Sentenza N. 501 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
31/12/1993
Data deposito/pubblicazione
31/12/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
29/12/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof.
Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.
Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando
SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO;
terzo comma, del d.P.R. 13 febbraio 1993, n. 40 (Revisione dei
controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle Regioni, ai
sensi dell’art. 2, primo comma, lett. h), della legge 23 ottobre
1992, n. 421), promosso con ricorso della Regione Lombardia
notificato il 20 marzo 1993, depositato in cancelleria il 25
successivo ed iscritto al n. 22 del registro ricorsi 1993;
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 14 dicembre 1993 il Giudice
relatore Fernando Santosuosso;
Uditi l’avv. Maurizio Steccanella per la Regione Lombardia e
l’avv. dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Lombardia ha sollevato questione di legittimità costituzionale nei
confronti dell’art. 2, primo comma, del d.P.R. (rectius: decreto
legislativo) 13 febbraio 1993, n. 40 (Revisione dei controlli dello
Stato sugli atti amministrativi delle regioni, ai sensi dell’art. 2,
primo comma, lettera h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nella
parte in cui stabilisce che il Presidente del Consiglio dei ministri
“emana direttive” alle commissioni statali di controllo sugli atti
amministrativi delle regioni; nonché dello stesso art. 2, terzo
comma, di detto decreto, nella parte in cui stabilisce che il
comitato tecnico, istituito a mente del precedente secondo comma,
“propone al Presidente del Consiglio dei ministri l’adozione delle
direttive di cui al primo comma”; e tutto ciò per violazione degli
artt. 76, 118 e 125 della Costituzione.
Relativamente al primo parametro costituzionale, osserva
innanzitutto la Regione ricorrente che la disposizione attributiva
della delega al Governo relativamente alla norma impugnata è
contenuta nella disciplina concernente specificamente il pubblico
impiego: dal che dovrebbe dedursi l’esclusione, secondo il
ricorrente, della possibilità per il Governo di riformare in via
generale l’istituto del controllo sugli atti amministrativi delle
Regioni. In secondo luogo, si sostiene che il decreto delegato
avrebbe violato un limite della delega secondo cui, per garantire
l’uniformità dei criteri di esercizio del controllo, il Governo
avrebbe potuto procedere (soltanto) all’adeguamento della
composizione degli organi di controllo, e non invece ad indirizzarne
l’attività attraverso un coordinamento delle singole commissioni
operato mediante la creazione di un apposito organo centrale non
previsto nella legge delega. Infine, esorbitante rispetto alla delega
risulterebbe sia la previsione della potestà di impartire direttive
alle commissioni statali di controllo attribuita al Presidente del
Consiglio dei ministri, che l’attribuzione della funzione di proposta
circa il contenuto di tali direttive, riconosciuta al comitato
tecnico.
Quanto alla presunta violazione dell’art. 125 della Costituzione
e, “di riflesso, dell’art. 118, nonché, sotto altro profilo, ancora
dell’art. 76 della Costituzione”, sottolinea la Regione ricorrente
come il controllo sugli atti amministrativi delle Regioni sia
unicamente un controllo di mera legittimità, da cui dovrebbe essere
escluso, in forza della previsione contenuta nell’art. 1 dello stesso
decreto legislativo impugnato, il vaglio del c.d. eccesso di potere.
Sulla base di tale premessa, si osserva come sia difficile rinvenire
la possibilità di individuare “criteri” che eccedano i generali
canoni ermeneutici e le regole della interpretazione delle norme,
ovvero determinare l’esatta portata dei “comuni indirizzi” previsti
dal primo comma della disposizione impugnata.
Si rileva inoltre come la disposizione oggetto del presente
giudizio, nell’attribuire al Presidente del Consiglio dei ministri la
potestà di impartire direttive alle commissioni statali di
controllo, e nello stabilire la spettanza al comitato tecnico (che è
organo centrale dell’amministrazione dello Stato) del potere di
formulare al Presidente del Consiglio dei ministri le proposte
concernenti il contenuto delle anzidette direttive, introdurrebbe una
“gerarchizzazione” dell’esercizio del controllo, “in quanto le
direttive costituiscono un istituto tipico del rapporto gerarchico, o
almeno di un rapporto di sovraordinazione funzionale”. Tale modalità
di esercizio del controllo, diventando “estrinsecazione gerarchizzata
di amministrazione attiva”, si porrebbe in contrasto con l’art. 125
e, conseguentemente, con l’art. 118 della Costituzione, in quanto
violerebbe l’autonomia delle Regioni i cui atti possono, viceversa,
soggiacere unicamente ad un controllo di legittimità che deve essere
esercitato attraverso un “giudizio dell’organo a ciò deputato”.
Quale ulteriore motivo di contrasto con l’art. 76 della
Costituzione, rileva la Regione ricorrente che la legge di delega
prevede una sorta di istituzionalizzazione del contraddittorio
procedimentale, attraverso la “assicurazione della audizione dei
rappresentanti dell’ente controllato”: previsione non attuata,
invece, del decreto legislativo impugnato.
Come ultimo profilo, viene denunciata l’irragionevole
contraddittorietà di cui sarebbe espressione il decreto oggetto di
ricorso: mentre infatti la legge delega si è proposta di “ridurre”
l’ambito degli atti soggetti a controllo concentrando quest’ultimo
profilo sugli “atti fondamentali della gestione”, il decreto delegato
avrebbe viceversa operato una burocratica gerarchizzazione della
funzione.
2. – Si è costituito davanti a questa Corte il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o, in
subordine, per l’infondatezza della questione.
In primo luogo, osserva la difesa erariale che le disposizioni
oggetto di ricorso non sono “invasive” di attribuzioni regionali, in
quanto riguardano soltanto l’organizzazione “interna” di organi
statali, per l’esercizio di una funzione esclusivamente statale.
Circa il motivo prospettato dalla ricorrente in merito alla
presunta violazione della legge delega, essendo la disposizione
delegante contenuta nella parte relativa al “pubblico impiego”,
l’Avvocatura dello Stato ne evidenzia la palese infondatezza,
dovendosi escludere che la norma delegante avesse voluto ipotizzare
due discipline di controllo sugli atti amministrativi regionali,
l’una per il “pubblico impiego” e l’altra per le residue materie.
In ordine al secondo profilo, si osserva che “l’uniformità dei
criteri di esercizio del controllo” non può che essere perseguita
attraverso l’individuazione di una funzione (inevitabilmente
“centrale”) e quindi attraverso la previsione di una struttura ad
essa servente.
Circa il potere del Presidente del Consiglio dei ministri di
impartire direttive alle commissioni di controllo, osserva
l’Avvocatura dello Stato che questa Corte ha già affermato che
siffatte direttive sono possibili (ed anzi doverose specie quando
rispondenti a valori costituzionalmente riconosciuti), e che del
resto le commissioni di controllo sono organi periferici dello Stato
e fanno capo alla Presidenza del consiglio.
Quanto al profilo relativo alla mancata previsione di una forma di
consultazione delle amministrazioni controllate, rileva la difesa
erariale che tale profilo dovrebbe condurre ad una pronuncia
additiva, che però non pare consentita molteplici essendo le
ipotizzabili modalità della auspicata “audizione”.
3. – In prossimità dell’udienza hanno presentato memorie sia
l’Avvocatura generale dello Stato che la Regione ricorrente, nelle
quali le parti ribadiscono quanto già ampiamente illustrato nelle
memorie di costituzione.
4. – Nel corso dell’udienza pubblica, le parti hanno fatto
rilevare la sopravvenuta emanazione ed entrata in vigore del decreto
legislativo 10 novembre 1993, n. 479, contenente norme correttive del
decreto legislativo impugnato, concludendo, la Regione ricorrente,
per il permanere dell’interesse ad una pronuncia di accoglimento, e
l’Avvocatura dello Stato per la sopravvenuta inammissibilità della
questione.
censure al decreto n. 40 del 1993 nella motivazione del ricorso –
conclude quest’ultimo limitando rigorosamente la sua richiesta alla
declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 2, primo e
terzo comma, del d.P.R. (rectius: decreto legislativo) 13 febbraio
1993, n. 40 (Revisione dei controlli dello Stato sugli atti
amministrativi delle regioni, ai sensi dell’art. 2, primo comma,
lettera h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421); e precisamente del
primo comma nella parte in cui stabilisce che il Presidente del
Consiglio dei ministri “emana direttive” alle commissioni statali di
controllo sugli atti amministrativi delle regioni; e del terzo comma
nella parte in cui stabilisce che un apposito comitato tecnico,
istituito ad opera del medesimo decreto, “propone al Presidente del
Consiglio dei ministri l’adozione delle direttive di cui al primo
comma”, in riferimento agli artt. 76, 118 e 125 della Costituzione.
2. – Prima di passare ad esaminare il merito di detta questione di
costituzionalità, occorre valutare la portata delle innovazioni
legislative introdotte mediante il decreto legislativo 10 novembre
1993, n. 479, contenente “Norme correttive del decreto legislativo 13
febbraio 1993, n. 40, recante revisione dei controlli dello Stato
sugli atti amministrativi delle regioni”, emanato in forza della
delega contenuta nell’art. 2, primo comma, lettera h), e quinto comma
della legge 23 ottobre 1992, n. 421.
L’art. 2, primo comma, di tale decreto stabilisce che all’art. 2,
primo comma, del decreto impugnato, le parole “emana direttive” sono
sostituite dalle seguenti: “determina criteri procedurali”; mentre la
disposizione contenuta nel terzo comma sostituisce alle parole
“l’adozione delle direttive” (di cui al terzo comma dell’art. 2 del
decreto n. 40 del 1993) le seguenti: “l’adozione dei criteri
procedurali”. Atteso dunque che le disposizioni relativamente alle
quali la Regione Lombardia ha sollevato questione di legittimità
costituzionale sono state abrogate, senza che esse abbiano prodotto
effetti nel periodo di vigenza, la suddetta questione deve
dichiararsi inammissibile, essendo venuta meno la disposizione cui
essa si riferiva (cfr. sentenza n. 372 del 1989).
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2, primo e terzo comma, del d.P.R. (rectius: decreto
legislativo) 13 febbraio 1993, n. 40 (Revisione dei controlli dello
Stato sugli atti amministrativi delle regioni, ai sensi dell’art. 2,
primo comma, lettera h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421),
sollevata, con il ricorso indicato in epigrafe, dalla Regione
Lombardia, in riferimento agli artt. 76, 118 e 125 della
Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 29 dicembre 1993.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: SANTOSUOSSO
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 31 dicembre 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA