N. 57 del 1959
Data generale
21/11/1959
Data deposito/pubblicazione
21/11/1959
Data dell'udienza in cui è stato assunto
18/11/1959
GIUSEPPE CAPPI – Prof. TOMASO PERASSI – Prof. GASPARE AMBROSINI – Prof.
ERNESTO BATTAGLINI – Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELI – Prof. GIUSEPPE
CASTELLI AVOLIO – Prof. ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER – Prof.
GIOVANNI CASSANDRO – Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO MANCA –
Prof. ALDO SANDULLI – Prof. GIUSEPPE BRANCA, Giudici,
1950, n. 516, promosso con ordinanza emessa il 28 maggio 1958 dal
Tribunale di Cosenza nel procedimento civile vertente tra Mattace
Rosario, l’Opera per la valorizzazione della Sila, la Società Sciovie
industrie e lavori agricoli (S.I. L. A.) e Nicolis di Robilant
Gabriella, iscritta al n. 38 del Registro ordinanze 1958 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numero 288 del 29 novembre
1958.
Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio
dei Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 28 ottobre 1959 la relazione del
Giudice Giovanni Cassandro;
uditi l’avv. Rodolfo Grimaldi, per il Mattace, e il sostituto
avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Presidente del
Consiglio dei Ministri e per l’Opera per la valorizzazione della Sila.
1. – Nel corso del giudizio civile davanti al Tribunale di Cosenza
tra Rosario Mattace e l’Opera valorizzazione della Sila, il Tribunale,
accogliendo l’eccezione di legittimità costituzionale del D. P. R. 25
luglio 1950, n. 516, sollevata dall’attore, con ordinanza del 29
ottobre 1956 sospese il giudizio e trasmise gli atti a questa Corte.
Il giudizio di legittimità, discusso nella pubblica udienza del 28
marzo 1957, si concluse con una ordinanza del 16 maggio dello stesso
anno, n. 77, che rimise gli atti al Tribunale di Cosenza, alla quale si
intende fatto in questa esposizione costante riferimento. Ritenne
allora la Corte che la rilevanza della questione di legittimità
costituzionale non appariva sufficientemente dimostrata nella ordinanza
di rinvio dato che si sarebbero dovuti risolvere preliminarmente i
punti relativi alla natura e agli effetti dell’errore in cui sarebbe
incorso l’attore, alla certezza e validità delle note di trascrizione
degli atti di compravendita Barracco-Mattace e Barracco S. I. L. A. e,
infine, al valore, nel caso, dei dati catastali. In conseguenza di ciò
il Tribunale, con ordinanza 28 maggio – 28 luglio 1958, premesso che
con sentenza non definitiva di pari data aveva risolto i punti della
causa che la Corte aveva indicati come pregiudiziali al giudizio di
rilevanza, ha riproposto a questa Corte la questione di legittimità
del D. P. R. 25 luglio 1950, n. 516, così come prospettata dalla
parte, e cioè sotto il profilo che il citato decreto sarebbe stato
“emesso fuori dei limiti fissati dalla delega legislativa contenuta
nella legge 12 maggio 1950, n. 230”.
Il Tribunale ha ritenuto anche che la questione non fosse
manifestamente infondata, dato che parrebbe, diversamente dalla tesi
sostenuta dalla difesa dell’O. V. S., che il ricorso di cui all’art. 4
della citata legge 12 maggio 1950, n. 230, riconosca una facoltà, ma
non imponga un obbligo, sicché il non averlo esperito nei termini non
comporterebbe la inammissibilità di ogni altro esperimento di difesa
da parte del soggetto passivo della riforma e dato che è d’altra parte
certo che nessun piano di espropriazione venne compilato dall’Opera né
alcun decreto di espropriazione venne emanato dal Governo contro il
Mattace.
L’ordinanza notificata alle parti e al Presidente del Consiglio il
17 ottobre 1958 e comunicata ai Presidenti delle due Camere lo stesso
giorno, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 29 novembre
1958, su disposizione del Presidente della Corte costituzionale.
2. – Nel giudizio si e costituita l’Opera valorizzazione della
Sila, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, ed
è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri anch’esso
rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato: le deduzioni per
entrambi sono state depositate il 24 ottobre 1958. Sostiene
l’Avvocatura dello Stato che “il Tribunale di Cosenza avrebbe
sottoposto alla Corte costituzionale un quesito non formulato con la
completezza che sarebbe desiderabile”, dato che esso si ridurrebbe al
punto se l’esperimento del ricorso per la rettifica dell’errore
materiale giusta l’art. 4 della legge 12 maggio 1950, n. 230, sia una
facoltà ovvero un obbligo per la parte interessata e se il fatto di
non aver esercitato la facoltà o adempiuto all’obbligo determini
decadenza dal reclamo giurisdizionale. Il Tribunale viceversa avrebbe
dovuto sottoporre al giudizio della Corte anche l’altro quesito se
cioè sia applicabile alla espropriazione della riforma fondiaria
l’art. 16 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, sull’espropriazione per
causa di pubblica utilità, vale a dire se siano vincolanti oppure no
per il Governo espropriante i dati catastali.
Ciò premesso, l’Avvocatura dello Stato sostiene che il carattere
meramente indiziario, come essa dice, e non probatorio dei dati del
catasto non esclude che lo Stato debba ricorrere a essi per individuare
i titolari del diritto dominicale sul suolo nazionale quante volte ciò
sia necessario per il raggiungimento dei suoi fini di pubblico generale
interesse (imposizione tributaria, espropriazione per pubblica
utilità) e nemmeno esclude che essi possano in determinati casi
produrre “effetti di diritto materiale”. Ora, se è vero che
l’espropriazione per pubblica utilità ha carattere diverso da quella
regolata dalla legge di riforma fondiaria, la diversità dei due
istituti, secondo l’assunto dell’Avvocatura dello Stato, non sarebbe
tale da impedire che valga anche per questa il principio che vale per
la prima, della presunzione del diritto di proprietà fondato sui dati
catastali.
Il carattere soggettivo della riforma fondiaria renderebbe anzi
necessario il ricorso ai dati catastali per la determinazione della
estensione della proprietà del soggetto passivo della riforma che
altrimenti potrebbe essere abbandonata all’arbitrio dell’espropriante.
Se differenza c’è tra i due istituti, soggiunge l’Avvocatura, essa non
consisterebbe se non in questo che, laddove quella presunzione posta
dalla legge di espropriazione per pubblica utilità è assoluta,
l’altra, dell’espropriazione ai fini della riforma fondiaria, è
relativa nel senso che ammette la prova contraria mediante il ricorso
regolato dall’art. 4 della citata legge 12 maggio 1950, n. 230. La
norma contenuta in tale articolo stabilisce infatti che l’interessato
(e per tale dovrebbe intendersi chiunque possa avere interesse alla
esattezza dei piani di esproprio) può chiedere all’Ente la “rettifica
di eventuali errori materiali” (e anche qui per errore materiale deve
intendersi ogni sorta di errore) entro 25 giorni dalla pubblicazione
dei piani. Che codesto termine assegnato alla proposizione del ricorso
sia perentorio e che il decorso renda inammissibile ogni altro
esperimento di difesa discenderebbe da un lato dalla natura stessa e
dai fini della pubblicità del piano e dall’altro proprio dal fatto che
la riforma fondiaria si esaurisce in un unico procedimento che non può
essere ripetuto e che impedisce di emanare in forma corretta un nuovo
decreto di esproprio.
3. – Il Mattace ha depositato in cancelleria l’8 di ottobre una
memoria nella quale, oltre a ribadire la sua tesi della illegittimità
costituzionale del decreto delegato, afferma, richiamandosi alla
giurisprudenza di questa Corte, che nessuna efficacia sul presente
giudizio può spiegare il fatto che contro la sentenza non definitiva
del Tribunale di Cosenza sia stato proposto appello tuttora pendente
davanti alla Corte d’appello di Catanzaro, dato che la pronuncia sulla
questione di legittimità costituzionale, indipendente com’è dallo
svolgimento del giudizio principale, non può essere sospesa per il
fatto che il rapporto controverso che condiziona il giudizio di
rilevanza non sia stato ancora deciso con sentenza passata in
giudicato.
Anche con richiami alla giurisprudenza di questa Corte il Mattace
respinge poi la tesi della legittimità di un procedimento di
espropriazione nei confronti di beni intestati nel catasto al soggetto
passivo dello scorporo, anche quando questo non ne sia proprietario e
l’altra della decadenza di ogni azione di chi non abbia proposto
ricorso contro il piano di espropriazione ai sensi e nei termini
dell’art. 4 della legge n. 230.
4. – All’udienza del 28 ottobre 1959 le difese delle due parti
hanno riaffermato le rispettive tesi e insistito nelle prese
conclusioni.
1. – L’Avvocatura dello Stato lamenta in primo luogo che il
Tribunale di Cosenza, proponendo alla Corte la risoluzione del solo
punto “se la mancata rettifica degli errori materiali a norma dell’art.
4 della legge 12 maggio 1950, n. 230, sia una facoltà, ovvero un
obbligo, e se, per derivazione, il mancato esercizio della facoltà, od
obbligo che sia, determini una decadenza dal reclamo giurisdizionale
per errore nei dati catastali”, avrebbe formulato incompletamente la
questione di legittimità costituzionale; e, ch’è più, decidendo esso
sull’altro punto della “vincolatività ” dei dati catastali “ai fini
dell’identificazione dei beni oggetto d’espropriazione per riforma
fondiaria” avrebbe risolto “un aspetto del problema” di competenza
della Corte costituzionale.
Per quanto questa censura non sia stata dedotta nella forma di
un’eccezione di improponibilità, giova egualmente notare che si tratta
di una censura insieme irrilevante e infondata. È da osservare,
infatti, che essa è mossa non già alla questione di legittimità
costituzionale (e al modo in cui essa è stata proposta dal Tribunale
di Cosenza), ma piuttosto, come del resto si ricava dall’ordinanza di
rinvio, al giudizio di rilevanza del giudice di merito e ai motivi che
lo sorreggono.
Senonché, com’è nella legge e come è stato costantemente
affermato da questa Corte, il giudizio di rilevanza è di competenza
del giudice di merito e può essere sottoposto ad esame in questa sede
soltanto nel caso in cui esso manchi di motivazione o ne esibisca una
insufficiente e contraddittoria.
Ora nel presente giudizio la rilevanza della questione di
legittimità costituzionale è più che dimostrata, risultando da una
sentenza non definitiva richiamata nell’ordinanza di rinvio, nella
quale il Tribunale di Cosenza ha accertato che i terreni corrispondenti
alle particelle 1 del fol. 36 e 2 del foglio 29 del catasto di Cutro,
ricomprese nell’espropriazione decretata ai danni della S. p. a.
Sciovie industrie e lavori agricoli (S.I.L.A.), sono di proprietà di
Rosario Mattace, e ha risolto in pari tempo le questioni che in
relazione a questo punto erano state sollevate, ma non definite nella
prima fase del giudizio di merito. E tanto basterebbe per dimostrare
l’infondatezza della tesi dell’Avvocatura dello Stato. Ma va anche
osservato che, se è vero che il Tribunale nella ricordata sentenza non
definitiva ha pronunziato sulla questione del valore che nel nostro
ordinamento deve essere riconosciuto ai dati catastali, quali mezzo di
prova del diritto di proprietà, se è anche vero che il Tribunale ha
pronunziato sul punto se le leggi di riforma fondiaria abbiano oppure
no modificato a questo riguardo il diritto comune, è vero altresì
che, rimettendo alla Corte l’esame della fondatezza della tesi
dell’Avvocatura dello Stato secondo la quale il ricorso previsto
dall’art. 4 della legge 12 maggio 1950, n. 230 (c. d. legge Sila), è
il solo mezzo esperibile contro la formulazione di piani di
espropriazione che contengano beni di terzi, intestati nel catasto al
soggetto passivo del provvedimento di espropriazione, ha implicitamente
rimesso anche l’esame del punto che l’Avvocatura dello Stato definisce
della “vincolatività” dei dati catastali ai fini dell’identificazione
dei beni assoggettabili ad espropriazione per la riforma fondiaria.
2. – Ora, contro queste due tesi dell’Avvocatura dello Stato la
Corte ha già avuto occasione di pronunziarsi (cfr. sent. n. 10 del 3
marzo 1959), né ritiene di dover discostarsi dalle precedenti
decisioni. La Corte è d’opinione che i dati catastali, conformemente
del resto alla loro efficacia giuridica nel nostro ordinamento, nel
quale essi non sono decisivi per la determinazione del diritto di
proprietà, non possono essere considerati vincolanti nel procedimento
di espropriazione per la riforma fondiaria. Il richiamo che
l’Avvocatura fa della norma contenuta nell’art. 16 della legge 25
giugno 1865, n. 2359, – a parte i dubbi che suscita l’interpretazione
che essa ne sostiene e che non occorre qui rilevare e risolvere -, non
è pertinente. La espropriazione prevista dalle leggi di riforma
fondiaria non mira già a trasferire da un soggetto a un altro un
determinato bene, ma invece, a sottrarre parte del patrimonio a un
soggetto che si trovi nelle condizioni previste dalle leggi di riforma:
sia proprietario, come nel caso della legge 12 maggio 1950, n. 230, di
oltre trecento ettari di terra. Non è dunque indifferente, com’è nel
caso di espropriazione per pubblica utilità, che si proceda contro chi
sia soltanto apparentemente proprietario di un bene. Né vale contro
questa interpretazione della legge 11 motivo addotto ancora una volta
dall’Avvocatura dello Stato e già respinto dalla Corte (cfr. sent. n.
72 del 15 maggio 1957) della brevità dei termini assegnati dalla legge
agli Enti di riforma e al Governo per compilare i piani ed emanare il
decreto di espropriazione, giacché occorre appena rilevare che da
codesta brevità non può trarsi, mancando ogni altra espressa
disposizione, la conseguenza che sia possibile travolgere
nell’espropriazione beni che non siano di proprietà del soggetto
passivo della riforma. Di conseguenza il ricorso che ai sensi dell’art.
4 della legge 12 maggio 1950, n. 230, può essere proposto nel termine
di 25 giorni contro i piani di espropriazione non può sostituire ogni
altro mezzo che l’ordinamento prevede per la tutela dei diritti
soggettivi; e il non proporlo nei termini fissati non può importare se
non la decadenza dal diritto di esperire quel mezzo di tutela, previsto
per fini limitati e nell’ambito del procedimento di espropriazione.
Da tutto quanto precede discende necessariamente la illegittimità
parziale del D. P. R. 25 luglio 1950, n. 516, illegittimità che, per
altro, procede non già, come sostiene il difensore del Mattace, dal
fatto che si sia agito contro il Mattace senza l’osservanza delle forme
richieste dalla legge (compilazione dei piani di espropriazione,
emanazione del decreto presidenziale), ma bensì dal fatto che nel
decreto di espropriazione della S.p.a. Sciovie industrie e lavori
agricoli (S. I. L. A.) sono stati compresi beni che a questa società
non appartengono.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale del D. P. R. 25 luglio
1950, n. 516, in relazione agli articoli 2 e 4 della legge 12 maggio
1950, n. 230, ed in riferimento agli articoli 76 e 77 della
Costituzione, in quanto ha compreso nell’espropriazione beni non di
proprietà della S. p. a. Sciovie industrie e lavori agricoli (S.I. L.
A.).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 novembre 1959.
GAETANO AZZARITI – GIUSEPPE CAPPI –
TOMASO PERASSI – GASPARE AMBROSINI –
ERNESTO BATTAGLINI – FRANCESCO
PANTALEO GABRIELI – GIUSEPPE CASTELLI
AVOLIO – ANTONINO PAPALDO – NICOLA
JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO – BIAGIO
PETROCELLI – ANTONIO MANCA – ALDO
SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA.