Sentenza N. 58 del 1967
Corte Costituzionale
Data generale
05/05/1967
Data deposito/pubblicazione
05/05/1967
Data dell'udienza in cui è stato assunto
27/04/1967
ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO –
Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO MANCA – Prof. ALDO SANDULLI –
Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO
MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott.
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott.
LUIGI OGGIONI, Giudici,
primo comma, del Codice civile, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 28 maggio 1965 dal Tribunale di Torino nel
procedimento civile vertente tra Ginepro Pugno Giorgio e Pugno Evasio e
Pia, iscritta al n. 206 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 326 del 31 dicembre 1965;
2) ordinanza emessa l’8 novembre 1965 dal Tribunale di Roma nel
procedimento civile vertente tra Cappellacci Maria Nicoletta, Colasanti
Ricci Giulio Mario e Marini Maria ved. Ricci, iscritta al n. 36 del
Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 105 del 30 aprile 1966.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e di costituzione di Ginepro Pugno Giorgio, Pugno Evasio e
Pia, Cappellacci Maria Nicoletta, Colasanti Ricci Giulio Mario e Marini
Maria ved. Ricci;
udita nell’udienza pubblica del 15 marzo 1967 la relazione del
Giudice Costantino Mortati.
uditi gli avvocati Gioacchino Magrone, per la Cappellacci, Cesco
Nigro, per il Colasanti Ricci e la Marini, Jacopo Durandi, per i Pugno,
ed il sostituto avvocato generale dello Stato Gastone Dallari, per il
Presidente del Consiglio dei Ministri.
1. – Con atto di citazione, notificato il 4 ottobre 1963, il signor
Giorgio Ginepro Pugno conveniva avanti al Tribunale di Torino i coniugi
Pugno Evasio e Pugno Pia ved. Sacerdote per sentire dichiarare, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 269 del Codice civile, che esso
attore è figlio naturale del fu Pugno Umberto, dante causa dei
convenuti. Contro tale istanza costoro eccepirono la improponibilità,
essendo decorso, già prima della notifica della citazione, il termine
di cui all’art. 271 del Codice civile. Poiché l’attore ebbe a
sollevare questione di illegittimità costituzionale dell’art. 271,
primo comma, nella parte relativa all’introduzione del predetto
termine, per violazione degli artt. 3 e 30, terzo comma, della
Costituzione, il Tribunale, con sua ordinanza del 28 maggio 1965,
accertata la rilevanza della risoluzione della proposta questione al
fine della decisione della causa, la ritenne non manifestamente
infondata, in base alla considerazione che, una volta dichiarata, per
effetto della sentenza di questa Corte n. 7 del 1963, la
incostituzionalità dell’art. 123 delle disposizioni di attuazione del
Codice civile, l’osservanza del termine predetto è venuta a
determinare una ingiustificata discriminazione fra i nati prima del 1
luglio 1939, i quali non possono mai giovarsi del principio affermato
con la citata sentenza, e quelli nati successivamente, per i quali si
rende possibile proporre tempestiva azione, e nella considerazione
altresì che analoga censura di non giustificata diversità di
trattamento è prospettabile anche ove si confronti la situazione dei
nati prima della data suindicata che si trovino nelle condizioni di cui
al n. 2 dell’art. 269 per i quali si rende possibile la proposizione
dell’azione entro due anni dal passaggio in giudicato della sentenza, o
dalla scoperta del documento attestativo della paternità, e quella
degli altri per i quali il titolo giustificativo dell’azione deriva dal
n. 1. L’ordinanza, con cui il Tribunale ha disposto la sospensione del
giudizio e l’invio degli atti alla Corte costituzionale, è stata
regolarmente notificata e comunicata e pubblicata nel n. 326 della
Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 1965.
Si è costituito avanti alla Corte l’attore, rappresentato e difeso
dagli avvocati Arturo Colonna e Carlo Fornario, i quali nelle deduzioni
depositate il 23 settembre 1965, fanno rilevare come i limiti entro i
quali sono venuti ad essere contenuti gli effetti della pronuncia della
Corte, quando questa si innesti nella preesistente intelaiatura
normativa della filiazione naturale, sono tali da determinare nuove
lesioni del principio di eguaglianza, nonché dell’altro principio
consacrato nell’art. 30, che impone apposita tutela della filiazione
naturale. Ciò perché alla data della pubblicazione della sentenza
della Corte il termine di cui all’art. 271 era decorso per tutti i nati
anteriormente al 1 luglio 1939, sicché costoro non potrebbero mai
avvantaggiarsi della statuizione in essa consacrata, salvo che nel caso
previsto dal n. 2 dell’art. 269 per cui il termine è spostato a due
anni dalla formazione del giudicato o dal rinvenimento dei documenti
contenenti la dichiarazione di paternità. Sicché, volendo mantenere
fermi, pur dopo la sentenza della Corte, i termini dell’art. 271, si
verrebbe a dar vita a ben quattro diverse situazioni in cui possono
venirsi a trovare i figli naturali, ai fini della proponibilità
dell’azione di riconoscimento, secondo il fortuito rapporto che può
venire a verificarsi fra la data della nascita e gli eventi invocabili
a fondamento dell’azione medesima. Aggiunge che il termine di
decadenza di cui all’art. 271, oltre a riuscire contrario al principio
di eguaglianza e di tutela degli illegittimi, è estraneo alla nostra
tradizione giuridica, che, di regola, attribuisce carattere di
imprescrittibilità alle situazioni relative allo status familiare
(come per es. avviene per la ricerca della maternità). Conclude
chiedendo che sia dichiarata l’incostituzionalità del termine di
decadenza dell’art. 271, o comunque della disciplina della sua
decorrenza.
Si sono costituiti anche i signori Pugno, rappresentati e difesi
dagli avvocati Jacopo Durandi, Ferdinando Rango di Aragona e Giovanni
Anzà, con deduzioni del 30 settembre 1965, nelle quali si sostiene che
la Corte ha già con la sentenza n. 7 citata riconosciuto
implicitamente, in quanto ha escluso l’applicazione dell’art. 27 della
legge n. 87 del 1953, la piena legittimità costituzionale dell’art.
271, sicché la questione sollevata, riguardando un’applicazione della
legge al caso concreto, esula dalla sua competenza e va rigettata.
Con successiva memoria, depositata il 2 marzo 1967 le stesse parti
ribadiscono il rilievo ora menzionato ed, a chiarirne la portata, fanno
osservare come la sentenza stessa ha lasciato in vigore il terzo comma
dell’art. 123, il quale assoggetta al termine dell’art. 271 l’azione di
riconoscimento per i casi previsti dal Codice del 1865, che pure non
poneva ad essa alcun termine.
Fanno poi considerare che l’attore avrebbe potuto chiedere al
magistrato ordinario, anche prima dell’entrata in vigore della
Costituzione, la disapplicazione dell’art. 123, dato che la distinzione
effettuata dal medesimo fra i nati prima e dopo il 1 luglio 1939 doveva
considerarsi invalida perché, come norma di attuazione, non avrebbe
dovuto contrastare con l’art. 271, che non la menziona in alcun modo.
Che, in ogni caso, nei riguardi dell’attore medesimo, il termine
dell’art. 271 veniva a scadere dopo l’entrata in vigore della
Costituzione, sicché si sarebbe ben potuto da lui proporre la
questione di incostituzionalità, ai sensi della VII disposizione
transitoria, e non essendo ciò stato fatto, non si può ora in alcun
modo riparare alla precedente inadempienza. Insiste nelle conclusioni
già prese.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con
deduzioni in data 20 gennaio 1966. In esse, dopo avere fatto
considerare quanto già dedotto dai resistenti privati circa la
possibilità che il Ginepro avrebbe avuto di denunciare la
incostituzionalità ora dedotta, avanti ai giudici ordinari, ai sensi
della VII disposizione transitoria, rileva che la decadenza del termine
per i nati prima del 1939 corrisponde all’esigenza di certezza, che
impone il rispetto delle situazioni divenute definitive, ed è ritenere
che l’apposizione di limiti temporali all’esercizio di un diritto può
creare pregiudizi di fatto, non già violare l’art. 3 della
Costituzione. Violazione di tale articolo non può riscontrarsi neppure
pel fatto che l’art. 269, n. 2, consente la riapertura del termine nei
casi di sentenza passata in giudicato o di rinvenimento di nuovo
documento, dato che è inerente alla natura di tali eventi un simile
effetto. Anche sotto il riguardo dell’art. 30 della Costituzione la
questione si palesa infondata, dato che limiti al riconoscimento della
paternità naturale sono da esso previsti, e quello stabilito nella
specie non ha carattere odioso a danno dei figli. Aggiunge che ha
errato il Tribunale di Torino nel ritenere che il venir meno della
preclusione di cui all’art. 123 in conseguenza della sentenza di questa
Corte debba avere per effetto l’esperibilità dell’azione di paternità
prescindendo da limiti temporali, operando cioè una remissione in
termini. Tale remissione potrà essere oggetto di un provvedi mento
legislativo (che sembra essere già allo studio), ma non mai
effettuarsi per opera del giudice costituzionale.
Con memoria depositata il 27 febbraio 1967 l’Avvocatura, dopo avere
ribadito le precedenti osservazioni, mette in rilievo che una
declaratoria di illegittimità costituzionale non farebbe conseguire il
risultato sperato dall’attore, perché non si potrebbe ammettere la
totale invalidità del termine dell’art. 271, e neppure sottrarre ad
esso solo una ristretta cerchia di interessati, che verrebbero a godere
di un vero privilegio. Insiste nel chiedere una pronuncia di
infondatezza della questione.
2. – Con altra ordinanza dell’8 novembre 1965, emessa nel corso di
un giudizio promosso avanti al Tribunale di Roma da Maria Nicoletta
Cappellacci contro Maria Marini ved. Ricci e Giulio Mario Colasanti
Ricci, per riconoscimento di filiazione naturale da Rolando Ricci,
dante causa dei convenuti, è stata sollevata analoga questione di
illegittimità costituzionale dell’art. 271 del Codice civile, nella
considerazione che questa, rilevante per la decisione della causa, non
può ritenersi infondata, in quanto il breve termine di decadenza
dall’articolo stesso disposto appare contrastante con l’esigenza di
assicurare ogni possibile tutela della filiazione naturale, qual è
imposta dall’art. 30 della Costituzione. L’ordinanza debitamente
notificata e comunicata è stata pubblicata nel n. 105 della Gazzetta
Ufficiale del 30 aprile 1966.
Si è costituita avanti alla Corte la signora Cappellacci,
rappresentata e difesa dall’avv. Gioacchino Magrone, con deduzioni
depositate il 16 febbraio 1966. In queste, richiamate le sentenze nn.
7 del 1963 e 70 del 1965, si afferma che da esse risulterebbe affermato
il principio del carattere immediatamente precettivo ed innovativo
dell’art. 30, terzo comma, della Costituzione, nel senso di assicurare
ai figli nati fuori del matrimonio, fra le varie forme di tutela quella
(da considerare più importante delle altre) costituita dall’azione di
riconoscimento della paternità naturale; limitabile sì dalla legge,
ma solo a patto che il limite non sia tale da far venire meno la
protezione voluta assicurare, e si giunge alla conclusione che
l’apposizione di un breve termine di decadenza all’esperimento
dell’azione predetta produce un effetto di tal genere contraddicendo
agli intenti che hanno ispirato l’articolo stesso. Articolo che pure se
modificato nella stesura originaria del progetto di costituzione, ha
conservato immutato il primo comma che impone ai genitori naturali il
dovere di mantenere, educare ed istruire i figli, e quindi esige
l’attribuzione a costoro di uno status familiare, senza di che quel
dovere rimarrebbe lettera morta. Si procede poi, nelle deduzioni, ad
una diffusa esposizione delle norme del Codice civile del 1865 e dei
lavori preparatori del nuovo Codice, e se ne deduce che in quella fase
della legislazione e nei progetti di riforma non sussisteva il termine,
che venne poi apposto dall’art. 271, disponendosi invece una disciplina
unitaria, tanto per la ricerca della paternità quanto per quella della
maternità. Si afferma altresì che la ragione del mantenimento dei
limiti alla ricerca della paternità fu dai riformatori del Codice
fatta consistere nell’esigenza di preservare i giovani o gli uomini
facoltosi dalla possibilità di insidie e di ricatti, non già dalla
necessità di salvaguardare gli interessi della famiglia legittima.
Tale essendo la genesi dell’attuale art. 271, si deve ritenere che il
termine da esso apposto, risultando ispirato ad una ratio diversa da
quella che, secondo l’art. 30 della Costituzione, dovrebbe presiedere
ai rapporti relativi alla filiazione naturale, sia con esso
contrastante. Conclusione convalidata anche dal fatto che per i
rapporti medesimi, allorché riguardano l’azione di riconoscimento
della maternità, si fa valere il principio della imprescrittibilità
dell’azione: ciò che non si concilierebbe con l’esigenza di tutela
della famiglia legittima se fosse vero che lo scopo del limite posto
dall’art. 271 si rivolgesse ad assicurare tale tutela. E poiché
l’imprescrittibilità è principio che vale per tutte le azioni
riguardanti diritti indisponibili, come sono quelle di stato, appare
abnorme la disposizione denunciata dettata per la ricerca della
paternità, mentre limiti nei riguardi di questa devono ritenersi
consentiti solo se rivolti (oltre che ad escludere l’attribuzione dello
status di figli naturali agli adulterini ed incestuosi) ad assicurare
la preminenza dei membri della famiglia legittima rispetto a quella
naturale.
Si fa poi osservare che la restrizione posta dall’art. 271 appare
assolutamente ingiustificata nella fattispecie che ha dato luogo alla
presente controversia, dato che il mancato esperimento della azione nel
termine non è dovuto ad inerzia dell’interessata (il cui rapporto di
filiazione naturale era stato già accertato giudizialmente, al fine
dell’attribuzione dell’assegno alimentare) ma per l’esistenza dell’art.
123 delle disposizioni di attuazione, dato che costei è nata prima del
luglio 1939.
Dopo avere affermato che la maggiore ampiezza consentita alla
ricerca della paternità gioverà ad accrescere il senso della
responsabilità in chi dà vita a prole illegittima e quindi,
indirettamente, a potenziare la famiglia legittima, conclude chiedendo
che venga dichiarata la incostituzionalità del termine previsto
dall’art. 271.
Si sono costituiti anche i convenuti Colasanti – Marini,
rappresentati e difesi dall’avv. Cesco Nigro, che, nelle deduzioni
depositate l’11 giugno 1966, sostiene che il termine di cui si contesta
la legittimità, mentre soddisfa l’esigenza della certezza e stabilità
dei rapporti giuridici inerenti alla famiglia legittima, trova il suo
testuale fondamento nell’ultimo comma dell’art. 30 della Costituzione
che demanda al legislatore di fissare i limiti per la ricerca della
paternità e conclude chiedendo che la questione venga dichiarata
infondata.
In una successiva memoria, depositata il 2 marzo 1967, la stessa
difesa, dopo avere fatto osservare che non potrebbe rientrare nella
competenza della Corte giudicare della legittimità della brevità o
meno di un termine legale e che, in ogni caso, quello stabilito dalla
norma in contestazione non può ritenersi breve, sostiene che
l’apposizione del medesimo non può non rientrare nel concetto generale
di limite previsto dall’art. 30, ultimo comma, comprensivo di tutte le
modalità che il legislatore ritenga di prescrivere per l’esercizio
dell’azione (come la Corte ha riconosciuto con la sentenza n. 70 del
1965, relativa al giudizio di delibazione delle domande rivolte alla
ricerca di cui all’articolo stesso). Passando poi ad esaminare la tesi,
secondo cui il diritto dell’attrice all’accertamento della paternità
sarebbe sorto per effetto della sentenza n. 7 di questa Corte, fa
osservare che nulla impediva ad essa di promuovere quella stessa azione
che ha condotto alla pronuncia di illegittimità costituzionale
dell’art. 123, dato che a tutti è consentito sollevare, nella sede
competente, la questione dell’invalidità di una norma lesiva dei
propri interessi; mentre la sentenza abrogativa emessa dalla Corte
costituzionale non può fornire un titolo per legittimare la
proposizione di un’azione già in precedenza estinta. Infine contesta,
sulla base dell’interpretazione dello stesso art. 30, l’esattezza della
tesi avversaria circa l’asserita imprescrittibilità dell’azione di
reclamo dello status di figlio naturale, e dell’altra relativa alle
finalità, diverse da quelle della tutela della famiglia legittima, cui
l’art. 271 sarebbe rivolto, e ribadisce le conclusioni già prese.
Le due cause riguardano questioni sostanzialmente eguali, anche se
prospettate in termini parzialmente diversi, e pertanto si rende
opportuno procedere alla loro riunione per deciderle con unica
sentenza.
1. – L’ordinanza del Tribunale di Roma, pur prendendo atto, al fine
del giudizio sulla rilevanza, del motivo addotto dall’attrice per
giustificare il promuovimento dell’azione oltre il termine stabilito
dall’art. 271 del Codice civile (fatto consistere nell’impedimento ad
esso opposto dalla presenza dell’art. 123 delle disposizioni di
attuazione del Codice stesso, la cui illegittimità è stata dichiarata
con la sentenza di questa Corte n. 7 del 1963), ha tuttavia ritenuto
che la questione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 271
predetto fosse prospettabile sotto l’aspetto del contrasto fra la
brevità del termine dal medesimo stabilito per la proposizione
dell’azione di riconoscimento della paternità naturale e le esigenze
di tutela dei nati fuori del matrimonio voluta assicurare dall’art. 30,
ultimo comma, della Costituzione.
La questione, così formulata, non può ritenersi fondata. Infatti,
se non è contestabile che la disposizione costituzionale invocata ha
inteso innovare alla precedente normazione in materia, nel senso di
meglio assicurare la tutela giuridica e sociale dei figli nati fuori
del matrimonio, e correlativamente di estendere i casi di ricerca della
paternità (la quale è da considerare forma fondamentale per
l’attuazione di tale tutela, secondo quanto questa Corte ha statuito
con la sentenza n. 70 del 1965), è altresì non dubbio l’intento che
anima la norma medesima di arrestare la protezione disposta della prole
naturale al punto in cui essa si palesi incompatibile con i diritti
della famiglia legittima. Ora l’apposizione di un termine entro cui sia
da esperire l’azione di riconoscimento non può ritenersi sottratto al
potere conferito al legislatore dallo stesso ultimo comma dell’articolo
citato di determinare i limiti entro cui contenere la ricerca della
paternità. Infatti, mentre sembra ovvio che nel generico concetto di
“limite” debba farsi rientrare ogni specie di circostanze relative
all’esercizio dell’azione medesima, e quindi anche l’apposizione di un
termine, non può contestarsi che quest’ultima corrisponda all’esigenza
di salvaguardare, oltre che gli interessi della famiglia legittima,
anche quelli della persona verso cui la ricerca si rivolge (secondo
quanto è stato ritenuto dalla citata sentenza n. 70); interessi che
poi coincidono con gli altri più generali della certezza del diritto,
indubbiamente compromessi dal consentire l’esperibilità dell’azione a
tempo indeterminato.
Nessun pregio ha l’argomento che in contrario si vorrebbe desumere
dall’imprescrittibilità di altre azioni di stato (come quella relativa
alla ricerca della maternità) poiché, non sussistendo un principio
costituzionale al quale possa venire ricondotta l’imprescrittibilità
stessa, deve ritenersi rilasciato alla discrezionalità del legislatore
lo stabilirla in alcuni casi (come, per es., oltre che per l’ipotesi
prima ricordata, per le azioni del figlio naturale consentite, ai sensi
dell’art. 279 del Codice civile, allo scopo di ottenere la
corresponsione degli alimenti a carico del genitore), e non già in
altri, come quello in specie, destinato al conseguimento di effetti
più estesi e penetranti.
Né meglio fondata appare l’eccezione quando la si consideri sotto
l’aspetto, posto in rilievo dall’ordinanza, della brevità del termine
stabilito dall’art. 271. La questione così prospettata potrebbe
ottenere adito in un giudizio di legittimità costituzionale solo in
quanto risulti che il termine venga determinato in tal modo da riuscire
irrazionale, rendendo solo apparente la possibilità di esercizio del
diritto, secondo la Corte ha avuto occasione di statuire, fra le altre,
con le sentenze n. 93 del 1962 e nn. 107 e 118 del 1963. È però da
escludere che incongruo possa considerarsi il termine in esame, perché
il periodo di due anni da essa stabilito non rende estremamente
disagevole, né tanto meno impossibile l’esperimento dell’azione.
2. – Diversa è l’impostazione che l’ordinanza del Tribunale di
Torino dà alla questione sollevata, perché con essa non si contesta
l’apponibilità di un termine all’azione in esame, ma si afferma invece
che, ove si mantenesse fermo quello stabilito dall’art. 271, pur dopo
l’avvenuta invalidazione dell’art. 123 delle disposizioni di attuazione
del Codice civile, per effetto della citata sentenza n. 7 del 1963, si
verrebbe ad introdurre un’ingiustificata discriminazione fra i nati
prima del 1 luglio 1939 (per i quali la eliminazione della norma
impeditiva dell’azione rimarrebbe priva di ogni effetto) e quelli nati
successivamente, che invece ne potrebbero beneficiare, con conseguente
violazione del principio di eguaglianza, oltre che di quello dell’art.
30, posto a tutela della filiazione naturale.
Anche tali censure devono ritenersi infondate. L’ostacolo,
presentato dall’art. 123 delle disposizioni di attuazione,
all’esperimento dell’azione per la dichiarazione giudiziale di
paternità in tutti i casi consentiti dall’art. 269 del nuovo Codice
civile, da parte dei figli nati prima del 1 luglio 1939, è venuto a
cessare per effetto dei nuovi principi introdotti dalla Costituzione
repubblicana che hanno limitato i poteri del legislatore, nel senso di
conferire una maggiore protezione alla prole illegittima, nonché di
escludere ogni discriminazione nel godimento della medesima che potesse
apparire arbitraria. Pertanto dal giorno dell’entrata in vigore della
Costituzione medesima rimaneva aperto a tutti coloro che da tali
discriminazioni si fossero ritenuti colpiti il potere di promuovere
l’azione per il riconoscimento del diritto vantato. Non può ritenersi
che si produca (come ritiene l’ordinanza) una ingiustificata diversità
di trattamento fra i nati prima del 1 luglio 1939 e quelli nati
successivamente, poiché anche ai primi (salvo che non si fosse
verificata nei loro riguardi la decadenza dal diritto per decorso dei
termini di cui all’art. 271 del Codice civile prima dell’entrata in
vigore della Costituzione) rimaneva consentito di richiedere il
riconoscimento giudiziale della paternità entro i termini predetti, o
eventualmente nei due anni decorrenti dal 1 gennaio 1948.
Il far discendere dall’inerzia di coloro, che avrebbero potuto
sperimentare l’azione a tutela del diritto venuto a costituirsi in loro
favore, un effetto estintivo del medesimo, come non può, sulla base
delle considerazioni svolte in precedenza, ritenersi contrastante con
l’art. 30 della Costituzione, così non trova ostacolo nell’art. 3,
apparendo chiaro che il principio di eguaglianza non è violato quando
la legge dispone trattamenti diversi in confronto a soggetti
diversamente solleciti nella tutela delle proprie pretese, ed anzi
violato sarebbe se, al contrario, si adottasse una disciplina uniforme
nei due casi.
Tanto meno la violazione denunciata può riscontrarsi, come ritiene
l’ordinanza, nella distinzione risultante dal secondo comma dell’art.
271 fra i casi dei numeri 1 e 4 dell’art. 269 e quello del n. 2,
essendo ovvio che il termine dei due anni non avrebbe potuto (senza
violazione del citato art. 2935 del Codice civile) farsi decorrere dal
raggiungimento della maggiore età allorché il titolo costitutivo del
diritto a richiedere la dichiarazione giudiziale di paternità si sia
formato dopo il compimento di quell’età.
3. – Nessuna incidenza sulla situazione giuridica derivante dai
principi che si sono richiamati può attribuirsi alla citata sentenza
n. 7 del 1963, essendosi questa limitata a dichiarare la illegittimità
costituzionale dell’art. 123, primo e secondo comma, nella
considerazione della irragionevolezza imputabile alla discriminazione
da esso effettuata, in via transitoria, fra i nati in epoca anteriore e
quelli nati dopo il 1 luglio 1939, ma non ha nulla statuito in ordine
alla decorrenza del termine di decadenza dell’azione da parte dei
primi. Tale questione (estranea alla fattispecie allora in discussione)
dev’essere decisa secondo i criteri che la Corte ha avuto ripetutamente
occasione di enunciare. Più recentemente, con la sentenza n. 127 del
1966, ha statuito che gli effetti delle proprie pronuncie di
accoglimento, quali si deducono dalla disciplina costituzionale della
materia (risultante dall’art. 136, primo comma, della Costituzione, in
relazione all’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 ed
all’art. 30 della legge di attuazione n. 87 del 1953) non sono
paragonabili a quelli del jus superveniens, poiché discendono dalla
dichiarazione di una invalidità che inficia fin dall’origine (o fin
dalla emanazione della Costituzione per leggi a questa anteriori) la
disposizione impugnata. Pertanto le pronuncie stesse fanno sorgere
l’obbligo per i giudici avanti ai quali si invocano le norme di legge
dichiarate costituzionalmente illegittime di non applicarle, a meno che
i rapporti cui esse si riferiscono debbano ritenersi ormai esauriti in
modo definitivo ed irrevocabile, e conseguentemente non più
suscettibili di alcuna azione o rimedio, secondo i principi invocabili
in materia.
L’applicazione in concreto di tali principi compete al giudice del
merito, che dovrà effettuarla con riguardo alla natura ed entità del
vizio accertato nella legge, nonché alla particolarità delle
circostanze della controversia a lui sottoposta.
LA CORTE COSTITUZIONALE
disposta la riunione dei due giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale,
proposte dal Tribunale di Roma con ordinanza 8 novembre 1965 e dal
Tribunale di Torino con ordinanza 28 maggio 1965, dell’art. 271 del
Codice civile, in riferimento agli artt. 3 e 30 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 aprile 1967.
GASPARE AMBROSINI – ANTONINO PAPALDO
– NICOLA JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO
– BIAGIO PETROCELLI – ANTONIO MANCA –
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI.