Sentenza N. 518 del 1991
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1991
Data deposito/pubblicazione
30/12/1991
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/12/1991
Presidente: dott. Aldo CORASANITI;
Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo
CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,
avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.
Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI;
della Regione Lazio 3 febbraio 1982, n. 7 (Assistenza negli istituti
psichiatrici privati) e degli artt. 5, secondo comma, lettera a), 11,
secondo comma, 12, e 14, penultimo comma, della legge della Regione
Lazio 14 luglio 1983, n. 49 (Organizzazione del servizio
dipartimentale di salute mentale), promosso con ordinanza emessa il
22 gennaio 1991 dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a
carico di Panizzi Gabriele ed altri iscritta al n. 341 del registro
ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 22, prima serie speciale, dell’anno 1991;
Visto l’atto di costituzione di Panizzi Gabriele ed altri, nonché
l’atto di intervento della Regione Lazio;
Udito nell’udienza pubblica del 19 novembre 1991 il Giudice
relatore Antonio Baldassarre;
Uditi gli Avvocati Giuseppe Gianzi per Panizzi Gabriele ed altri e
Giorgio Recchia per la Regione Lazio;
della Giunta regionale del Lazio, chiamati a rispondere del reato di
peculato per distrazione ai sensi del previgente art. 314 c.p. (la
cui fattispecie è confluita nel vigente art. 323 c.p., relativa
all’abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla
legge), il Tribunale di Roma, con l’ordinanza indicata in epigrafe,
ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1
della legge della Regione Lazio 3 febbraio 1982, n. 7 (Assistenza
negli istituti psichiatrici privati), e degli artt. 5, secondo comma,
lettera a), 11, secondo comma, 12, e 14, penultimo comma, della legge
della Regione Lazio 14 luglio 1983, n. 49 (Organizzazione del
servizio dipartimentale di salute mentale), nella parte in cui
consentono convenzioni con istituti privati, che svolgano
esclusivamente attività psichiatrica, oltre il termine del 31
dicembre 1981, fissato dagli artt. 64, secondo comma, della legge 23
dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale),
e 3 del decreto-legge 30 aprile 1981, n. 168 (Misure urgenti in
materia di assistenza sanitaria), convertito nella legge 27 giugno
1981, n. 331.
Premesso che la condotta degli imputati dovrebbe esser ritenuta
delittuosa perché in contrasto con il disposto delle leggi statali
da ultimo citate, in forza del quale le convenzioni tra enti pubblici
e istituti di cura privati svolgenti esclusivamente attività
psichiatrica dovevano improrogabilmente risolversi entro il 31
dicembre 1981, il giudice a quo osserva che il contrasto con tali
norme, più volte qualificate da questa Corte come principi
fondamentali, da parte delle leggi regionali prima indicate, le quali
protraggono le predette convenzioni oltre il termine del 31 dicembre
1981, impone che si sollevi questione di costituzionalità delle
menzionate leggi regionali. Tale questione, infatti, non potrebbe
esser considerata priva di rilevanza, continua il giudice a quo,
poiché, in base alla sentenza n. 148 del 1983 di questa Corte sul
controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, la
risoluzione della sollevata questione, pur se unitamente a tutti gli
elementi oggettivi e soggettivi dei reati in esame, non potrebbe non
influire sulla decisione del processo a quo, considerato che le leggi
regionali in esame potrebbero essere ritenute derogative della
disciplina statale, così da ampliare la sfera di liceità
nell’attività dei pubblici ufficiali e da incidere, quindi, sul
dispositivo della sentenza penale o, quantomeno, sulla formula di
proscioglimento.
2. – Si sono costituite in giudizio le parti private per chiedere
che la questione di costituzionalità sia dichiarata irrilevante o,
comunque, infondata.
La difesa delle parti private osserva, in punto di rilevanza, che,
qualunque possa essere l’esito del giudizio di costituzionalità,
nessun abuso di ufficio potrebbe essere ritenuto a carico degli
imputati, considerato che costoro hanno esercitato funzioni di membri
della Giunta regionale del Lazio in adempimento e in esecuzione delle
leggi regionali sospettate di incostituzionalità, dando, oltretutto,
a queste ultime l’interpretazione che lo stesso giudice a quo
riconosce come esatta e pertinente. Nessun valore di precedente,
pertanto, potrebbe riconoscersi, sotto questo aspetto, alla sentenza
n. 148 del 1983 di questa Corte.
In ogni caso, continua la predetta difesa, la questione sollevata
è infondata, poiché le leggi regionali, tenuto conto della
particolare realtà del Lazio, caratterizzata dalla presenza di
numerosi ostacoli pratici all’attuazione della riforma delle case di
cura psichiatriche, contengono una disciplina transitoria, dettata
dall’insufficienza delle strutture pubbliche esistenti e diretta al
necessario adeguamento delle finalità di assistenza psichiatrica
presenti nella legge di riforma sanitaria alla reale situazione locale.
3. – La Regione Lazio si è costituita in giudizio solo
formalmente, riservandosi ogni controdeduzione nei successivi atti
difensivi.
In prossimità dell’udienza la Regione ha presentato una ampia
memoria difensiva per chiedere che la questione sia dichiarata non
fondata, sul presupposto che il valore costituzionale dell’assistenza
ai malati, garantito dagli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione,
verrebbe vulnerato ove i degenti delle case di cura private ne
fossero espulsi senza un sicuro ricovero presso le istituzioni
pubbliche. Ciò dovrebbe indurre a considerare ordinatorio il termine
previsto nell’art. 64, come mostrerebbe anche la prassi di altre
regioni e la stessa legislazione statale.
Giunta regionale del Lazio, imputati di abuso innominato di ufficio
(art. 323 c.p.), il Tribunale di Roma ha sollevato, con l’ordinanza
indicata in epigrafe, questione di legittimità costituzionale
avverso l’art. 1 della legge della Regione Lazio 3 febbraio 1982, n.
7 (Assistenza negli istituti psichiatrici privati), e gli artt. 5,
secondo comma, lettera a), 11, secondo comma, 12, e 14, penultimo
comma, della legge della Regione Lazio 14 luglio 1983, n. 49
(Organizzazione del servizio dipartimentale di salute mentale), nella
parte in cui consentono convenzioni con istituti privati, i quali
svolgono esclusivamente attività psichiatrica, oltre il termine del
31 dicembre 1981, contenuto nell’art. 64, secondo comma, della legge
23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario
nazionale), come modificato dall’art. 3 del decreto-legge 30 aprile
1981, n. 168 (Misure urgenti in materia di assistenza sanitaria),
convertito dalla legge 27 giugno 1981, n. 331. Le disposizioni
impugnate, secondo il giudice a quo, nel porsi in contrasto con il
predetto art. 64, violerebbero un principio fondamentale della
materia sanitaria, che, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione,
costituisce un limite alla potestà legislativa concorrente delle
regioni.
2. – La questione è inammissibile perché irrilevante.
Nell’argomentare in punto di rilevanza, il giudice a quo afferma
che la condotta degli imputati dovrebbe essere considerata delittuosa
in quanto si è svolta in contrasto con l’art. 64 della legge n. 833
del 1978, come modificato dall’art. 3 del decreto-legge n. 168 del
1981, che contiene il principio fondamentale in base al quale le
convenzioni tra enti pubblici e istituti di cura privati svolgenti
esclusivamente attività psichiatrica dovevano risolversi
improrogabilmente entro il 31 dicembre 1981. Ma, aggiunge lo stesso
giudice, in contrasto con ciò si pongono le disposizioni di legge
regionale impugnate, che ammettono proroghe a quel termine. Poiché,
tuttavia, la disciplina ivi prevista violerebbe il limite della
competenza legislativa regionale, costituito dal predetto principio
fondamentale stabilito dalle leggi statali e sarebbe, quindi, viziata
d’illegittimità costituzionale, un’eventuale pronunzia di questa
Corte sulla stessa potrebbe influenzare la risoluzione da dare al
giudizio penale o, quantomeno, potrebbe incidere sulla formula di
proscioglimento da adottare, nel senso che potrebbe avere la
conseguenza di ampliare la sfera di liceità penale relativa alle
attività contestate ovvero di mutare i termini legali sulla base dei
quali occorre valutare il comportamento degli imputati.
Il ragionamento svolto dal giudice a quo non è fondato.
Al fine di accertare se la condotta degli imputati possa essere
configurata come attività penalmente illecita, ascrivibile al reato
di abuso innominato d’ufficio, non ha alcun rilievo l’eventualità
che la legge che questi dovevano applicare potesse essere ritenuta
costituzionalmente illegittima. Dal momento che il dubbio di
costituzionalità sulla legge applicabile non autorizza, né,
tantomeno, obbliga i pubblici amministratori a sospendere
l’applicazione della legge medesima o a disapplicarla, non può
considerarsi penalmente rilevante un comportamento degli stessi
amministratori posto in essere in conformità di una legge che sia
ritenuta, in ipotesi, costituzionalmente illegittima. Nel nostro
ordinamento, infatti, nel caso che una disposizione legislativa sia
sospettata d’illegittimità costituzionale, soltanto il giudice ha il
potere-dovere di sospenderne l’applicazione, proponendo, con
ordinanza, alla Corte costituzionale la risoluzione della relativa
questione, sempreché quest’ultima, a norma dell’art. 23 della legge
11 marzo 1953, n. 87, sia da esso considerata come “non
manifestamente infondata” e “rilevante”.
In altri termini, con riferimento al caso di specie, non può
imputarsi agli amministratori regionali di aver commesso un abuso per
il fatto di aver applicato una legge regionale vigente ed efficace,
anche se in ipotesi costituzionalmente illegittima perché in
contrasto con un principio fondamentale stabilito in materia dalla
legislazione statale. Infatti, sulla base dei criteri attinenti alla
ripartizione delle competenze legislative tra Stato e regioni e al
conseguente rapporto tra le relative fonti normative, è la legge
regionale, di cui il giudice a quo contesta la costituzionalità, a
dover esser considerata la legge applicabile. È, pertanto, nei
confronti di quest’ultima che prende corpo, per gli amministratori
regionali imputati, il dovere costituzionale della loro
incontestabile soggezione alla legge.
Sulla base delle considerazioni svolte, si deve, dunque, escludere
che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia
rilevante. Infatti, poiché ai fini dell’accertamento della
responsabilità penale degli amministratori regionali imputati di
abuso innominato di ufficio non può aver alcun rilievo la presunta
illegittimità costituzionale delle disposizioni di legge regionale
impugnate, l’eventuale pronunzia di questa Corte non potrebbe
esercitare alcuna influenza sul giudizio a quo, neppure con riguardo
alla formula di proscioglimento.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 3 febbraio 1982, n. 7
(Assistenza negli istituti psichiatrici privati), e degli artt. 5,
secondo comma, lettera a), 11, secondo comma, 12, e 14, penultimo
comma, della legge della Regione Lazio 14 luglio 1983, n. 49
(Organizzazione del servizio dipartimentale di salute mentale), nella
parte in cui consentono convenzioni con istituti privati, che
svolgano esclusivamente attività psichiatrica, oltre il termine del
31 dicembre 1981, sollevata, con l’ordinanza indicata in epigrafe,
dal Tribunale di Roma, in riferimento all’art. 117 della
Costituzione, come attuato dall’art. 64, secondo comma, della legge
23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario
nazionale), e dall’art. 3 del decreto-legge 30 aprile 1981, n. 168
(Misure urgenti in materia di assistenza sanitaria), convertito dalla
legge 27 giugno 1981, n. 331.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 1991.
Il presidente: CORASANITI
Il redattore: BALDASSARRE
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1991.
Il direttore della cancelleria: MINELLI