Sentenza N. 549 del 2000
Corte Costituzionale
Data generale
06/12/2000
Data deposito/pubblicazione
06/12/2000
Data dell'udienza in cui è stato assunto
27/11/2000
Presidente: Fernando SANTOSUOSSO;
Giudici: Cesare RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY,
Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA,
Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria
FLICK;
del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento,
del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della
liquidazione coatta amministrativa), promossi con due ordinanze
emesse il 6 aprile 2000 dal tribunale di Udine sulle istanze proposte
da Foi Renato e da Segato Claudio, rispettivamente iscritte ai
nn. 380 e 381 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 28, 1ª serie speciale, dell’anno 2000.
Udito nella camera di consiglio del 25 ottobre 2000 il giudice
relatore Annibale Marini.
di imprenditori falliti, il tribunale di Udine, con ordinanze
sostanzialmente identiche emesse il 6 aprile 2000, ha sollevato, in
riferimento agli articoli 3, 4 e 41 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 143, numero 3, del regio
decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del
concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della
liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui fa decorrere
il termine minimo di buona condotta necessario per la riabilitazione
civile del fallito dalla chiusura del fallimento anziché dalla sua
dichiarazione.
Il rimettente, premessa la rilevanza della questione, in quanto
l’unico ostacolo all’accoglimento delle domande di riabilitazione
sarebbe costituito proprio dal mancato decorso del termine
quinquennale dalla data di chiusura dei rispettivi fallimenti
(termine viceversa ampiamente decorso dalla dichiarazione dei
fallimenti stessi), e rilevato in via generale che l’intero sistema
delle sanzioni e delle incapacità derivanti dal fallimento appare
ormai in contrasto con i principi generali dell’ordinamento, assume
che la disposizione censurata, nell’attribuire rilievo esclusivamente
alla buona condotta successiva alla chiusura del fallimento, sarebbe
innanzitutto irrazionalmente lesiva del diritto del fallito, tutelato
dagli artt. 4 e 41 Cost., a svolgere attività lavorativa in
qualsiasi forma e, in particolare, attività d’impresa.
La norma, ad avviso del medesimo rimettente, contrasterebbe
inoltre con l’art. 3 della Costituzione sia per l’assoluto difetto di
ragionevolezza sia in quanto determinerebbe una ingiustificata
disparità di trattamento tra falliti, in ragione del dato –
assolutamente indipendente dalla volontà dell’interessato –
rappresentato dalla durata della procedura fallimentare.
sollevato, in riferimento agli articoli 3, 4 e 41 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 143, numero 3, del
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del
concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della
liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che
il termine quinquennale di buona condotta per la riabilitazione
civile del fallito decorra dalla data di chiusura piuttosto che dalla
data della dichiarazione di fallimento.
Ad avviso del rimettente, la norma sarebbe irrazionalmente lesiva
del diritto del fallito di svolgere attività lavorativa, ed in
particolare attività di impresa, ed inoltre determinerebbe una
ingiustificata disparità di trattamento tra falliti in conseguenza
del dato accidentale rappresentato dalla durata della procedura.
2. – I due giudizi, avendo ad oggetto la medesima questione,
vanno preliminarmente riuniti per essere decisi con unica sentenza.
3. – Nel merito, la questione non è fondata.
3.1. – Quanto al primo dei profili di illegittimità
costituzionale denunciati, rappresentato dalla asserita lesione del
diritto al lavoro e della libertà di iniziativa economica, è
innanzitutto erroneo l’assunto del rimettente secondo cui la
condizione di fallito precluderebbe lo svolgimento di attività di
impresa.
Stante la mancanza di una norma di carattere generale che privi
il fallito della capacità di agire, la possibilità, per
quest’ultimo, di esercitare una nuova impresa, anche nel corso della
stessa procedura concorsuale, con beni non aggredibili o comunque non
aggrediti dal fallimento, è infatti pacificamente riconosciuta dalla
giurisprudenza.
In ogni caso, e sotto altro aspetto, la censura riferita ai
parametri di cui agli artt. 4 e 41 della Costituzione si appalesa del
tutto inconferente, ove si consideri che la denunciata illegittimità
costituzionale deriverebbe semmai – secondo la prospettazione dello
stesso rimettente – dalle singole norme che prevedono, quali effetti
personali della dichiarazione di fallimento, limitazioni di carattere
permanente alla possibilità di svolgimento di talune particolari
attività lavorative, e non certo dalla norma impugnata, che al
contrario disciplina le condizioni per la rimozione di tali effetti.
3.2. – Nemmeno sussiste la violazione dell’art. 3 Cost., evocato
dal rimettente tanto sotto il profilo della disparità di trattamento
tra falliti, derivante dalla diversità di durata delle procedure
fallimentari, quanto con riguardo al generale criterio di
ragionevolezza.
Per quanto concerne il primo aspetto, questa Corte ha
ripetutamente affermato che le disparità di mero fatto, ossia quelle
differenze di trattamento che derivano da circostanze contingenti e
accidentali, non danno luogo a problemi di costituzionalità con
riferimento all’art. 3 della Costituzione (sentenze n. 175 del 1997,
n. 417 del 1996, nn. 295 e 188 del 1995). La circostanza che il tempo
intercorrente tra la dichiarazione di fallimento ed il compimento del
termine di buona condotta per ottenere la riabilitazione civile possa
in concreto variare in conseguenza del dato accidentale rappresentato
dalla diversa durata delle procedure fallimentari non comporta
pertanto violazione del principio di eguaglianza.
3.3 – È altresì infondata la diversa censura di
irragionevolezza mossa dal rimettente in base all’assunto che,
essendo possibile apprezzare anche durante la pendenza della
procedura fallimentare la buona condotta tenuta dal fallito, non si
giustificherebbe la decorrenza del termine quinquennale di
valutazione della buona condotta dalla data di chiusura piuttosto che
da quella di apertura del fallimento.
In proposito va considerato che la soluzione adottata,
traducendosi nel porre la chiusura della procedura fallimentare quale
condizione della misura premiale, aggiuntiva alla buona condotta del
fallito, costituisce in effetti esercizio non irragionevole
dell’ampio potere discrezionale di cui gode il legislatore nella
determinazione dei presupposti della misura stessa.
Sicché, del tutto privo di qualsiasi base giustificativa risulta
l’asserito contrasto della norma impugnata con l’art. 3 della
Costituzione.
4. – Il rimettente, infine, censura in modo del tutto generico,
auspicandone una riforma, la intera normativa relativa agli effetti
personali del fallimento ed alle condizioni della riabilitazione. Ma
è evidente come in tal modo venga impropriamente introdotta nel
giudizio di costituzionalità materia di esclusiva competenza del
legislatore.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi,
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 143, numero 3, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267
(Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta
amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4 e 41 della
Costituzione, dal tribunale di Udine con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 novembre 2000.
Il Presidente: Santosuosso
Il redattore: Marini
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 6 dicembre 2000.
Il direttore della cancelleria: Di Paola