Sentenza N. 502 del 1991
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1991
Data deposito/pubblicazione
30/12/1991
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/12/1991
Presidente: dott. Aldo CORASANITI;
Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo
CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,
avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.
Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI;
procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) n. 3 ordinanze emesse il 14 novembre 1990 dal Pretore di
Livorno nei procedimenti penali a carico di Menelecco Felice,
Biagetti Giorgio e Arca Agostino, iscritte ai nn. 390, 391 e 392 del
registro ordinanze 1991 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 1991;
2) ordinanza emessa il 3 maggio 1991 dal Tribunale di Chieti nel
procedimento penale a carico di Di Marco Antonio, iscritta al n. 437
del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 1991;
3) ordinanza emessa il 16 aprile 1991 dal Giudice per le
indagini preliminari presso il Tribunale di Messina nel procedimento
penale a carico di Aliberti Rosario, iscritta al n. 446 del registro
ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 27, prima serie speciale, dell’anno 1991;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 20 novembre 1991 il Giudice
relatore Ugo Spagnoli;
dibattimentale del 14 novembre 1990 (r.o. nn. 390 e 391 del 1991), il
Pretore di Livorno – rilevando di aver dato impulso, quale giudice
per le indagini preliminari, alla formulazione delle imputazioni
sulle quali era chiamato a giudicare, in quanto aveva, per esse,
respinto la richiesta di archiviazione ed emesso il provvedimento
previsto dall’art. 554, secondo comma, del codice di procedura penale
– ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art.
34, secondo comma, dello stesso codice, assumendone il contrasto con
gli artt. 76 e 77 della Costituzione in riferimento alla direttiva n.
103 dell’art. 2 della legge delega n. 81 del 1987.
Ad avviso del giudice rimettente, nel caso di giudizio celebrato
da chi nella fase precedente ha ordinato di formulare l’imputazione
ricorrono le stesse ragioni ispiratrici delle previsioni di
incompatibilità contenute nella disposizione impugnata: sia perché
il predetto ordine comporta che sia stata già compiuta una
valutazione sostanziale dei fatti; sia perché sarebbe altrimenti
vanificata la regola, propria del nuovo codice, che impone, a
garanzia del principio di terzietà del giudice, che questi non possa
conoscere nella fase dibattimentale gli atti compiuti durante le
indagini preliminari. Del resto – osserva il rimettente – queste
stesse ragioni stanno alla base dell’incostituzionalità della stessa
norma dichiarata con la sentenza n. 496 del 1990 per il caso di
giudizio abbreviato celebrato da chi ha emesso l’ordine di formulare
l’imputazione.
2. – Con altra ordinanza emessa nella stessa udienza del 14
novembre 1990 (r.o. n. 392 del 1991), il Pretore di Livorno ha
sollevato una questione di legittimità costituzionale del medesimo
art. 34, secondo comma, c.p.p., per contrasto con gli artt. 76 e 77
della Costituzione, nella parte in cui non prevede che non possa
partecipare al giudizio dibattimentale il magistrato che in
precedenza, quale giudice per le indagini preliminari, abbia per lo
stesso fatto rigettato la richiesta di emissione di decreto penale di
condanna ai sensi degli artt. 549 e 459, terzo comma, c.p.p.: e ciò,
in riferimento ad un caso in cui il decreto penale richiesto per il
reato di emissione di assegni a vuoto (art. 116 regio decreto 21
dicembre 1933, n. 1736) non era stato emesso per essersi ritenuta
inadeguata la pena richiesta e ricorrente l’ipotesi grave prevista
dalla predetta norma incriminatrice.
L’omessa previsione dell’incompatibilità, in tale ipotesi,
confligge, secondo il Pretore rimettente, con le direttive di cui ai
nn. 67 e 103 dell’art. 2 della legge delega. Si tratterebbe, in
particolare, di una fattispecie sostanzialmente non diversa da quelle
dell’incompatibilità all’esercizio di funzioni giudicanti
espressamente prevista dallo stesso art. 34, secondo comma, per il
giudice che ha emesso il decreto penale di condanna: dato che anche
nel caso in esame il giudice ha già espresso una valutazione di
merito sull’imputazione formulata dal pubblico ministero ai fini
dell’emissione del decreto penale di condanna, ed ha avuto piena
conoscenza degli atti delle indagini preliminari, che non concorrono
invece, se non in parte, alla formazione del fascicolo per il
dibattimento. Ricorrerebbero quindi, almeno in parte, le ragioni
poste a base della citata sentenza n. 496 del 1990.
3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nei tre
predetti giudizi, tramite l’Avvocatura Generale dello Stato, con
memorie di identico tenore, pur ammettendo la sussistenza, nelle
fattispecie in esame, delle ragioni di incompatibilità evidenziate
nella predetta sentenza n. 496 del 1990, sostiene che esse, a ben
vedere, sono perfettamente equiparabili a quella del “giudice che ..
ha emesso il decreto penale di condanna”, per la quale l’art. 34
c.p.p. già prevede la sussistenza dell’incompatibilità. La
lamentata incompatibilità dovrebbe perciò ritenersi già ricompresa
nella previsione legislativa ed in questo senso le questioni
dovrebbero essere dichiarate infondate.
4. – Con ordinanza emessa all’udienza dibattimentale del 3 maggio
1991 (r.o. n. 437/1991), il Tribunale di Chieti ha sollevato, in
riferimento agli artt. 76 e 25 della Costituzione, una questione di
legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, c.p.p.,
“nella parte in cui non prevede che il giudice che abbia conosciuto
delle indagini preliminari nell’esercizio delle sue funzioni
giurisdizionali, non possa prendere parte al dibattimento”.
Rilevato di aver già, nella medesima composizione, conosciuto gli
atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero in occasione
dell’esame di un’istanza di rimessione in libertà (conclusosi col
tramutamento della custodia in carcere in arresti domiciliari), il
Tribunale richiama la sentenza di questa Corte n. 496 del 1990, nella
parte in cui si sottolinea che “nel nuovo sistema il rilievo
assegnato alla terzietà del giudice è stato significativamente
accentuato con la previsione che il giudice della fase del giudizio
non debba conoscere gli atti compiuti durante le indagini
preliminari”.
A questa stregua, pur tenendo conto che la decisione presa quale
Tribunale del riesame non è conclusiva di una fase procedimentale,
ma solo incidentale, e che la cognizione avviene allo stato degli
atti, potendosi ben ampliare nel dibattimento, l’incompatibilità
dovrebbe essere riconosciuta anche in ragione del condizionamento
derivante al giudice del dibattimento dalla piena conoscenza delle
risultanze delle indagini preliminari e dal già espresso giudizio
prognostico sulla personalità dell’imputato: e ciò,
indipendentemente da ogni questione di utilizzazione nel dibattimento
delle predette risultanze, già utilizzate nella qualità di
Tribunale del riesame.
5. – Sul rilievo che nel medesimo procedimento aveva in precedenza
respinto la richiesta di archiviazione del pubblico ministero ed
ordinato la formulazione dell’imputazione ai sensi dell’art. 409,
quinto comma, c.p.p., il Giudice per le indagini preliminari presso
il Tribunale di Messina ha sollevato, con ordinanza del 16 aprile
1991, una questione di legittimità costituzionale del medesimo art.
34, secondo comma, dello stesso codice, ravvisando una violazione
della legge di delega, e perciò degli artt. 76 e 77 della
Costituzione, nella mancata previsione, in tal caso,
dell’incompatibilità del giudice a partecipare all’udienza
preliminare.
Anche qui, il giudice rimettente trae argomento dalla sentenza di
questa Corte n. 496 del 1990, dichiarativa dell’incompatibilità del
giudice che ha ordinato di formulare l’imputazione a partecipare al
giudizio abbreviato. A suo avviso, essa dovrebbe sussistere anche
rispetto alla partecipazione all’udienza preliminare, “potendo
ritenersi – anche se in realtà non lo sia – che il giudice abbia
già scelto, una volta richiesta la formulazione della imputazione,
se disporre il rinvio a giudizio o meno”.
6. – Intervenendo nei giudizi di cui ai precedenti punti 4 e 5, il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura Generale dello Stato, si è riportato alle
conclusioni rassegnate nel giudizio instaurato con l’ordinanza n. 184
reg. ord. 1991.
In esse, l’Avvocatura rileva che, nella direttiva n. 67,
l’incompatibilitàè riferita solo al giudice del dibattimento e
sussiste solo per il compimento di taluni atti tipici costituiti
dalle decisioni “conclusive” che il giudice per le indagini
preliminari assume dopo l’esercizio dell’azione penale. L’art. 34,
secondo comma, ha ampliato l’ambito dell’incompatibilità considerato
nella delega, riferendola a qualsiasi “giudizio”; e la Corte, nella
citata sentenza, si è mantenuta in questo solco, estendendola al
giudizio abbreviato ma tenendo fermo che essa può venire in
considerazione solo rispetto alla funzione di “giudizio”.
Il giudice remittente muove, perciò, secondo l’Avvocatura, da una
premessa errata, in quanto non considera che l’udienza preliminare ha
una funzione squisitamente processuale e non può essere assimilata
ad una fase qualificabile come “giudizio”, dato che in essa il
giudice non è chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza o meno
dell’imputato, ma solo a delibare la fondatezza dell’accusa secondo
un parametro rigorosamente circoscritto alla non manifesta
superfluità del dibattimento.
Perciò, l’ordine di formulare l’imputazione, se può essere
assimilato – come ha fatto la Corte – al provvedimento conclusivo
dell’udienza preliminare ai fini dell’incompatibilità riferita al
successivo giudizio, non può valere – invertendo l’ordine del
ragionamento – come atto idoneo a precludere al medesimo giudice la
celebrazione di una udienza destinata unicamente a vagliare la
necessità del giudizio. Non conta, ad avviso dell’Avvocatura, che
dopo l’imputazione “coatta” l’esito dell’udienza possa ritenersi
prevedibile; conta, invece, che rispetto al sistema della delega
sarebbe antinomica un’incompatibilità interna alla fase, per di più
fondata su un malinteso appello alla “terzietà” del giudice.
medesima disposizione di legge. Essi vanno pertanto riuniti e decisi
con un’unica sentenza.
2. – Il Pretore di Livorno dubita, con due ordinanze di identico
tenore (r.o. nn. 390 e 391 del 1991), che l’art. 34, secondo comma,
del codice di procedura penale contrasti con la direttiva di cui al
n. 103 dell’art. 2 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 – e,
perciò, con gli artt. 76 e 77 della Costituzione – nella parte in
cui non prevede che non possa partecipare all’udienza dibattimentale
il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura che abbia
ordinato di formulare l’imputazione ai sensi dell’art. 554, secondo
comma, dello stesso codice. Secondo il giudice rimettente, ricorrono
infatti, in tal caso, le stesse ragioni di incostituzionalità di
detta disposizione poste a fondamento della sentenza n. 496 del 1990.
2.1. – La questione è fondata.
Con le sentenze nn. 496 del 1990 e 401 del 1991, questa Corte ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’impugnato art. 34,
secondo comma, nelle parti in cui non prevede che non possa
partecipare al giudizio abbreviato il giudice per le indagini
preliminari presso il tribunale o presso la pretura che – ai sensi,
rispettivamente, degli artt. 409, quinto comma, e 554, secondo comma
– abbia ordinato di formulare l’imputazione.
Rispetto al giudizio dibattimentale ricorrono le ragioni di
incompatibilità già evidenziate nelle predette pronunzie, dato che
con l’ordine di formulare l’imputazione il giudice per le indagini
preliminari compie una valutazione contenutistica dei risultati di
queste e dà anzi ex officio l’impulso determinante alla procedura
che condurrà all’emanazione di una sentenza. Di conseguenza – data
l’omologia, sotto il profilo in esame, tra il giudizio abbreviato e
l’ordinario giudizio dibattimentale (cfr. sentenza n. 401 del 1991,
cit.) – non può essere lo stesso giudice che ha già compiuto una
così incisiva valutazione di merito ad adottare la decisione
conclusiva in ordine alla responsabilità dell’imputato.
Va perciò dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.
34, secondo comma, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non
possa partecipare al giudizio dibattimentale il giudice per le
indagini preliminari presso la pretura che abbia emesso l’ordine di
cui all’art. 554, secondo comma, dello stesso codice.
Va inoltre dichiarata, in via conseguenziale, ai sensi dell’art.
27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale
del medesimo art. 34, secondo comma, nella parte in cui non prevede
che non possa partecipare al giudizio dibattimentale il giudice per
le indagini preliminari presso il tribunale che abbia emesso l’ordine
di cui all’art. 409, quinto comma, c.p.p.
3. – Lo stesso Pretore di Livorno dubita, con altra ordinanza
(r.o. n. 392 del 1991), che il citato art. 34, secondo comma,
contrasti con le direttive di cui ai nn. 67 e 103 dell’art. 2 della
legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 – e, perciò, con gli artt. 76 e
77 della Costituzione – nella parte in cui non prevede
l’incompatibilità a partecipare al giudizio dibattimentale del
giudice per le indagini preliminari presso la pretura che abbia
respinto l’istanza di emissione del decreto penale di condanna (artt.
549 e 459, terzo comma, c.p.p.) per la ritenuta inadeguatezza della
pena richiesta dal pubblico ministero (in particolare, considerando
ricorrente l’ipotesi della “maggiore gravità” del reato di emissione
di assegni a vuoto prevista dall’art. 116 del regio decreto 21
dicembre 1933, n. 1736).
Anche in questo caso, il giudice a quo sostiene che sussistono le
ragioni di incompatibilità poste a fondamento della sentenza n. 496
del 1990, dato che il magistrato chiamato a giudicare ha già
compiuto, sulla base della piena conoscenza dei risultati delle
indagini preliminari, una valutazione sul merito dell’imputazione
formulata dal pubblico ministero.
L’Avvocatura dello Stato, dal canto suo, concorda sulla ricorrenza
delle predette ragioni, ma sostiene che l’ipotesi in questione
dovrebbe ritenersi già ricompresa – perché ad essa pienamente
equiparabile – nella previsione dell’incompatibilità a partecipare
al giudizio del “giudice che .. ha emesso il decreto penale di
condanna”, già contenuta nell’impugnato art. 34, secondo comma.
3.1. – La prospettiva ora indicata dall’Avvocatura non può essere
seguita, dato che – come comunemente ritenuto, anche nel vigore del
codice di rito previgente – le cause di incompatibilità sono solo
quelle tassativamente indicate dalla legge, sicché le norme che le
prevedono non sono suscettibili di interpretazione estensiva né,
tantomeno, analogica.
Ciò premesso, la questione deve ritenersi fondata.
Nella configurazione del nuovo codice, il procedimento per decreto
viene instaurato sulla base di una motivata richiesta del pubblico
ministero, il quale ritenga che debba applicarsi soltanto una pena
pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di una pena detentiva;
e nella richiesta può essere indicata una pena diminuita sino alla
metà rispetto al minimo edittale (art. 459).
Al giudice per le indagini preliminari spetta, in base all’esame
delle relative risultanze, di accogliere ovvero rigettare tale
richiesta, senza possibilità di apportarvi modifiche; ed il
controllo che gli è demandato attiene non solo ai presupposti del
rito, ma anche al merito della richiesta, tant’è che può sfociare
nell’emissione di una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art.
129 (art. 459, terzo comma) e che, in caso di accoglimento, il
decreto di condanna deve contenere “la concisa esposizione dei motivi
di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, comprese le
ragioni dell’eventuale diminuzione di pena al di sotto del minimo
edittale” (art. 460, primo comma, lettera c)).
Tale valutazione di merito è estesa anche alla congruità della
pena al fatto contestato; ma poiché il giudice, nel decreto di
condanna, è tenuto ad applicare la pena “nella misura richiesta dal
pubblico ministero” (art. 460, secondo comma), ove egli ritenga che
sia da irrogare una pena superiore (ovvero inferiore) non può che
rigettare la richiesta e restituire gli atti allo stesso pubblico
ministero (art. 459, terzo comma).
In tali casi, la pronuncia di rigetto presuppone, evidentemente,
che il giudice abbia già risolto in senso positivo le questioni
logicamente precedenti a quella relativa alla misura della pena: che
abbia cioè ritenuto insussistenti le condizioni per l’emissione di
una sentenza di proscioglimento e, per converso, che sussistano
quelle di ammissibilità del rito speciale e, soprattutto, che le
risultanze delle indagini preliminari fossero tali da legittimare,
rispetto al reato ipotizzato dal pubblico ministero, la condanna per
decreto.
Poiché questa valutazione di merito è già stata compiuta,
l’incompatibilità va nel caso in esame riconosciuta per le medesime
ragioni che hanno indotto il legislatore a prevederla nei confronti
del giudice per le indagini preliminari che abbia emesso il decreto
penale di condanna. Nell’ipotesi considerata nel giudizio principale,
anzi, tali ragioni risultano rafforzate, perché alla suddetta
valutazione di merito si aggiunge quella sull’applicabilità di una
pena superiore a quella richiesta dal pubblico ministero.
L’art. 34, secondo comma, c.p.p. va, perciò, dichiarato
costituzionalmenteillegittimo nella parte in cui non prevede
l’incompatibilità a partecipare al giudizio del giudice per le
indagini preliminari che ha rigettato la richiesta di decreto di
condanna ritenendo inadeguata la pena richiesta dal pubblico
ministero.
4. – Sul presupposto di aver già conosciuto, nella medesima
composizione, gli atti delle indagini preliminari in occasione del
riesame, ex art. 309 c.p.p., di un provvedimento restrittivo della
libertà personale dell’imputato, il Tribunale di Chieti (r.o. n. 437
del 1991) ha sollevato, in riferimento agli artt. 76 e 25 della
Costituzione, una questione di legittimità costituzionale del citato
art. 34, secondo comma, c.p.p., nella parte in cui non prevede che
tale previa conoscenza comporti l’incompatibilità a partecipare al
dibattimento.
Ad avviso del Tribunale rimettente, l’incompatibilità dovrebbe
sussistere sia per il rilievo assegnato nel nuovo sistema processuale
alla non conoscenza, nella fase del giudizio, degli atti compiuti
durante le indagini preliminari (cfr. sentenza n. 496 del 1990), sia
per il condizionamento che dalla conoscenza di questi può derivare
al giudice del dibattimento e per il già espresso giudizio
prognostico sulla personalità dell’imputato.
4.1. – La questione non è fondata.
Quanto alla pretesa difformità dai principi della legge delega,
questa Corte ha già rilevato, nella sentenza n. 496 del 1990, la
puntuale corrispondenza tra i casi di incompatibilità enunciati
nell’art. 34, secondo comma, del codice e quelli espressamente
previsti nell’apposita direttiva (n. 67) di detta legge: con la sola
aggiunta, per identità di ratio, dell’ipotesi di decisione
sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere.
Né può trarsi argomento dalla predetta sentenza per assumere,
sul piano sistematico, che la previa conoscenza degli atti delle
indagini preliminari abbia autonomo rilievo ai fini
dell’incompatibilità. Nella citata sentenza, infatti, è stata
considerata come ragione concorrente dell’incompatibilità a
celebrare il giudizio abbreviato da parte del giudice che abbia
ordinato di formulare l’imputazione, non la mera conoscenza di tali
atti, ma la circostanza che di essi sia stata fatta una “valutazione
non formale, ma di contenuto” ed essi siano stati perciò “ritenuti
tali da rendere necessario .. il passaggio alla fase del giudizio”.
Né, d’altra parte, la garanzia costituzionale di imparzialità del
giudice (art. 25 della Costituzione) impone che sia assicurata la
diversità soggettiva tra il giudice del “giudizio” e quello chiamato
a provvedere in tema di libertà personale dell’imputato. A
prescindere dalla coincidenza o meno dei dati considerati nelle due
sedi, è decisivo il rilievo che i provvedimenti sulla libertà
personale (e, tra di essi, il riesame di misure cautelari qui
specificamente considerato) non comportano una valutazione che si
traduca – pur nei limiti della funzione propria della fase
processuale di volta in volta considerata – in un giudizio sul merito
della res judicanda, idoneo a determinare (o far apparire) un
“pregiudizio” che mini l’imparzialità della decisione conclusiva
sulla responsabilità dell’imputato. Rispetto a questa, infatti, i
provvedimenti in tema di libertà si caratterizzano per diversità di
oggetto e di funzione, dato che la relativa valutazione, puramente
indiziaria, mira alla (e si esaurisce nella) verifica delle
condizioni che ne legittimano la provvisoria restrizione; e ciò
tanto più in un sistema, come quello vigente, che subordina tale
restrizione a precisi e ben determinati presupposti e finalità, che
ne circoscrivono al massimo l’ambito applicativo (cfr. artt. 273, 274
c.p.p.).
5. – Sul rilievo che nel medesimo procedimento aveva in precedenza
respinto la richiesta di archiviazione del pubblico ministero ed
ordinato la formulazione dell’imputazione ai sensi dell’art. 409,
quinto comma, c.p.p., il Giudice per le indagini preliminari presso
il Tribunale di Messina dubita, in riferimento agli artt. 76 e 77
della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 34,
secondo comma, c.p.p. nella parte in cui non prevede, in tal caso,
l’incompatibilità del giudice a partecipare all’udienza preliminare.
Tale questione è già stata dichiarata non fondata con la
sentenza n. 401 del 1991; e dato che il giudice rimettente non
prospetta argomenti o profili nuovi, essa va dichiarata
manifestamente infondata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi:
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34,
secondo comma, del c.p.p., nella parte in cui non prevede che non
possa partecipare al giudizio dibattimentale il giudice per le
indagini preliminari presso la pretura che abbia emesso l’ordinanza
di cui all’art. 554, secondo comma, dello stesso codice;
2) dichiara in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27 della
legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale del
medesimo art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale,
nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio
dibattimentale il giudice per le indagini preliminari presso il
tribunale che abbia emesso l’ordinanza di cui all’art. 409, quinto
comma, dello stesso codice;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dello stesso art.
34, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui
non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio del giudice
per le indagini preliminari che ha rigettato la richiesta di decreto
di condanna;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del codice di procedura
penale, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al
giudizio il giudice che abbia proceduto al riesame delle ordinanze
che dispongono una misura coercitiva ai sensi dell’art. 309 dello
stesso codice, in riferimento agli artt. 76 e 25 della Costituzione,
sollevata dal Tribunale di Chieti con ordinanza del 3 maggio 1991;
5) dichiara la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale del medesimo art. 34, secondo comma,
nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice per le
indagini preliminari presso il tribunale che ha emesso l’ordinanza di
cui al predetto art. 409, quinto comma, a partecipare all’udienza
preliminare, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 77 della
Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il
Tribunale di Messina con ordinanza del 16 aprile 1991.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 1991.
Il Presidente: CORASANITI
Il redattore: SPAGNOLI
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1991.
Il direttore della cancelleria: MINELLI