Sentenza N. 505 del 1995
Corte Costituzionale
Data generale
14/12/1995
Data deposito/pubblicazione
14/12/1995
Data dell'udienza in cui è stato assunto
11/12/1995
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Francesco GUZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY;
comma, della legge 3 febbraio 1963, n. 69 (Ordinamento della
professione di giornalista), promosso con ordinanza emessa il 4
ottobre 1994 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da
Pietroni Paolo contro il Consiglio nazionale dell’Ordine dei
giornalisti ed altri, iscritta al n. 310 del registro ordinanze 1995
e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 23, prima serie speciale,
dell’anno 1995;
Visti gli atti di costituzione di Pietroni Paolo e del Consiglio
nazionale dell’Ordine dei giornalisti, nonché l’atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 7 novembre 1995 il Giudice relatore
Fernando Santosuosso;
Uditi l’avv. Corso Bovio per Pietroni Paolo e l’Avvocato dello
Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, avente ad oggetto la
cassazione della sentenza emessa dalla Corte d’appello di Milano, con
la quale, in riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di
Milano, era stata confermata la sanzione disciplinare della censura
irrogata al Pietroni a seguito di procedimento disciplinare, la Corte
di cassazione, con ordinanza emessa in data 4 ottobre 1994, ma
pervenuta alla Corte costituzionale l’8 maggio 1995, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, primo comma e 24, secondo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 56,
secondo comma, della legge 3 febbraio 1963, n. 69 (Ordinamento della
professione di giornalista), nella parte in cui non prevede che il
giornalista incolpato possa partecipare alla fase istruttoria
indicando testimoni a discarico.
A parere del giudice a quo, posto che l’attività istruttoria del
Consiglio può consistere anche nell’interrogatorio delle persone
informate sui fatti, precludere all’incolpato la possibilità di
contrastare la formazione delle prove a suo carico attraverso
l’indicazione di testi a discarico, comporta una non completa
attuazione del diritto di difesa.
Secondo il rimettente anche il principio di uguaglianza sarebbe
violato dal momento che per altri ordini professionali, e in
particolare per l’ordinamento forense approvato con il r.d. 22
gennaio 1934, n. 37, il legislatore ha predisposto strumenti che
tutelano compiutamente l’incolpato nella fase istruttoria del
procedimento disciplinare.
2. – Nel giudizio avanti alla Corte costituzionale si è costituito
Paolo Pietroni insistendo per la declaratoria di illegittimità
costituzionale della norma impugnata.
La difesa ha in particolare osservato che la non prevista
partecipazione del giornalista incolpato alla fase istruttoria del
procedimento disciplinare determina un’ingiustificata disparità di
trattamento rispetto agli avvocati, ai quali l’art. 48 del r.d. 22
gennaio 1934, n. 37 consente di assistere all’escussione dei testi
d’accusa.
3. – Si è pure costituito il Consiglio nazionale dell’Ordine dei
giornalisti concludendo per la non fondatezza della questione.
Con riguardo alla denunciata violazione dell’art. 24 della
Costituzione, ha rilevato la difesa che dalla natura amministrativa
del procedimento disciplinare discende che in detti procedimenti non
è necessaria l’applicazione pedissequa di tutte le norme processuali
del codice di rito, essendo sufficiente garantire all’incolpato un
effettivo diritto di difesa che nel caso di specie risulta assicurato
dal deposito delle risultanze istruttorie e dalla possibilità per
l’incolpato di controdedurre.
Né sarebbe sussistente la denunciata violazione dell’art. 3 della
Costituzione in quanto la natura amministrativa del procedimento
disciplinare legittima valutazioni diverse del legislatore in merito
alle caratteristiche dei vari procedimenti disciplinari.
4. – Ha spiegato intervento anche il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, concludendo per la non fondatezza della questione.
La difesa erariale ha in particolare osservato che il denunciato
deteriore trattamento dei giornalisti rispetto alle altre categorie
professionali è da ritenersi insussistente in quanto la
partecipazione dell’incolpato alla escussione dei testimoni non è
allo stato attuale della legislazione un principio uniformemente
applicato, tant’è che la legge sull’Ordinamento del notariato,
nonché gli Ordinamenti delle professioni di psicologo, ingegnere e
architetto e di dottore commercialista non contemplano la
partecipazione dell’incolpato alla fase dell’istruzione sommaria del
procedimento disciplinare.
Né sarebbe violato l’art. 24 della Costituzione in quanto
all’incolpato sono assicurati adeguati strumenti di difesa, con la
conseguenza che la mancata presenza di quest’ultimo all’escussione
dei testi non può essere ritenuta tale da compromettere in misura
apprezzabile il diritto di difesa.
5. – In prossimità dell’udienza la difesa della parte privata ha
presentato memoria insistendo per l’accoglimento della sollevata
questione di legittimità costituzionale.
56, secondo comma, della legge 3 febbraio 1963, n. 69 (Ordinamento
della professione di giornalista), nella parte in cui non consente al
giornalista incolpato di partecipare alla fase istruttoria del
procedimento disciplinare a suo carico, sia in contrasto:
con l’art. 3, primo comma, della Costituzione, determinando
un’ingiustificata disparità di trattamento fra i giornalisti e gli
appartenenti ad altre categorie professionali, specie gli avvocati e
i procuratori legali, ai quali, ex art. 48 del r.d. 22 gennaio 1934,
n. 37, è consentito di assistere alla escussione dei testi d’accusa;
con l’art. 24, secondo comma, della Costituzione in quanto
l’impossibilità di partecipare alla fase istruttoria del
procedimento disciplinare comporta una non completa attuazione del
diritto di difesa.
2. – Il giudice rimettente fonda le proprie censure sul rilievo
che, potendo l’istruttoria del Consiglio regionale dell’ordine
risolversi, come nel caso in esame, nell’interrogatorio di persone
informate dei fatti, all’indiziato di illecito disciplinare viene
preclusa la possibilità di contrastare gli elementi a carico con la
richiesta di chiarimenti o con la deduzione di prove a discarico,
essendogli consentita soltanto una difesa ex post e unicamente con
dichiarazioni verbali e con il deposito di documenti e memorie che
non rendono completa l’attuazione del diritto di difesa.
3. – La questione non è fondata, potendosi dare, nei sensi di cui
più avanti si dirà, un’interpretazione del contesto normativo tale
da escludere i motivi di illegittimità costituzionale invocati in
questa sede.
Non sussiste, anzitutto, violazione dell’art. 3 della Costituzione
sotto il profilo della disparità di trattamento della categoria dei
giornalisti rispetto a quelle di altri professionisti. In proposito
va rilevato che le normative relative alle diverse categorie
professionali presentano aspetti notevolmente differenziati in
conseguenza, tra l’altro, delle differenti epoche in cui sono state
emanate, sì da rendere auspicabile un intervento del legislatore
volto a realizzare nella materia disciplinare un più coerente
coordinamento normativo per quanto concerne gli aspetti
procedimentali. Ma è altrettanto evidente che ci si trova di fronte
ad ordinamenti speciali, fra loro non comparabili e tanto meno
equiparabili, data la disomogeneità delle varie categorie,
caratterizzate da proprie fisionomie e particolari esigenze.
Poiché il giudice a quo fa specifico riferimento alla disciplina
relativa agli avvocati e procuratori legali, basterebbe, per ritenere
non conferente il tertium comparationis richiamato, considerare tra
l’altro che a questi professionisti è affidato dalla legge il
compito dell’assistenza tecnica necessaria all’espletamento della
funzione giurisdizionale, sul regolare esercizio della quale possono
incidere, in certa misura, alcuni provvedimenti disciplinari, quali
la sospensione o la radiazione.
Va pertanto ribadito quanto già più volte rilevato da questa
Corte, e cioè che l’esercizio della funzione disciplinare
nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere
professioni si esprime con modalità diverse, che caratterizzano i
relativi procedimenti a volte come amministrativi, altre volte come
giurisdizionali, in relazione alle predette peculiarità – derivanti
anche da ragioni storiche – proprie dei diversi settori ovvero in
rispondenza a scelte del legislatore, la cui discrezionalità in
materia di responsabilità disciplinare spazia entro un ambito molto
ampio (sentenze nn. 71 e 119 del 1995).
4. – Nemmeno può ravvisarsi un contrasto della norma impugnata con
i principi costituzionali fissati dall’art. 24 della Costituzione.
Va in proposito premesso che nella presente questione il problema
si concentra sulla ammissibilità della richiesta del giornalista di
partecipare – di persona o a mezzo di difensore – limitatamente a
quella fase del procedimento disciplinare che si svolge dinanzi al
Consiglio regionale dell’ordine professionale, in cui si procede alla
raccolta delle prove a carico dell’incolpato, e sulla conseguente
possibilità per lo stesso di indicare prove a discarico.
Questa Corte ha in più occasioni affermato che alla fase
procedimentale ora indicata deve attribuirsi natura amministrativa
(ordinanze nn. 387 del 1995 e 113 del 1990; sentenze nn. 114 del
1970 e 110 del 1967) e che le garanzie costituzionali previste
dall’art. 24 della Costituzione per il diritto di difesa non sono
operanti con riguardo ai procedimenti amministrativi (da ultimo
sentenze nn. 210 e 312 del 1995).
5. – Vero è che il principio del giusto procedimento
amministrativo “non è assistito in assoluto da garanzia
costituzionale”, nemmeno in base all’art. 97 della Costituzione
(così l’ordinanza n. 503 del 1987). Tuttavia questa Corte, fermo
restando che la discrezionalità del legislatore nel regolare i
procedimenti disciplinari non può comunque superare il limite della
ragionevolezza, ha rilevato le affinità delle diverse procedure
disciplinari, sottolineando “come il procedimento che si tiene
dinanzi ai consigli amministrativi di disciplina offre numerosi punti
di contatto con i procedimenti giudiziari, tanto che la regola è la
conformità del primo a questi” (sentenza n. 71 del 1995).
La recente sentenza ora richiamata stabilisce altresì che “tale
accostamento trova ragione nella natura sanzionatoria delle “pene
disciplinari” , che sono destinate ad incidere sullo stato della
persona nell’impiego o nella professione. L’irrogazione di queste
sanzioni, che toccano le condizioni di vita della persona incidendo
sulla sua sfera lavorativa, richiede il rispetto di garanzie nella
contestazione degli addebiti, nell’istruttoria, nella partecipazione
dell’interessato al procedimento, nella valutazione e nel giudizio,
in attuazione di principi spesso elaborati prima dalla dottrina e
dalla giurisprudenza e poi legislativamente definiti”.
6. – Da queste considerazioni, nonché dalla ratio che è alla base
di numerose norme – tra le quali l’art. 6 della Convenzione dei
diritti dell’uomo, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848,
la legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo, le
norme sui ricorsi amministrativi (da ultimo d.P.R. 24 novembre 1971,
n. 1199), gli artt. 111 e 112 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3
(Testo unico degli impiegati civili dello Stato) – può desumersi che
nella vigente disciplina del procedimento amministrativo – sia del
nostro ordinamento che di quello comunitario (regolamento CEE n.
99/63 del 25 luglio 1963, artt. 2 e 3) – trovano diretta e necessaria
applicazione i principi relativi al diritto dell’interessato di
conoscere gli atti che lo riguardano, una sua, pur limitata,
partecipazione alla formazione degli stessi, e soprattutto la
possibilità dell’interessato medesimo di contestarne il fondamento e
difendersi di fronte agli addebiti che gli vengono mossi. Tali
principi, comuni a tutti i procedimenti amministrativi, devono ancor
più trovare applicazione nello speciale procedimento finalizzato
all’accertamento della responsabilità disciplinare, atteso che esso
può comportare conseguenze che incidono sull’esercizio di
fondamentali diritti da parte dei soggetti coinvolti.
7. – Alla stregua delle argomentazioni sopra svolte, è possibile
concludere interpretando la norma impugnata nel senso che, ove il
Consiglio regionale dell’ordine si limiti a preliminari “sommarie
informazioni”, devono ritenersi sufficienti la comunicazione
dell’inizio del procedimento e l’invito all’interessato a
“comparire”. Ma quando l’istruttoria prosegua in quella sede per
l’accertamento dei “fatti” attraverso la raccolta di prove, la norma,
pur non prevedendo la presenza dell’interessato o del suo difensore
nel momento dell’assunzione delle prove a carico, contempla tuttavia
per l'”incolpato” forme di contraddittorio e di difesa, stabilendo
che i fatti gli siano specificamente “addebitati” e riconoscendo
all’incolpato stesso un congruo termine, non solo per essere sentito,
ma soprattutto per provvedere alla sua “discolpa”, come previsto
dalla norma impugnata. Affinché tale facoltà possa efficacemente
realizzarsi è necessario sul piano logico-giuridico che essa
comprenda la confutabilità delle prove su cui si fondano i pretesi
illeciti, previa possibilità di visione dei verbali e di utilizzo di
ogni strumento di difesa, non solo attraverso memorie illustrative ma
anche con la presentazione di nuovi documenti o con la deduzione di
altre prove (compresa la richiesta di risentire testimoni su fatti e
circostanze specifiche rilevanti ed attinenti alle contestazioni),
che non possono considerarsi precluse.
L’organo disciplinare sarà tenuto a pronunciarsi motivando sulle
richieste probatorie, in modo da rendere possibile, nella successiva
eventuale fase di tutela giurisdizionale, una verifica sulla
completezza e sufficienza della istruttoria disciplinare e sul
rispetto dei principi in materia di partecipazione e difesa
dell’incolpato.
Queste garanzie rispondono ad esigenze minime di ragionevolezza,
sia per la gravità delle conseguenze personali che le sanzioni
disciplinari, ma anche la sola pendenza del procedimento, determinano
– già dalla prima fase della procedura – sui diritti del
giornalista, sia per l’interesse pubblico alla completezza della
istruttoria, alla correttezza ed imparzialità del procedimento
amministrativo disciplinare.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 56, secondo comma, della
legge 3 febbraio 1963, n. 69 (Ordinamento della professione di
giornalista), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e
24, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’11 dicembre 1995.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Santosuosso
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in Cancelleria il 14 dicembre 1985.
Il direttore della cancelleria: Di Paola