Sentenza N. 579 del 1990
Corte Costituzionale
Data generale
28/12/1990
Data deposito/pubblicazione
28/12/1990
Data dell'udienza in cui è stato assunto
12/12/1990
Presidente: prof. Giovanni CONSO;
Giudici: prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe
BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv.
Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, prof. Luigi MENGONI, prof.
Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA;
comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24
marzo 1958, n. 195, e al decreto del Presidente della Repubblica 16
settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il funzionamento del
Consiglio superiore magistratura), promosso con ordinanza emessa il
22 giugno 1989 dalla Corte di cassazione, Sezioni unite civili, sui
ricorsi riuniti proposti da Palermo Carlo contro il Procuratore
generale presso la Corte di cassazione ed altri e dal Ministero di
grazia e giustizia contro Palermo Carlo ed altro, iscritta al n. 455
del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell’anno 1990;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 28 novembre 1990 il Giudice
relatore Francesco Paolo Casavola.
magistratura – con sentenza del 26 giugno 1985 – infliggeva alcune
sanzioni al dott. Carlo Palermo, il quale proponeva ricorso per
cassazione. Le Sezioni unite, con sentenza del 24 luglio 1986, n.
4754, cassavano la sentenza e rinviavano la causa alla sezione
disciplinare. Quest’ultima – fissata una nuova udienza con decreto
notificato all’incolpato in data 27 luglio 1987 – infliggeva al
magistrato, con successiva sentenza, altra sanzione disciplinare.
Le Sezioni unite, nuovamente adite dal dott. Palermo avverso tale
ultima decisione, con ordinanza emessa il 22 giugno 1989, hanno
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, secondo comma, e
104, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 12, quarto comma, della legge 3 gennaio
1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195 e al
decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916,
sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della
magistratura), – più esattamente, art. 59, nono comma, del d.P.R. 16
settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di attuazione e di coordinamento
della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il
funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e
disposizioni transitorie), nel testo sostituito dall’art. 12, quinto
comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 – nella parte in cui non
prevede alcun termine per l’inizio del procedimento disciplinare in
sede di rinvio dalla Corte di cassazione.
Osserva il giudice a quo che, nella specie, il decreto di
fissazione dell’udienza disciplinare è stato comunicato dopo oltre
un anno dal deposito della sentenza che ha attivato il giudizio di
rinvio. Pertanto, anche ove nel caso in esame fossero applicabili i
termini previsti dalla norma impugnata, il procedimento sarebbe
estinto. Per le ipotesi “normali” di avvio della procedura, infatti,
l’art. 12 impone che entro un anno dalla richiesta del Ministro al
Procuratore generale, ovvero dalla richiesta o comunicazione del
Procuratore generale al C.S.M., l’incolpato debba ricevere
comunicazione del decreto che fissa la discussione, altrimenti – e
sempre che questi vi consenta – il procedimento si estingue (ed
altrettanto accade allorché non venga pronunciata sentenza nei due
anni successivi).
Esclusa la possibilità di un’interpretazione estensiva, in
considerazione del peculiare carattere del giudizio di rinvio – volto
all’applicazione del principio di diritto – che non consente di
assimilarlo al primo giudizio, la Corte di cassazione rileva che,
allo stato della normativa, il procedimento disciplinare può
protrarsi, in sede di rinvio, a tempo indeterminato, in aperto
contrasto con la ratio della legge impugnata. L’intervento del
legislatore del 1981 (di molto successivo alla sentenza n. 145 del
1976 in cui questa Corte aveva ritenuto infondata la questione
concernente l’omessa fissazione di termini nella precedente
normativa) aveva infatti lo scopo di realizzare una giusta tutela del
magistrato nel procedimento a suo carico.
Sarebbe irrazionale, nell’ambito di un sistema che prevede tali
garanzie, escludere dal meccanismo dei termini proprio il giudizio di
rinvio, dove la fissazione dell’udienza può certamente essere più
sollecita rispetto al primo grado, reso meno spedito dalla presenza
di una fase istruttoria. L’incongruenza della normativa sarebbe
quindi produttiva di disparità di trattamento nei confronti dei
magistrati, più o meno garantiti a seconda delle fasi del
procedimento.
Tali conclusioni risulterebbero confermate dal confronto tra la
normativa in esame e quella prevista per il giudizio di rinvio sia
dal rito civile sia da quello penale. Nel primo caso, infatti, il
giudizio in argomento trova impulso in un atto di riassunzione, là
dove, in ambito disciplinare, vige il principio dell’officiosità, il
quale assimila la procedura a quella penale (a sua volta
caratterizzata dalla prescrizione del reato).
Inoltre la legge impugnata rappresenta, secondo la Corte di
cassazione, un riconoscimento dell’interesse del magistrato ad una
rapida definizione del procedimento, sì che la mancata prefissione
di termini è idonea ad incidere negativamente sul diritto di difesa
dell’incolpato, sul sereno esercizio delle funzioni, sulla autonomia
e sull’indipendenza.
2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso per
l’inammissibilità – in riferimento alla discrezionalità legislativa
in materia – ovvero per l’infondatezza della questione, richiamandosi
anzitutto alla sentenza n. 145 del 1976 per escludere, nella logica
di quella decisione, che un’esposizione senza limiti di tempo
all’azione disciplinare possa intaccare l’indipendenza del
magistrato. Le motivazioni ivi addotte si attaglierebbero, mutatis
mutandis, anche alla nuova disciplina introdotta dalla legge
impugnata.
Per quanto riguarda l’asserita violazione dell’art. 3 della
Costituzione, l’Avvocatura rileva che la necessità di apporre un
termine è stata utilmente avvertita soltanto nella prima fase del
procedimento onde assicurare difese adeguate, accertamenti tempestivi
ed indagini sollecite, esigenze queste non presenti nel giudizio di
rinvio, con conseguente non omogeneità delle situazioni a confronto.
del 22 giugno 1989 (pervenuta alla Corte costituzionale il 5 luglio
1990; R.O. n. 455/1990), solleva, in riferimento agli artt. 3, 24,
101, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione, questione
di legittimità costituzionale dell’art. 12, quarto comma, della
legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958,
n. 195, e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre
1958, n. 916, sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio
superiore della magistratura) – più esattamente, art. 59, nono
comma, del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di
attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195,
concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio
superiore della magistratura e disposizioni transitorie), nel testo
sostituito dall’art. 12, quinto comma, della legge 3 gennaio 1981, n.
1 – nella parte in cui “pur statuendo che entro un anno dall’inizio
del procedimento disciplinare nei confronti del magistrato deve
essere comunicato all’incolpato, a pena di estinzione del
procedimento stesso, il decreto che fissa la discussione orale
davanti alla Sezione disciplinare, non prevede termine alcuno per
l’inizio del procedimento in sede di rinvio dalla cassazione”.
2. – La questione è fondata.
La norma impugnata recita: “Entro un anno dall’inizio del
procedimento deve essere comunicato all’incolpato il decreto che
fissa la discussione orale davanti alla sezione disciplinare. Nei due
anni successivi dalla predetta comunicazione deve essere pronunciata
la sentenza. Quando i termini non sono osservati, il procedimento
disciplinare si estingue, sempre che l’incolpato vi consenta”.
La normativa precedente ignorava, invece, termini perentori o
almeno sollecitatori per l’inizio e la definizione del procedimento
disciplinare. Peraltro questa Corte, con sentenza n. 145 del 1976,
pur non rilevando allora violazione degli artt. 24 e 101, primo
comma, della Costituzione, ribadiva il principio di civiltà
giuridica secondo il quale l’azione disciplinare “dev’essere promossa
senza ritardi ingiustificati, o peggio arbitrari, rispetto al momento
della conoscenza dei fatti cui si riferisce”.
Nella proposta del Consiglio superiore della magistratura,
divenuta base del progetto di legge n. 1040 della VIII Legislatura,
sfociato poi nella legge 3 gennaio 1981, n. 1, si poneva “in evidenza
la gravità delle conseguenze che derivano per l’indipendenza e la
libertà dei singoli magistrati dal ritardo con cui vengono definiti
i procedimenti disciplinari” (Atti parlamentari, Camera dei deputati,
pag. 4, nonché ibidem: IV Commissione, sedute del 10 e 31 luglio
1980).
La norma vigente fa progredire con la fissazione di termini di
decadenza per l’inizio e la definizione del procedimento disciplinare
la giurisdizionalizzazione dell’attività della Sezione disciplinare
del C.S.M., con la evidente lacuna, tuttavia, che la Corte di
cassazione ora denuncia con la sollevata questione.
Nel giudizio di rinvio infatti è senza ragionevole
giustificazione l’assenza di un termine che ad esso dia inizio e di
una corrispondente previsione d’estinzione, partecipando questa fase
alla stessa logica finalistica del giudizio di prima e unica istanza
per la realizzazione del principio di una sollecita definizione della
posizione dell’incolpato.
3. – Non ha pregio l’argomento dell’Avvocatura dello Stato secondo
cui la diversa disciplina delle due fasi si giustificherebbe perché
nella prima la fissazione di termini giova ad assicurare accertamenti
tempestivi ed indagini sollecite nell’esigenza di garantire
all’incolpato una difesa adeguata, mentre nella seconda ad una tale
attività istruttoria non si dà luogo trattandosi di applicare il
principio di diritto espresso nella sentenza di annullamento con
rinvio.
In realtà, in questo momento procedimentale resta preminente non
tanto il diritto di attività di difesa dell’incolpato, garantito dai
termini del giudizio di prima istanza, quanto il diritto alla
decisione, dovendosi leggere anche questo secondo profilo nel
precetto di cui all’art. 24 della Costituzione.
Il procedimento di rinvio – originato dall’azione disciplinare per
sua natura imprescrittibile, a differenza dell’azione penale
prescrittibile – che non sia sollecitato da un termine di decadenza e
che può in ipotesi non avere mai inizio, vanificandosi così
l’effetto estintivo, riconosciuto invece dalla norma impugnata
all’inutile decorso dei termini stabiliti per il procedimento di
prima e unica istanza, non soltanto viola l’art. 24 della
Costituzione nel contenuto innanzi delineato, ma menoma la posizione
di affidabilità sociale del magistrato che continui ad esercitare la
giurisdizione nello status sine die di incolpato, con evidente
lesione altresì dei valori di cui agli artt. 101, secondo comma, e
104, primo comma, della Costituzione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 12, quarto
comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24
marzo 1958, n. 195, e al decreto del Presidente della Repubblica 16
settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il funzionamento del
Consiglio superiore della magistratura) – più esattamente, art. 59,
nono comma, del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di
attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195,
concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio
superiore della magistratura e disposizioni transitorie), nel testo
sostituito dall’art. 12, quinto comma, della legge 3 gennaio 1981, n.
1 – nella parte in cui non estende i termini ivi fissati al
procedimento di rinvio.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 1990.
Il Presidente: CONSO
Il redattore: CASAVOLA
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 28 dicembre 1990.
Il cancelliere: DI PAOLA