità a deputato del Consigliere regionale, comminando la
decadenza dalla relativa carica per effetto della mera accettazione
della candidatura alle elezioni politiche, contrasta con gli artt. 3 e
51 Cost., perché determinerebbe un trattamento ingiustificatamente
deteriore dei consiglieri regionali rispetto ai Presidenti delle Giunte
provinciali ed ai Sindaci dei Comuni con oltre 20.000 abitanti. Questi
ultimi infatti, pur decadendo da quelle cariche per effetto della
candidatura a deputato, potrebbero, secondo l’ordinanza di remissione,
essere nuovamente eletti Presidenti e Sindaci, non essendo stata
sancita alcuna incompatibilità con la perdurante qualità di
consigliere provinciale o comunale. Altra disparità di trattamento
sarebbe ravvisabile nei confronti dei deputati che presentatisi
candidati alle elezioni regionali, non siano risultati eletti,
prevedendo il legislatore, per tale ipotesi, inversa a quella in
contestazione, una mera incompatibilità tra uffici anziché un caso di
ineleggibilità.
Il tribunale di Bari ha infine esteso la censura prospettata
all’art. 2 della legge 27 febbraio 1958, n. 64, nella parte in cui la
legge elettorale sul Senato rinvia ai requisiti di eleggibilità a
deputato, avendo il Tatarella presentato la propria candidatura anche
per il Senato.
È intervenuto in giudizio innanzi a questa Corte il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale
dello Stato, con atto depositato il 9 marzo 1977, la quale ha concluso
per l’infondatezza della questione sollevata.
La difesa dello Stato osserva che il trattamento differenziato
denunciato dal giudice a quo non appare irrazionale sotto nessuno dei
due profili indicati:
a) perché il legislatore può aver ragionevolmente ritenuto,
nell’esercizio della sua discrezionalità legislativa, che il
consigliere regionale, se rimane in carica durante le elezioni
politiche, può influire sulle medesime molto più del consigliere
comunale o provinciale, di cui non ha previsto la decadenza;
b) perché parimenti attendibile appare la valutazione normativa
secondo cui il consigliere regionale potrebbe esplicare un’influenza
non commendevole sulla elezione a deputato ove perdurasse in carica,
mentre il rischio che il deputato si valga della sua qualità per
captare la benevolenza degli elettori nella competizione regionale
apparirebbe molto più remoto.
Si è costituito in giudizio il dr. Giuseppe Tatarella,
rappresentato e difeso dagli avvocati Piernicola De Leonardis e Aurelio
Gironda, con atto di deduzioni depositato il 2 maggio 1977, chiedendo
principalmente che venga dichiarata l’inapplicabilità, al caso di
specie, della norma impugnata, di cui assume l’abrogazione, e,
subordinatamente, che ne sia dichiarata l’illegittimità
costituzionale.
La difesa della parte privata premette che la decadenza comminata
dal denunciato art. 7 – valevole, all’epoca della sua emanazione,
limitatamente ai consiglieri o deputati regionali delle Regioni a
statuto speciale – risulta oggi abrogata per effetto della legge 17
febbraio 1968, n. 108, sulle elezioni dei Consigli delle Regioni a
statuto normale. Infatti ciò deriverebbe dall’art. 6 di detta legge
che, statuendo una mera incompatibilità dell’ufficio di consigliere
regionale con quello di membro di una delle Camere prevede parimenti,
all’art. 7, che le cause di incompatibilità, sia che esistano al
momento della elezione, sia che sopravvengano, importino decadenza
dall’ufficio di consigliere regionale quando questi non eserciti
l’opzione prevista dall’art. 18 stessa legge. Il raffronto con tale
successiva normativa dimostrerebbe l’abrogazione dell’impugnato art. 7
del t.u. del 1957, risultando così inapplicabile la decadenza in esso
prevista, quanto meno per le Regioni a statuto ordinario.
Nel merito, ed in via subordinata, la difesa del Tatarella ricorda
il principio affermato più volte dalla Corte costituzionale, secondo
cui di fronte alla generalità del diritto di elettorato passivo,
assicurato dall’art. 51 della Carta, le cause di ineleggibilità “sono
di stretta interpretazione e devono comunque rigorosamente contenersi
entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per
garantire le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate”
(sentenza n. 46 del 1969). Applicando gli insegnamenti della Corte alla
norma denunciata – quali risulterebbero anche dalle sentenze n. 58 del
1972 e n. 129 del 1975 – la parte privata conclude osservando che essa
sancisce conseguenze gravissime (la decadenza dalla carica di
consigliere regionale) senza che vi sia già in atto una situazione
conflittuale che la giustifichi.
Infine viene richiamato il disposto dell’art. 122, secondo comma,
della Costituzione, secondo cui “nessuno può appartenere
contemporaneamente ad un Consiglio regionale e ad una delle Camere del
Parlamento o ad un altro Consiglio regionale”. Tale norma
costituzionale dovrebbe valere anche come criterio ermeneutico per
addivenire alla conclusione che l’impugnato art. 7 del t.u. n. 361 del
1957 o è stato abrogato o si applica alle sole Regioni a statuto
speciale o comunque contrasta con l’intento dei costituenti di
prevedere una mera incompatibilità tra le due cariche.
Con la memoria depositata il 17 novembre 1977 la difesa dello Stato
rileva che è errata la tesi del Tatarella secondo cui la norma
denunciata dal giudice a quo sarebbe stata abrogata, osservando che la
legge sulle elezioni dei consigli regionali non avrebbe avuto motivo di
modificare le condizioni di eleggibilità a deputato, e che è ben
possibile che il deputato possa esser eletto consigliere regionale e vi
sia incompatibilità tra le due funzioni, attesa la piena autonomia tra
le nozioni di ineleggibilità ed incompatibilità, che assolvono a
finalità diverse.
Alla pubblica udienza le parti hanno insistito nelle rispettive
tesi.
1) La Corte è chiamata a decidere se l’art. 7, quarto comma, del
d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, secondo cui l’accettazione della
candidatura a deputato comporta in ogni caso la decadenza dalla carica
di consigliere o deputato regionale, contrasti o meno con gli artt. 3 e
51 della Costituzione. È altresì denunciato, per gli stessi motivi,
l’art. 2 della legge 27 febbraio 1958, n. 64, nella parte in cui
estende la disciplina descritta alle elezioni per il Senato.
È prospettato il dubbio che le norme impugnate implichino un
trattamento ingiustificatamente deteriore del consigliere regionale
rispetto ai presidenti delle Giunte provinciali ed ai sindaci dei
comuni con più di 20.000 abitanti, e anche rispetto ai parlamentari
che, volendo partecipare a competizioni elettorali regionali, non
incorrono in alcuna decadenza essendo per essi prevista una mera
incompatibilità qualora vengano eletti. Inoltre l’ineleggibilità del
consigliere regionale a deputato o a senatore (con comminatoria di
decadenza sin dal momento dell’accettazione della candidatura) è
censurata per contrasto con il generale diritto di accedere alle
cariche elettive, garantito dall’art. 51 Cost.
2) Le questioni non sono fondate.
Prima ancora di porre in luce il significato e la precisa funzione
delle norme impugnate, occorre vagliare la fondatezza della tesi della
parte privata secondo cui esse sarebbero state abrogate dalla legge 17
febbraio 1968, n. 108, (recante norme per la elezione dei consigli
regionali a statuto ordinario). L’art. 6 di tale legge, che prevede le
cause di incompatibilità, ribadisce, tra l’altro, l’incompatibilità
dell’ufficio di consigliere regionale con quello di membro di una delle
due Camere (già sancito dall’art. 122 Cost.), mentre l’art. 7 dispone
che tutte le cause di incompatibilità previste dall’art. 6, sia che
esistano al momento della elezione, sia che sopravvengano ad essa,
importano decadenza dall’ufficio di consigliere regionale, quando
quest’ultimo non eserciti l’opzione nei modi prescritti.
Dal combinato disposto delle due previsioni la difesa del Tatarella
deduce che la denunciata ineleggibilità non sussiste più, essendo
stata sostituita da una mera incompatibilità funzionale, sicché il
consigliere regionale potrebbe candidarsi alle elezioni politiche senza
incorrere in alcuna decadenza, salva soltanto, in caso di avvenuta
elezione al Parlamento, la necessità di esercitare la opzione tra le
due cariche.
La Corte non condivide tale interpretazione, che del resto è stata
disattesa dallo stesso giudice a quo, non ricorrendo nella specie
alcuna delle ipotesi di abrogazione configurabili ai sensi dell’art. 15
delle preleggi.
Il testo unico n. 361 del 1957 è volto a disciplinare nel suo
complesso il sistema delle elezioni alla Camera dei deputati, e
determina, tra l’altro, le ipotesi di ineleggibilità di coloro che vi
partecipano come candidati, mentre le cause di incompatibilità sono
fondamentalmente disciplinate dalla legge 15 febbraio 1953, n. 60. La
citata legge 108 del 1968 disciplina, invece, le elezioni dei consigli
regionali ordinari, regolamentando, tra l’altro, le relative cause di
ineleggibilità ed incompatibilità.
Non può quindi condividersi la suggestiva argomentazione difensiva
che dalla configurazione della sopravvenuta incompatibilità
dell’ufficio di parlamentare con quello di consigliere regionale –
ricavabile dalle disposizioni menzionate – vuole dedurre che in tanto
la norma ha un significato e una sua ragione d’essere in quanto abbia
necessariamente supposto il caso del consigliere regionale che abbia
potuto presentarsi (con successo) alle elezioni politiche, con
conseguente abrogazione della ineleggibilità denunciata.
Può infatti obiettarsi che l’art. 7 della legge n. 108 del 1968,
mentre trova applicazione per tutte le altre incompatibilità previste
dall’art. 6, originarie o sopravvenute alla elezione a consigliere
regionale, esplica effetto anche per quanto attiene alla fattispecie
particolare dei rapporti tra l’ufficio di consigliere regionale e di
membro di una delle Camere, ma in un caso diverso da quello ipotizzato
(contra legem) dal Tatarella; e cioè quando il consigliere regionale,
presentatosi precedentemente e senza successo alle elezioni politiche,
(prima ancora di rivestire la carica di consigliere) sia poi chiamato a
far parte del Parlamento a seguito di surrogazione.
Disconosciuta pertanto l’incompatibilità tra le due normative,
entrambe in vigore nel rispettivo ambito, può essere affrontato il
merito della questione.
3) L’impugnato art. 7 del t.u. n. 361 del 1957 stabilisce
chiaramente che i consiglieri regionali, i presidenti delle Giunte
provinciali ed i sindaci dei Comuni con più di 20.000 abitanti sono
ineleggibili a deputato.
Gli interessati possono, tuttavia, sottrarsi a tali cause di
ineleggibilità cessando realmente dalle funzioni esercitate, previa
presentazione delle dimissioni, almeno 180 giorni prima della data di
scadenza del quinquennio di durata della Camera cui intendono
candidarsi o sette giorni dopo il decreto di scioglimento in caso di
elezioni anticipate. Per rafforzare tale ineleggibilità, ed evitare
inconvenienti sorti nella pratica, il legislatore ha sancito, nel 1956,
la decadenza dagli uffici menzionati come effetto automatico della
accettazione della candidatura delle elezioni politiche.
Dalla interpretazione letterale e sistematica della norma
impugnata, che configura una causa specifica di ineleggibilità, emerge
la relativa ratio, confermata anche dai lavori preparatori della legge
elettorale del 1948, approvata dalla stessa assemblea costituente, e da
quelli della novella del 1956. Si è voluto cioè impedire che i
titolari di determinati importanti uffici potessero valersi dei poteri
connessi alla loro carica per influire indebitamente sulla competizione
elettorale, esercitando una captatio benevolentiae o un metus publicae
potestatis nei confronti degli elettori. Ciò è dimostrato anche dalla
prevista sanzione della decadenza che nella fattispecie avrebbe dovuto
essere immediatamente dichiarata da parte dei competenti organi
regionali.
Né può ritenersi che il legislatore, al fine di tutelare
l’anzidetto interesse pubblico sostanziale, abbia adottato uno
strumento eccessivo rispetto allo scopo perseguito.
Non è infatti fondatamente opinabile che sarebbe stata sufficiente
la sussistenza di una mera incompatibilità tra le cariche di
consigliere regionale e deputato al Parlamento, giacché
l’incompatibilità assolve ad un suo proprio scopo – sostanzialmente
quello di evitare la contemporanea titolarità di due uffici
validamente conseguiti – mentre l’ineleggibilità che ha la funzione
sopra menzionata deve operare fin dall’inizio della competizione
elettorale. Quindi la previsione dell’art. 122 Cost. non vale ad
escludere che la legge ordinaria consideri senz’altro i consiglieri
regionali ineleggibili a parlamentari.
Per inquadrare la normativa impugnata nell’ambito dei principi
costituzionali che ne sono a fondamento, occorre ricordare che la
Costituzione ha fissato taluni criteri basilari, pur rinviando alla
legge ordinaria sia per la determinazione dei casi di ineleggibilità e
di incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore (art. 65
Cost.), sia per la disciplina delle ineleggibilità ed incompatibilità
dei consiglieri regionali (art. 122 Cost.), anche se ha ritenuto
necessario determinare essa stessa taluni particolari casi di
incompatibilità (citati artt. 65 e 122). L’art. 51 della Costituzione
infatti garantisce a tutti la possibilità di accedere alle cariche
elettive “in condizioni di eguaglianza e secondo i requisiti stabiliti
dalla legge”.
La prospettata violazione dell’art. 51 Cost. è stata direttamente
collegata all’orientamento di questa Corte secondo cui l’eleggibilità
è la norma, l’ineleggibilità è l’eccezione, e “le cause di
ineleggibilità… devono comunque rigorosamente contenersi entro i
limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la
soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse cui sono
preordinate” (sentenza n. 46 del 1969). Tale affermazione deve però
esser coordinata con l’altra, più volte formulata, secondo cui il
legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità politica può
stabilire, per categorie generali ed astratte, cause di ineleggibilità
volte ad assicurare la libera e genuina espressione del voto popolare
nonché la primaria esigenza della autenticità della competizione
elettorale (sentenze nn. 38 del 1971 e 45 del 1977).
Va pertanto riconosciuta, sulla scorta di tali criteri, la
giustificazione della norma impugnata, in quanto sancisce la
ineleggibilità alla Camera e al Senato del consigliere regionale
presentatosi candidato in circoscrizioni elettorali comprese
nell’ambito territoriale della Regione, come è avvenuto nel caso in
esame. Detta ineleggibilità, potrebbe, semmai, non apparire
altrettanto giustificata secondo gli orientamenti giurisprudenziali di
questa Corte laddove produca effetti per tutto il territorio nazionale
anziché nell’ambito della Regione nella quale il consigliere regionale
eserciti il proprio mandato: ma siffatta questione non costituisce
oggetto del giudizio sottoposto a questa Corte.
4) Nemmeno sussiste la denunciata violazione dell’art. 3 Cost.
perché le situazioni comparate dal giudice a quo sono tra loro
eterogenee.
Sotto un primo profilo è pur vero che la qualità di deputato o
senatore non impedisce la partecipazione di essi alla competizione
elettorale regionale, tuttavia non è riscontrabile in dette qualità
un collegamento tanto penetrante fra funzioni attribuite ed ambito
territoriale ove si svolge la competizione elettorale, da giustificare,
di per sé solo, la configurazione di un’ulteriore causa di
ineleggibilità. Sicché la mera incompatibilità prevista per tale
ipotesi assolve correttamente al suo scopo di evitare il cumulo di
cariche considerate fra loro incompatibili.
Neppure è pertinente la contrapposizione posta in evidenza dal
giudice a quo, secondo cui il consigliere regionale che non riesce alle
elezioni politiche perde ogni incarico, mentre il Presidente di Giunta
provinciale o il Sindaco (dei Comuni con più di ventimila abitanti),
in caso di insuccesso, rimane consigliere provinciale o comunale, e
potrebbe essere rieletto all’ufficio prima ricoperto. In tale
prospettazione sembra infatti celarsi un equivoco: invero o si è
inteso denunciare una pretesa disparità di trattamento fra le cariche
di consigliere regionale e quelle di presidente provinciale o di
sindaco, e allora la censura è ictu oculi contraddetta dalla lettera
della norma impugnata, che sancisce l’identica ineleggibilità in tutti
e tre i casi, sempre aggravata dalla decadenza dalle cariche
menzionate; o, invece, si è voluto denunciare la circostanza che il
consigliere regionale è ineleggibile a differenza di quello
provinciale o comunale, ma allora è facile obiettare in contrario che
rientra nella discrezionalità del legislatore una valutazione
differenziata delle funzioni comparate, attesa la minore importanza
delle ultime due, e quindi la diversa possibilità di un’indebita
influenza sull’elettorato.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 7, quarto comma, d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (testo unico
per la elezione della Camera dei deputati), e 2, legge 27 febbraio
1958, n. 64, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 51 della
Costituzione, con l’ordinanza del tribunale di Bari in epigrafe
indicata.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 1978.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
LEONETTO AMADEI – EDOARDO VOLTERRA –
GUIDO ASTUTI – MICHELE ROSSANO –
ANTONINO DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere