Sentenza N. 50 del 1965
Corte Costituzionale
Data generale
26/06/1965
Data deposito/pubblicazione
26/06/1965
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/06/1965
GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO – Prof. ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER
– Prof. GIOVANNI CASSANDRO – Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO
MANCA – Prof. ALDO SANDULLI – Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE
FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott.
GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO
PAOLO BONIFACIO, Giudici,
48 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270, contenente la legge tributaria
sulle successioni, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 25 marzo 1963 dalla Commissione provinciale
delle imposte dirette e indirette di Palermo su ricorso di Russo
Vincenzo contro l’Ufficio delle successioni di Palermo, iscritta al n.
93 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica, n. 157 del 27 giugno 1964;
2) ordinanza emessa il 22 aprile 1963 dalla Commissione provinciale
delle imposte dirette e indirette di Palermo su ricorso di Canzoneri
Maria contro l’Ufficio del registro di Prizzi, iscritta al n. 94 del
Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, n. 157 del 27 giugno 1964.
Visti l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e gli atti di costituzione in giudizio del Ministro delle
finanze e di Russo Vincenzo;
udita nell’udienza pubblica del 7 aprile 1965 la relazione del
Giudice Michele Fragali;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas,
per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per il Ministro delle
finanze.
1. – Due ordinanze della Commissione provinciale delle imposte
dirette e indirette di Palermo, emesse rispettivamente in data 25 marzo
1963, su ricorso di Russo Vincenzo contro l’Ufficio delle successioni
di Palermo, e 22 aprile 1963, su ricorso di Canzoneri Maria contro
l’Ufficio del registro di Prizzi, entrambe pervenute alla Corte il 29
maggio 1964, hanno denunciato l’illegittimità costituzionale degli
artt. 45 e 48 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270, contenente la legge
tributaria sulle successioni, per contrasto con l’art. 53 della
Costituzione.
Secondo entrambe le ordinanze, le norme investite, limitando la
prova dei debiti detraibili ai fini dell’imposta di successione, sono
incompatibili con la regola per cui l’imposizione tributaria deve
corrispondere alla effettiva capacità contributiva e non ad una
capacità presunta o apparente. La seconda ordinanza aggiunge che le
limitazioni disposte alla prova di quei debiti si risolvono in una
violazione del principio di eguaglianza, perché ad eguale capacità
contributiva segue una disparità di trattamento, a seconda che al
contribuente riesca possibile offrire le prove richieste dalla legge;
rileva altresì che, nella specie, era stato dedotto il rifiuto del
creditore di rilasciare la c.d. dichiarazione di sussistenza del
credito e, pur essendo vero che, in tal caso, le norme impugnate
consentono una azione di danno contro il creditore, è anche vero che,
ove questi sia insolvente, l’erede paga una imposta non dovuta, senza
possibilità di essere rivalso.
La prima ordinanza è stata notificata al Presidente del Consiglio
dei Ministri il 7 aprile 1964, all’Ufficio successioni di Palermo il
giorno 8 successivo e al ricorrente il 18 dello stesso mese; è stata
comunicata ai Presidenti delle due Camere il 7 aprile 1964. La seconda
ordinanza è stata notificata alla ricorrente, all’Ufficio del registro
di Prizzi e al Presidente del Consiglio dei Ministri in data 7 aprile
1964; ed in pari data comunicata ai Presidenti delle due Camere.
Ambedue le ordinanze sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale
della Repubblica, n. 157 del 27 giugno 1964.
In tutte e due le cause il 16 maggio 1964 si è costituito il
Ministro delle finanze, ed il 27 successivo è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei Ministri; solo nel procedimento di cui
alla prima ordinanza è comparsa la parte privata (16 luglio 1964).
Il Ministro delle finanze e il Presidente del Consiglio dei
Ministri hanno depositato memorie addì 24 marzo 1965.
2. – Si rileva nelle deduzioni e nelle memorie del Ministro delle
finanze e del Presidente del Consiglio dei Ministri che le norme delle
quali si prospetta la illegittimità costituzionale sono intese ad
evitare l’evasione dell’imposta successoria, nell’interesse generale
della giusta e regolare percezione dei tributi e non violano il
principio dell’art. 53 della Costituzione, perché, come già la Corte
ha deciso nella sentenza n. 45 del 1964, la capacità contributiva
deve porsi in relazione non già con la concreta idoneità del
contribuente a corrispondere l’imposta, ma con il presupposto al quale
l’imposta stessa è collegata e con gli elementi essenziali
dell’obbligazione tributaria. La prova libera delle passività
deducibili non salvaguarderebbe l’interesse fiscale, che altra volta la
Corte ha ritenuto costituzionalmente protetto sullo stesso piano di
ogni diritto individuale (sentenza n. 45 del 1963); cosicché le norme
impugnate, anziché essere in contrasto con l’art. 53 della
Costituzione, ne assicurano l’osservanza. La possibilità concreta e
contingente di documentare la sussistenza dei debiti ereditari solo in
alcuni casi è un inconveniente di ordine pratico, quindi una
circostanza irrilevante sul piano del sindacato di legittimità
costituzionale: peraltro la legge accorda al debitore l’azione di
danni nei confronti del terzo che abbia posto il contribuente
nell’impossibilità di fornire la prova richiesta.
La parte privata comparsa, muovendo dal rigore con il quale la
giurisprudenza ha interpretato le norme concernenti la prova del debito
in conto corrente, che è uno di quelli di cui chiede la detrazione,
osserva che esso si risolve nell’escludere tale debito dalla deduzione
legale; si richiede la esibizione del contratto di conto corrente
bancario con la prova della sua registrazione anteriormente alla morte
del de cuius, per quanto quello di conto corrente è un contratto di
cui è prevista la registrazione soltanto in caso di uso; si pretende
anche l’esibizione di tutti gli assegni emessi dal de cuius, fin
dall’apertura del conto corrente, e quindi pure di quelli per i quali
è cessato l’obbligo di conservazione, non ostante l’inutilità di una
tale esibizione non accompagnata dalla documentazione relativa alle
partite attive; si esige la esibizione dei libri contabili obbligatori
tenuti dal creditore, non ostante che in essi non si registrino saldi,
ma operazioni singole, per quanto sia assurdo esibire tutti i libri
giornali dall’origine del conto corrente sino alla data di decesso,
compresi quelli per cui è cessato l’obbligo di conservazione, e non
ostante che gli istituti bancari registrino nei loro giornali cifre
riassuntive senza indicazione dei singoli nomi. Per le cambiali
agrarie, che è altro titolo di deduzione fatto valere dalla parte
privata, è ritenuta necessaria l’esibizione del libro giornale
dell’istituto che eroga il prestito o di un suo estratto; ma, a
prescindere dalla stranezza del fatto che, per tali cambiali, al fisco
può opporsi il privilegio ex art. 2778 del Codice civile sulla
semplice esibizione del titolo, nel libro giornale dell’istituto, alle
cui risultanze le norme denunciate conferiscono valore di prova legale,
nessuna annotazione può trovarsi per il singolo debito, che viene
invece iscritto in schedari accentrati in un istituto di credito
agrario per provincia, quindi in registri non obbligatori, e perciò
privi di efficacia probatoria agli effetti delle discusse detrazioni.
La parte considera inoltre che il sistema, così come è stato
costituito e viene interpretato, si rivela violatore, non soltanto
dell’art. 53 della Costituzione, ma anche dell’art. 24, perché la
limitazione legale delle prove, prevista dalle leggi civili per una
esigenza di certezza della pretesa e a difesa dei diritti e della
dignità della persona privata, è utilizzata nella legge tributaria
per una esclusiva comodità del fisco, e non può oltrepassare certi
limiti senza togliere al contribuente la possibilità di tutelare i
propri diritti o senza considerare la capacità contributiva come una
situazione fittizia. Il che non è consentito nemmeno a fine di
protezione dell’interesse dello Stato, fiscale o non fiscale.
3. – All’udienza del 7 aprile 1965 l’Avvocatura dello Stato ha
illustrato le deduzioni e le memorie presentate.
1. – Non è esatto che le norme denunciate siano in contrasto con
la regola dettata nell’art. 53 della Costituzione, per cui il dovere di
concorrere alla copertura della spesa pubblica si commisura alla
capacità contributiva dei singoli obbligati.
Se per capacità contributiva deve intendersi la idoneità
soggettiva alla obbligazione di imposta, rivelata dal presupposto al
quale la sua prestazione è collegata (sentenza 16 giugno 1964, n. 45),
non appare contestabile che il riferimento di quel presupposto alla
sfera dell’obbligato deve risultare da un collegamento effettivo, e che
ad un indice effettivo deve farsi capo per determinare la quantità
dell’imposta che da ciascun obbligato si può esigere. Senonché non
convincono né il giudice a quo né la parte privata comparsa quando
sostengono che, nei casi in cui la legge ancora ad un sistema di prove
legali la determinazione dell’esistenza del presupposto
dell’obbligazione tributaria e della sua entità concreta, si dà una
base fittizia all’imposizione.
La prova legale fornisce nella sostanza la stessa certezza di
quella libera: la differenza è nella diversa provenienza
dell’accertamento, nella diversa sua efficacia, nel diverso carattere
che assume in ciascun caso la configurazione della realtà. In via
generale, la prova legale vuole creare stabilità e sicurezza alle
relazioni giuridiche; ma nella materia fiscale vuole anche proteggere
l’interesse generale alla riscossione dei tributi contro ogni tentativo
di evasione, ed evitare la libera scelta dei mezzi di prova o la
discrezionale valutazione dei loro risultati in un campo in cui non è
consigliabile creare sfere di autonomia dispositiva. Di più, nella
materia tributaria, la prova legale permette di rendere precisa e netta
la consistenza della pretesa pubblica, che apprezzamenti discrezionali
sulle conseguenze delle prove esibite potrebbero far risultare di
esperimento disuguale; e dà al procedimento quella semplicità che è
presupposto di una sollecita riscossione dell’imposta. Non si può
omettere di ricordare che l’interesse fiscale riceve nella Costituzione
una sua particolare tutela (artt. 53 e 14, secondo comma); in modo che,
al contrario di quanto mostra di credere la parte privata, esso si
configura, non come uno degli interessi indistinti che sono affidati
alla cura dell’amministrazione statale, ma come un interesse
particolarmente differenziato che, attenendo al regolare funzionamento
dei servizi necessari alla vita della comunità, ne condiziona
l’esistenza (sentenza 4 aprile 1963, n. 45).
2. – Viene rilevato nella seconda ordinanza di rimessione che non
sempre il contribuente è in grado di esibire la prova richiesta dalle
norme denunciate. In tal modo però, o si oppongono impedimenti che,
essendo di mero fatto, sono estranei ad ogni problema di legittimità
costituzionale, sia pure sotto il profilo del principio
dell’eguaglianza, o si deducono circostanze che, potendo consistere in
fatti imputabili al contribuente o al suo dante causa, il quale non ha
curato la formazione o la conservazione della prova legale, sono
parimenti prive di rilevanza ai fini del sindacato spettante a questa
Corte.
A codesti fini non rileva nemmeno obiettare che talora le norme
impugnate richiedono una particolare certificazione del terzo, o
mediante dichiarazione di sussistenza del credito, come è previsto
nell’art. 48, o mediante particolari certificazioni tratte dai libri
commerciali, come è disposto nell’art. 45; e che il rifiuto del terzo
a rilasciare codeste attestazioni impedisce al contribuente di far
valere la sua pretesa alla deduzione di passività dall’ammontare
dell’imponibile e praticamente pone nella disponibilità del terzo la
pretesa medesima.
Nel caso dell’art. 48 il rifiuto del terzo è causa di sua
responsabilità per danni, come è espressamente comminato nella norma.
Questa responsabilità ha sufficiente copertura nell’ammontare del
credito che il terzo ha verso il contribuente; e pertanto non è
fondato che la sua previsione, presupponendo la solvibilità del terzo,
che può mancare, non sostituisce una pretesa di certa realizzazione, a
quella che ha per oggetto la riduzione del debito di imposta.
Nel caso dell’art. 45 si sostiene invano che esso richiede una
documentazione che il terzo può non essere in grado di fornire,
quando, ad esempio, essa deve essere tratta da libri commerciali nei
quali non si contengono le precise indicazioni dei debitori o per i
quali è cessato l’obbligo di conservazione. La giurisprudenza ha, è
vero, portato un rigoroso esame sulla possibilità, in concreti casi,
di includere singoli documenti nelle categorie prefissate dalle norme
impugnate e ritenuto che queste non ammettono prove equipollenti a
quelle che esse determinano; ma ciò è cosa diversa dal dare alle
norme un significato preclusivo della deduzione di una incolpevole
impossibilità materiale di fornire le prove richieste. Ed infatti il
giudice a quo non ha riferito, nella sua ordinanza, alcuna
interpretazione delle norme denunziate che disconosca i limiti cui la
legge generale assoggetta anche l’efficacia della prova legale (art.
2724 del Codice civile); e ha indicato come ipotesi di impossibilità
di prova soltanto quella in cui il terzo rifiuti di fare la
dichiarazione di cui all’art. 48, vale a dire un’ipotesi che, per
quanto si è detto, non è rilevante ai fini dell’odierno processo di
legittimità costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riunisce le due cause;
dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 45 e 48 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270, contenente la
legge tributaria sulle successioni, proposta dalla Commissione
provinciale delle imposte dirette e indirette di Palermo con ordinanze
25 marzo e 22 aprile 1963, in riferimento all’art. 53 della
Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 giugno 1965.
GASPARE AMBROSINI – GIUSEPPE CASTELLI
AVOLIO – ANTONINO PAPALDO – NICOLA
JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO – BIAGIO
PETROCELLI – ANTONIO MANCA – ALDO
SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA – MICHELE
FRAGALI – COSTANTINO MORTATI –
GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO.