Sentenza N. 518 del 2000
Corte Costituzionale
Data generale
21/11/2000
Data deposito/pubblicazione
21/11/2000
Data dell'udienza in cui è stato assunto
15/11/2000
Francesco GUIZZI, Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI, Cesare RUPERTO,
Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo
MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
penale, promosso con ordinanza emessa il 28 gennaio 1998 dal giudice
per le indagini preliminari presso il tribunale di Salerno nel
procedimento penale a carico di G. L. e altra, iscritta al n. 698 del
registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 40, 1ª serie speciale, dell’anno 1998. Udito nella
camera di consiglio del 27 settembre 2000 il giudice relatore Gustavo
Zagrebelsky.
dell’udienza preliminare, il giudice per le indagini preliminari
presso il tribunale di Salerno ha sollevato, in riferimento agli
artt. 2, 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 564
del codice penale, “nella parte in cui punisce, qualificandolo come
incestuoso, il rapporto sessuale e/o sentimentale tra affini in linea
retta”.
2. – Nel giudizio principale si procede nei confronti di due
persone, rispettivamente suocero e nuora, per il reato di cui
all’art. 564, secondo comma, cod. pen., perché – secondo
l’imputazione – essendo tra loro affini in linea retta, hanno
instaurato una relazione incestuosa in modo da farne derivare
pubblico scandalo. All’esito delle indagini e dell’udienza
preliminare, osserva il rimettente, le fonti di prova acquisite
risultano sufficienti ai fini del rinvio a giudizio degli imputati,
per il reato loro contestato; ma riguardo alla norma incriminatrice
il giudice di merito prospetta dubbi di costituzionalità, rilevanti
in quanto non sussistono le condizioni per una pronuncia di non luogo
a procedere a norma dell’art. 425 cod. proc. pen.
3. – Il giudice rimettente osserva che stabilire una sanzione
penale per determinate condotte è indubbiamente una scelta che
compete al legislatore nella sua discrezionalità, della quale,
proprio in tema di incesto, storicamente risultano numerose
manifestazioni, ad esempio nella legislazione penale preunitaria.
Ma – prosegue il rimettente – è altrettanto vero che le scelte
del legislatore in materia di incriminazioni sono controllabili, in
sede di giudizio di costituzionalità, secondo il criterio di
ragionevolezza; un criterio, questo, che nell’ordinanza di rimessione
è individuato attraverso il testuale richiamo di enunciati della
Corte costituzionale che di esso hanno definito i contenuti,
relativamente alla materia della legge penale sostanziale: a)
la necessità che la previsione incriminatrice, anche se “…
presumibilmente idonea a raggiungere finalità statuali di
prevenzione, non produca, attraverso la pena, danni ai diritti
fondamentali dell’individuo ed alla società
sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (e da ottenere)
… con la tutela dei beni e dei valori offesi” (così la sentenza
n. 409 del 1989, richiamata nella successiva n. 341 del 1994);
b) l’esigenza che “… la pena sia proporzionale al disvalore
del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio
adempia, nel contempo, alla funzione di difesa sociale e a quella di
tutela delle posizioni individuali”.
Inoltre, il giudice a quo in relazione al parametro della
finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, della
Costituzione), richiama la necessaria proporzione tra la qualità e
l’entità delle pene, da un lato, e l’offesa recata dal fatto,
dall’altro (secondo le indicazioni delle sentenze nn. 313 del 1990,
343 del 1993 e 341 del 1994). Nella verifica del rispetto del
canone di ragionevolezza, aggiunge il rimettente, sono stati inoltre
valorizzati dalla Corte elementi di indagine storico-comparatistica
(così nella sentenza n. 341 del 1994), ovvero è stata rilevata
l’incongruenza tra il comune sentire di un certo tempo – la
“coscienza sociale” – e l’incriminazione di certi fatti, e ciò sia
sul piano della quantità della pena (ancora la sentenza n. 341), sia
su quello della stessa tipologia dell’incriminazione (sentenza n. 519
del 1995). Alla luce di tali enunciati della giurisprudenza
costituzionale, il giudice di merito dubita, sul piano
costituzionale, che la compressione della libertà personale –
diritto inviolabile della persona (art. 13, primo comma, in relazione
all’art. 2 della Costituzione) – che consegue al reato in discorso
possa dirsi proporzionata e giustificata rispetto ai beni che la
fattispecie penale mira a tutelare. Quest’ultima, osserva il
giudice a quo non può certo dirsi dettata dalla ratio di evitare
relazioni sessuali tra consanguinei, poiché gli affini tali non
sono, né dall’obiettivo di tutela dell’unità e integrità della
famiglia in sé considerata, giacché la sanzione penale è
applicabile solo se alla condotta di incesto segue il “pubblico
scandalo”, requisito in mancanza del quale – indipendentemente dalla
sua qualificazione giuridica come elemento della condotta o come
condizione obiettiva di punibilità ex art. 44 cod. pen. – l’incesto
non è punibile. Se ne desume, prosegue il rimettente, che
l’incriminazione in argomento, relativamente agli affini, assume
quale proprio oggetto di tutela l’obbligo di fedeltà coniugale, in
quanto il rapporto di affinità sorge come conseguenza di un rapporto
coniugale; e la fedeltà coniugale non è neppure tutelata in modo
assoluto, perché, come già accennato, è richiesto che si verifichi
il “pubblico scandalo”, cosicché può dirsi conclusivamente che lo
scopo della fattispecie incriminatrice è quello della “tutela del
valore sociale che alla fedeltà coniugale viene attribuito”. Ma
l’obbligo di fedeltà coniugale non potrebbe dirsi oggi un bene
fondamentale sul piano costituzionale, come dimostrerebbero le
pronunce della Corte in tema di reati di adulterio e di concubinato
(sentenze nn. 126 del 1968 e 147 del 1969); appare dunque
sproporzionato e irragionevole il sacrificio della libertà personale
rispetto a una ipotetica tutela di un sentimento collettivo di
riprovevolezza che, nel tempo attuale, non sembra più sostenibile,
posto che non vengono in rilievo né i legami di consanguineità né
l’unità familiare in sé considerata ma, al più, l'”immagine” del
contesto e dei rapporti familiari quali si presentano all’esterno. La
punizione dell’incesto tra affini risulta così rispondente a una
concezione che ha riguardo all'”apparire” della famiglia, vista come
cellula etica e autoritaria in seno a una società che tuttavia non
risponde più nel suo complesso a questa impostazione. Del resto,
più in generale non sembra al rimettente comunque possibile
giustificare oggi una sanzione penale solo alla stregua di concezioni
etiche o religiose, come dimostrerebbero le normative in tema di
divorzio, di aborto, di transessualità. Da ultimo, si osserva
nell’ordinanza di rinvio che la norma denunciata contiene una
ulteriore incongruenza: essa punisce il rapporto tra affini in linea
retta, ma non quello tra zio e nipote, che pure sono legati da
vincoli di sangue e che sono considerati, agli effetti della legge
penale, quali “prossimi congiunti” (art. 307, secondo comma, cod.
pen.).
Salerno dubita della legittimità costituzionale dell’art. 564 del
codice penale, nella parte in cui punisce – con la reclusione da uno
a cinque anni – chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo,
commette incesto con un affine in linea retta. La disposizione
denunciata violerebbe gli artt. 2, 3, primo comma, 13, primo comma, e
27, terzo comma, della Costituzione.
Ad avviso del rimettente, l’incriminazione dell’incesto tra
affini in linea retta (nella specie: suocero e nuora) sarebbe viziata
per irragionevolezza sotto vari profili, con riferimento ai principi
che le norme costituzionali evocate esprimono e alla luce dei limiti
di discrezionalità del legislatore penale elaborati dalla
giurisprudenza di questa Corte. Il giudice rimettente,
innanzitutto, esclude che la ragion d’essere della figura di reato
prevista dall’art. 564, primo comma, del codice penale possa essere
individuata nell’intento di evitare una possibile commixtio
sanguinis. La fattispecie incriminatrice abbraccia infatti anche il
fatto commesso tra non consanguinei (gli affini in linea retta, per
l’appunto) e non quello fra zio e nipote, soggetti tra i quali esiste
invece un rapporto di consanguineità. Ad avviso del rimettente, poi,
essendo la punibilità dell’incesto subordinata al verificarsi del
pubblico scandalo, si dovrebbe escludere anche che il bene protetto
sia l’unità e l’integrità della famiglia come valore concreto.
Poiché l’incesto dal quale non derivi pubblico scandalo resta
confinato tra le relazioni interpersonali prive di rilevanza per la
legge penale, se ne dovrebbe inferire che la norma che lo prevede
come reato protegge esclusivamente l’immagine esteriore della
famiglia, in corrispondenza con una concezione etica e autoritaria
della famiglia stessa e della vita in società, non conforme al
sistema dei diritti di libertà previsti dalla Costituzione.
Sempre ad avviso del giudice rimettente, la norma denunciata
sarebbe altresì irragionevole per violazione del limite della
discrezionalità legislativa, tanto sotto il profilo della necessaria
proporzione tra il valore del bene protetto e il valore della
libertà individuale (artt. 13, primo comma, e 2 della Costituzione)
(sentenze nn. 409 del 1989 e 341 del 1994) quanto rispetto alla
finalità rieducativa della sanzione penale (art. 27, terzo comma,
della Costituzione): una sanzione – come sarebbe dimostrato dalle
sentenze nn. 126 del 1968 e 147 del 1969 di questa Corte, in materia
di adulterio – per sua natura incongrua, in generale, nel campo delle
relazioni affettive e sessuali, e, in particolare, come misura
sanzionatoria comminata a presidio della fedeltà coniugale, bene che
si potrebbe ritenere compromesso nel caso dell’incesto tra affini, in
relazione agli obblighi di questi verso i rispettivi coniugi. A
ciò sarebbe da aggiungere, sempre secondo il giudice rimettente, che
la norma denunciata non corrisponde, allo stato attuale del costume,
alla coscienza sociale, posto che la condotta punita, nel caso di
incesto tra affini, non interferisce con rapporti di consanguineità
e in generale non necessariamente attenta all’unità familiare.
2. – La questione non è fondata.
2.1. – L’art. 564 del codice penale punisce come incesto i
rapporti sessuali tra soggetti legati da vincoli di parentela o di
affinità, tenuti in modo che ne derivi pubblico scandalo.
Quale sia il “bene giuridico” protetto dalla norma è oggetto di
discussione già dal momento dell’elaborazione del codice penale.
È da escludere innanzitutto che esso consista nella difesa delle
relazioni familiari dalle prevaricazioni di natura sessuale.
L’incesto è atto di persone consenzienti, la violenza (effettiva o
presunta) rilevando rispetto ad altri reati, non a questo. È
altresì da escludere che la norma miri a proteggere la fedeltà
coniugale. Dai lavori preparatori risulta che il legislatore
dell’epoca fu mosso da un duplice interesse: l’uno, di natura
eugenetica (l’integrità e sanità della stirpe, nel linguaggio di
allora); l’altro, di natura familiare. La giustificazione obbiettiva
della norma, peraltro, non può essere individuata nel primo di tali
interessi. Non solo essa si baserebbe su un assunto – l’unione tra
consanguinei essere di per sé foriera di danni genetici – sul piano
scientifico dibattuto. Ma soprattutto, alla stregua di tale
giustificazione, non si comprenderebbe né l’inclusione nella
fattispecie di reato del rapporto sessuale tra soggetti, gli affini,
tra i quali non corrono legami di sangue, né l’irrilevanza della
procreazione, come fatto o come possibilità. La protezione di un
“bene eugenetico”, ancorché preso in considerazione dal legislatore
del tempo, non può dunque essere assunta come ragion d’essere della
norma denunciata e ciò esclude che l’esame della questione di
legittimità costituzionale sottoposta alla Corte debba essere
impostato sotto un simile punto di vista. L’art. 564 del codice
penale, invece, offre protezione alla famiglia, come è testimoniato
dalla sua collocazione nel Titolo XI del Libro II del codice penale,
“Dei delitti contro la famiglia” (e non nell’abrogato Titolo X, “Dei
delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”). Più
precisamente, in corrispondenza a un ethos le cui radici si perdono
lontano nel tempo, mira a escludere i rapporti sessuali tra
componenti della famiglia diversi dai coniugi: un’esclusione
determinata dall’intento di evitare perturbazioni della vita
familiare e di aprire alla più vasta società la formazione di
strutture di natura familiare. Non c’è nessuna ragione per
escludere che il legislatore possa dettare norme per il perseguimento
di queste finalità: finalità che non corrispondono solo a punti di
vista morali o religiosi circa la concezione della famiglia. E, allo
stesso modo, non c’è motivo di dubitare che al legislatore spetti
altresì il potere – da esercitare nell’ambito delle sue facoltà di
apprezzamento discrezionale, censurabili in sede di giudizio di
legittimità costituzionale nei soli limiti della manifesta
arbitrarietà – di valutare l’estensione dei tipi di relazione
familiare, cioè di definire i confini della famiglia nella specie
rilevante, in cui il divieto penalmente sanzionato viene fatto
operare. Sotto questo profilo – diversamente da ciò che si
dovrebbe ritenere se la ratio della norma denunciata fosse da
rinvenire nella protezione di un interesse eugenetico – non sembra
potersi dubitare che l’inclusione degli affini in linea retta tra i
soggetti i cui rapporti sessuali integrano il reato di incesto
rientri nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore che
questa Corte deve rispettare. Le ragioni anzidette conducono
così a ritenere l’infondatezza della questione di costituzionalità
sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione, sotto il
profilo della ragionevolezza delle scelte del legislatore.
2.2. – Il giudice rimettente trae motivi di dubbio circa la
legittimità costituzionale dell’art. 564 del codice penale dalla
previsione del pubblico scandalo (non importa qui se elemento della
fattispecie o condizione obiettiva di punibilità: questione
discussa) per farne dipendere l’irrogazione della pena prevista. La
sanzione penale mirerebbe alla salvaguardia di un’immagine esteriore
della famiglia come valore astratto, al quale le posizioni dei
singoli sarebbero finalizzate e, se del caso, sacrificate. Si
potrebbe dire così: dalla norma penale, per il modo in cui è
strutturata, risulterebbe che lo stesso fatto di incesto, se
confinato nello spazio privato delle relazioni interpersonali, è
penalmente irrilevante; se viene invece a essere conosciuto
all’esterno provocando scandalo, solo allora assume rilievo penale. I
singoli colpiti dalla sanzione penale fungerebbero da mezzi; il fine
sarebbe la moralità, o la percezione sociale della moralità della
famiglia. Ma – questa è la conclusione del giudice rimettente – nel
sistema costituzionale fondato sulla priorità della persona rispetto
agli organismi sociali in cui si svolge la personalità, sono i
secondi a poter essere finalizzati alla prima, non viceversa.
L’opportunità della previsione del pubblico scandalo fu oggetto
di una certa divisione di opinioni e lo stesso Ministro guardasigilli
dell’epoca oscillò. Il Progetto preliminare del codice penale lo
menzionava solo come aggravante. Negli argomenti portati a favore
della soluzione adottata, non mancarono certo toni che avvalorano il
punto di vista del giudice rimettente, come quando si osservò,
ancora dal Ministro (Relazione del Guardasigilli sul Progetto
definitivo del codice penale – Libro II, punto n. 628) che aprire
l’adito a indagini nell’interno delle famiglie sarebbe stato
gravissimo per le “funeste conseguenze” che ne sarebbero derivate,
con “danno incalcolabile alla morale pubblica”. Tuttavia, la scelta
alla fine prevalsa si può giustificare semplicemente come un non
irragionevole bilanciamento (non infrequente ove si abbia a che fare
con la vita familiare) tra l’esigenza di repressione dell’illecito e
la protezione della tranquillità degli equilibri domestici da
ingerenze intrusive, quali investigazioni della pubblica autorità
alla ricerca del reato (ricerca che in ipotesi potrebbe non avere
esito, derivando da informative infondate, pretestuose o
persecutorie). Una volta verificatosi il pubblico scandalo, però,
non vi è più ragione per frapporre ostacolo all’azione repressiva
dello Stato. Così ragionando, senza evocare impegnativi dilemmi
ideologici, si finisce per giustificare la scelta, conforme a quella
contenuta nel codice Zanardelli, compiuta dal legislatore penale del
1930 e per escludere la violazione dell’invocato art. 2 della
Costituzione.
2.3. – Deve essere altresì respinto il dubbio di
costituzionalità formulato in riferimento all’art. 13, primo comma,
in relazione all’art. 2 della Costituzione, sotto il profilo della
necessaria proporzione tra il valore del bene protetto dalla norma
penale e il valore della libertà individuale: dubbio prospettato dal
giudice rimettente sulla base della convinzione che la norma
denunciata, per avere incorporato l’elemento del pubblico scandalo,
sia posta a presidio di un mero modo di apparire dell’istituto
familiare. Una volta confutata – come si è fatto al punto precedente
– questa premessa, cade la possibilità di ragionare nei termini
proposti di esigenze di proporzionalità rispetto al valore della
libertà personale.
2.4. – Anche rispetto al principio della finalità rieducativa
della sanzione penale (art. 27, terzo comma, della Costituzione), la
questione di costituzionalità non è fondata. Il giudice rimettente
è scettico sulla possibilità che, quando siano in campo relazioni
affettive e sessuali, la pena detentiva possa di per sé promuovere
la rieducazione del condannato, secondo l’espressione e
l’intendimento della Costituzione.. Ricorda in proposito, a sostegno
della sua posizione, le sentenze di questa Corte nn. 126 del 1968 e
147 del 1969, in materia di adulterio: due decisioni di
incostituzionalità di norme penali, tuttavia, che facevano valere il
principio di uguaglianza e quindi difficilmente utilizzabili in
un’argomentazione circa il rapporto tra il tipo di pena e il tipo di
reato.
Sennonché, l’argomento speso dal giudice rimettente, rilevante
in sede di politica delle pene, andrebbe troppo in là se applicato
nel giudizio di costituzionalità sulle leggi. Esso assolutizza nella
sola rieducazione la funzione della pena e introduce una valutazione
sulla congruità del nesso tra tipo di reato e tipo di pena che,
potendosi applicare per qualunque fattispecie incriminatrice,
potrebbe finire per sconvolgere il sistema sanzionatorio penale. E
porterebbe all’assurda conclusione che, per fatti di possibile
rilevanza penale (come è l’incesto, alla stregua delle
considerazioni del punto 2.1.), possa accadere che non vi siano pene
idonee, per irraggiungibilità del risultato al quale, secondo
l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, esse devono tendere.
3. – Queste considerazioni portano a concludere che le censure
mosse dal giudice rimettente all’art. 564 del codice penale non si
basano su vizi rilevabili nel giudizio di legittimità costituzionale
ma si risolvono in critiche di opportunità alla norma, il cui
apprezzamento non compete a questa Corte, rientrando nella
discrezionalità del legislatore.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 564 del codice penale (Incesto), sollevata, in riferimento
agli artt. 2, 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma,
della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso il
tribunale di Salerno con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 novembre 2000.
Il Presidente: Mirabelli
Il redattore: Zagrebelsky
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 21 novembre 2000.
Il direttore della cancelleria: Di Paola